martedì 31 agosto 2010

La exit strategy americana dall’Iraq

I militari statunitensi escono oggi definitivamente l’Iraq, lasciando solo 50.000 “formatori” che rimarranno ancora un anno. Un segnale sulla fine della guerra o piuttosto un’altra decisione affrettata e raffazzonata come l’avventato annuncio di Bush dell’aprile del 2003, “La guerra è finita” ?. Conoscendo quei luoghi, le tradizioni, la cultura di quella gente si è portati ad esprimere qualche perplessità sulla scelta temporale e le modalità della “exit strategy” voluta da Obama, di fatto molto poco coerente alla reale situazione che ancora caratterizza l’Iraq e l’intera regione del Centro Asia. Troppo rapidamente è stato dimenticato che in Iraq le ultime elezioni hanno dato risultati a dir poco ambigui e che a Bagdad ancora non è stato formato un Governo in grado di assicurare la continuità politica ed istituzionale nel Paese. Per contro, Al Qaeda conferma la sua presenza e tutta la sua potenzialità operativa con i quotidiani attacchi terroristici, per lo più finalizzati a colpire tutte le costituende strutture irachene delle nuove Forze Armate ed alla Polizia. La sicurezza interna è affidata a strutture di Intelligence in forma embrionale, destinate ad essere affiancate e supportate da “contractors” privati. L’economia non decolla ed i curdi a nord “scalpitano”. In questa situazione, solo quanto avverrà in futuro potrà confermare o sconfessare la validità delle scelte del “Premio Nobel per la Pace”, il Presidente degli USA Obama. Sul piano operativo qualche dubbio esiste se non altro per quanto attiene al corretto e completo “passaggio di consegne e responsabilità” fra le Truppe USA e quelle irachene, avvenuto in tempi rapidissimi ed assolutamente non congrui con la realtà locale che, piuttosto, imporrebbe lunghi periodi di consolidamento. Si spera che i 50.000 americani destinati a rimanere sul terreno non diventino insieme alla popolazione civile irachena un obiettivo sacrificale alla mercè dei terroristi ed, ancora, che i mutati equilibri di forza in Iraq non abbiano ricadute negative sull’embrionale processo di pace appena iniziato fra palestinesi ed israeliani. Un Iraq non adeguatamente “controllato” potrebbe anche rendere più difficile ed amplificare la già precaria stabilità dell’area prospiciente il Golfo di Aden ed il Corno d’Africa. In Palestina è ancora in atto il contrasto tra gli esponenti di Al Fatah, eredi della tradizione politica di Yasser Arafat, e gli uomini di Hamas. Differenze esaltate dalle filosofie e dalle strategie politiche che caratterizzano le due formazioni. Dichiaratamente “laicista” Al Fatah (in arabo significa “La conquista”), molto vicina al fanatismo Hamas (“Lo zelo”), in cui le venature religiose fondamentaliste cominciano ad apparire in maniera sempre più evidente e preoccupante (nasce come una diretta filiazione dei Fratelli Musulmani egiziani da cui ha iniziato Ayman Al Zawahiri, il numero due di Al Qaeda). Al Qaeda sta dimostrando di non essere disattenta a tutto ciò. Nella striscia di Gaza Al Qaeda ha iniziato a sfidare Hamas contemporaneamente all’uscita degli americani dall’Iraq e nello stesso momento che terroristi salafiti attaccavano membri del Governo somalo a Mogadiscio. Una recentissima battaglia urbana a Rafah è stato il primo segnale. L'assalto a una moschea da parte delle milizie di Hamas con almeno 22 morti e 120 feriti, dopo la ribellione di un ispirato da Al Qaeda. Ad innescare lo scontro un gruppo salafita che ha preso lo spunto da un sermone pronunciato in occasione della preghiera del venerdì di Abdel-Latif Mussa, medico e leader riconosciuto del gruppo fondamentalista Jund Ansar Allah che al grido di "noi apparteniamo ad Al Qaeda, Osama Bin Laden é la nostra guida", ha proclamato "l'emirato islamico" di Gaza. In questo contesto, Al Qaeda potrebbe trovare i presupposti per rinforzare le proprie posizioni in tutta l’area Medio Orientale e del Centro Asia approfittando proprio della situazione irachena al momento caratterizzata da una realtà politico - militare non propriamente configurata, di ciò che avviene in Afghanistan dove è ancora lunga la strada che il Contingente NATO dovrà percorrere per raggiungere la vittoria, dalle rinnovate minacce iraniane e dagli accordi siriano - afgani ed, infine, dalla estrema instabilità del Corno d’Africa e del Golfo di Aden. Parametri complessi la cui validità non è determinabile a priori. Un solo auspicio, quello che approcci e decisioni politiche di facciata non concorrano a vanificare gli sforzi che la comunità internazionale ha affrontato fino ad ora per tentare di sconfiggere il terrorismo internazionale.
31 agosto 2010

mercoledì 25 agosto 2010

AL Qaeda minaccia il Golfo di Aden

Mogadiscio, la capitale della Somalia martirizzata da anni di guerra civile ieri ha subito un altro attacco del terrorismo internazionale vicino ad Al Qaeda. Tre uomini armati, appartenenti al movimento integralista degli Shabaab (il cui portavoce ha rivendicato l’evento), hanno sferrato un’azione combinata colpendo un albergo della città, uno dei pochi funzionanti. E’ abitualmente frequentato dai membri del Governo provvisorio somalo che risiede a Nairobi in Kenia e si trasferisce di volta in volta a Mogadiscio utilizzando l’infrastruttura assaltata, considerata in area sicura in quanto molto vicina a Villa Somalia, sede ufficiale governativa. Il Ministro somalo dell’Informazione Abderrahman Omar Uthman riferisce di 41 vittime, mentre secondo Al Jazira i morti sono almeno 60 con decine di feriti. A prescindere dalle cifre contrastanti sui coinvolti, ciò che è accaduto riconferma le ipotesi di una penetrazione in Africa del terrorismo internazionale che, sotto la gestione di Al Qaeda, sta impossessandosi di una regione del mondo importantissima, il Corno d’Africa. Un’area geografica che si affaccia sul Golfo di Aden di fronte allo Yemen e che ospita le maggiori rotte commerciali e di rifornimenti energetici trasportati via mare. Un tratto di acqua dove i “cosiddetti pirati somali” imperversano da tempo e colpiscono, quando vogliono nonostante il presidio di consistenti Forza Navali internazionali. A distanza di quasi 20 anni le travagliate vicende che dall’inizio degli anni novanta hanno sconvolto la Somalia, non sono ancora risolte. La comunità internazionale, in questo lasso di tempo, ha troppe volte sottovalutato l’importanza di questa regione africana lasciando insoluti problemi che sicuramente aiutano il terrorismo internazionale. A tale riguardo, è assolutamente condivisibile l’analisi del Ministro Frattini, quando afferma ''se consegniamo la Somalia al terrorismo islamico fondamentalista, tutto il Corno d'Africa precipiterà nel caos''. L’UE e l’ONU continuano a condannare, riversano milioni di aiuti economici sul territorio spesso utilizzati dai “signori della guerra” locali ma non si impegnano in iniziative concrete. Quanto avviene in Afghanistan, in Iraq non viene letto in sistema con quanto accade nel Golfo di Aden, nello Yemen e nell’Africa subsariana. Nel 2003 ci fu un impegno internazionale per controllare lo spazio marino che divide l’Asia dall’Africa, proprio per prevenire possibili insediamenti terroristici di Al Qaeda nel Corno d’Africa, come in passato era già avvenuto in Sudan. Oggi è presente ancora uno schieramento navale militare internazionale che però sembra solo orientato a prevenire e sventare atti di pirateria contro il commercio marittimo piuttosto che a bloccare un travaso di cellule terroristiche. In questo contesto, la presenza dei pirati nel Golfo di Aden è aumentata ed è evoluta con un crescente pericolo per il commercio marittimo e con il consolidamento di basi logistiche ben strutturate, pronte a fare da sponda fra le due rive del Golfo. I gruppi terroristici da sempre presenti in Somaliland e nel Puntland sono impegnati a portare avanti accordi con la pirateria per instaurare una collaborazione attiva che esalti lo stato di tensione. I terroristi utilizzano i pirati e le loro conoscenze di quel tratto di mare per garantire sostegno alle loro attività eversive ed i pirati oltre ad abbordare il naviglio commerciale, controllano il golfo e garantiscono la sicurezza per il passaggio “double way” di navi cariche di armi ed esplosivo e di gruppi operativi da o verso l’Afghanistan, lo Yemen o l’Iraq. Una situazione di criticità che si sta allargando con la presenza di Al Qaeda anche nella fascia subsahariana e nei Paesi del Magreb (Mauritania, Niger, Mali, ecc.), dove si verificano da tempo episodi simili a quanto avviene in mare e che inducono a pensare ad una regia comune. Nel Golfo di Aden i corsari saccheggiano le navi e sequestrano gli equipaggi, la regione subsariana è affidata alla “alta vigilanza” di bande dedite al sequestro di persona e di convogli. Molti analisti ormai condividono la certezza che i pirati, un tempo pescatori, ora sono divenuti combattenti organizzati, strutturati in vere e proprie unità operative complesse coordinate da “Consiglieri Militari” di Al Qaeda o da altri esperti del terrorismo islamico estremista. L’attacco di ieri a Mogadiscio conferma che i terroristi si muovono come e quando vogliono, per cui i problemi non possono essere lasciati alla deriva ed alla tempistica che caratterizza la diplomazia internazionale. La situazione deve, invece, essere affrontata con urgenza e con azioni incisive che cancellino il rischio che la Somalia possa diventare un nuovo Afghanistan. Non ”dichiarazioni di intenti” ma immediati sforzi congiunti che coinvolgano anche forze militari occidentali da affiancare all’attuale impegno dell’Unione Africana, oggi unica presente in area per mandato ONU. Una task force a cui affidare il compito di efficace contrasto alla pirateria marittima non limitato alla sola difesa delle rotte commerciali e nello stesso tempo un capillare ed affidabile controllo del territorio, in particolare in Somaliland. In caso contrario sarà sempre crescente il rischio che con la complicità dei pirati somali, organizzazioni operative di Al Qaeda si trasferiscano attraverso lo Yemen nel Corno d’Africa provenendo dalle Aree Tribali pakistane e da molte province afgane ormai non più sicure. Se ciò avvenisse, il ricatto terroristico oggi proposto con l’impiego degli IED sarebbe arricchito dal controllo delle rotte commerciali e delle “vie del petrolio” da oriente verso occidente ed il Golfo di Aden potrebbe diventare un crocevia di traffici illeciti, primo fra tutti armi, droga e cellule terroristiche dirette ad Ovest.
25 agosto 2010

lunedì 23 agosto 2010

I Contractors e la sicurezza in Afghanistan ed Iraq

In Iraq a breve rimarranno solo 50.000 soldati americani con compiti addestrativi. Costoro saranno affiancati da circa 7000 “Contractors” privati ai quali saranno affidate funzioni di sicurezza. Una decisione presa bilateralmente dal Presidente USA Obama e dal Presidente iracheno. In Afghanistan, invece, in questi giorni Karzai, ha deciso di sciogliere entro la fine dell’anno organizzazioni del genere sulla cui affidabilità continua ad esprime grossi dubbi in quanto ritenute poco efficaci, se non dannose, nella guerra contro i Talebani. Organizzazioni parallele che si affiancano al sistema di sicurezza ufficiale afgano, soluzione che non può essere condivisa in uno Stato di Diritto e, perché, come ripete il Presidente, "alcune di loro convivono e fiancheggiano gli insorti talebani”. Mentre, quindi, l’Autorità nazionale afgana cerca di riappropriarsi delle proprie attribuzioni istituzionali, in Iraq si assiste ad un’inversione di tendenza sul piano formale e sostanziale e che in passato ha anche creato concreti problemi in materia di diritto internazionale bellico ed umanitario. Sia in Afghanistan sia in Iraq l’attore principale è il Dipartimento di Stato americano che però affronta il problema in maniera differente. A Kabul, il nuovo Comandante americani Petraeus guarda con occhio favorevole alle decisioni di Karzai in tema di gestione della sicurezza interna mentre a Bagdad Washington concorda con il governo locale soluzioni del passato i cui i Contractors dovrebbero essere destinati ad un ruolo sostanziale. In Iraq, infatti, sta per raddoppiare il numero delle agenzie di sicurezza private che saranno destinate alla difesa di 5 aree fortificate abbandonate dalle truppe americane ed il “Times, citando anonimi funzionari dell'amministrazione, informa che i contractors privati sfrutteranno le tecnologie radar per avvertire del fuoco nemico, per individuare bombe (IED) sulle strade e controllando il territorio con l’utilizzo di “aerei telecomandati”. Costoro, inoltre, potrebbero anche essere impiegati come ''forze di reazione rapida'' nelle operazioni di salvataggio dei civili in pericolo. In questo modo, secondo la valutazione di Washington,. la missione Usa si dovrebbe trasformare “da operazione militare a civile”, dimenticando però che “contractor” significa anche imprenditore, termine che mal si concilia con le operazioni di sicurezza.
23 agosto 2010.

mercoledì 18 agosto 2010

Le intenzioni di Obama stridono con la realtà operativa

Obama ha sviluppato la sua campagna elettorale promettendo agli americani di chiudere il carcere di Guantanamo e di ritirare le Truppe americane dall’Afghanistan e dall’Iraq entro il 2011. Programma che accompagnato da promesse di natura sociale a favore della popolazione statunitense gli ha assicurato la vittoria elettorale a Presidente degli Stati Uniti e subito dopo di essere insignito del Premio Nobel per la Pace per le “intenzioni piuttosto che per i fatti”. Guantanamo non è stato ancora chiuso, Il Generale McChrystal Comandante delle Truppe in Afghanistan è stato destituito perché critico nei confronti del “Capo Supremo” e sostituito con il con il generale Petraeus che poco dopo l’insediamento esprime dubbi sulla possibilità di lasciare da soli gli afgani nel 2011. I Talebani, nel frattempo, stanno tentando di riappropriarsi del loro vecchio ruolo politico chiedendo di avviare approfondimenti insieme all’ONU, NATO ed altri organismi internazionali costituendo una commissione “per valutare il problema sulle vittime civili nel paese e sviluppare un’appropriata indagine sui danni collaterali". Una risposta degli studenti islamici agli osservatori internazionali che li avevano definiti i principali responsabili delle numerose stragi di civili innocenti. Un segnale importante che i Talebani lanciano all’Occidente ed al governo Karzai, sicuri del controllo del territorio almeno in alcune Province dell’Afghanistan. Lo fanno riaffermando l’interpretazione estrema della legge coranica nel momento che un loro portavoce ha formalizzato la richiesta contemporaneamente alla notizia che dalla Provincia di Kunduz arrivava la notizia dell’uccisione per lapidazione di una coppia di giovani afgani accusati di adulterio. In Iraq all'indomani della sospensione dei lavori per la formazione del nuovo governo iracheno, un attentatore suicida, probabilmente appartenente ad Al Qaeda (o comunque ad un gruppo salafita), si è fatto esplodere uccidendo almeno cinquanta persone e ferendone altre cento. La scelta dell’obiettivo è significativa, 250 giovani iracheni che si accingevano ad arruolarsi nell’Esercito nazionale in vista della riduzione della presenza americana a sole 50.000 unità prevista entro il 2011. L’attentatore e' riuscito ad eludere le rigide misure di sicurezza entrando nella piazza antistante l'edificio dell'ex Ministero della Difesa, dove ha sede il quartier generale di un’unità del nuovo Esercito iracheno. Episodio che conferma l’avvertimento di Mowaffaq al-Rubaie, un esperto di sicurezza iracheno, pronunciato recentemente ai microfoni della BBC e che ha denunciato una nuova crescita e consolidamento della presenza di AL Qaeda in Iraq. Una serie di avvenimenti che sicuramente incidono negativamente in tutto il Centro Asia e che dovrebbero indurre Obama ad essere più cauto nel portare avanti “show comunicativi” piuttosto che fatti concreti. La sostituzione di McChrystal così come è stata decisa ed attuata nasconde, forse, il problema reale delle profonde divergenze sulle strategie e tattiche da adottare in Afghanistan. L’aumento parziale delle truppe, deciso da Obama lo scorso anno, era stato un compromesso tra due posizioni che oggi sono inconciliabili. I Comandanti militari e altre cariche militari, chiedevano molti più uomini di quelli concessi ed il vice presidente Joe Biden li rifiutava sulla base di valutazioni non completamente condivisibili sul piano militare. Biden, politico sostenitore della strategia degli “aerei senza pilota”, basata su un uso massiccio delle armi automatizzate, probabilmente non è consapevole che per raggiungere un sicuro successo militare gli attacchi “stellari” devono essere seguiti ed accompagnati dalla presenza sul terreno di un adeguato numero di soldati. Il mensile Rolling Stone in un recente articolo mette proprio in evidenza la serie tensioni tra i consiglieri civili e militari di Obama a Kabul, alimentate a loro volta dalle contrapposizioni interne alla Casa Bianca sull’Afghanistan. Non è detto che queste preoccupazioni non si accentuino anche con Petraeus al comando delle truppe, al quale Obama ha concesso molta autonomia perché raggiunga un completo successo militare. Ma lo stesso Petraeus, che ha ottenuto grandi risultati in Iraq, ha denunciato profonde diversità fra la situazione afgana e quella irachena e comincia ad esprimere perplessità sui vincoli temporali preannunciati soprattutto per la fatiscente organizzazione dell’esercito afgano. Dubbi confermati dalla recente sconfitta e quasi totale annientamento di un battaglione afgano che per la prima volta ha attacco autonomamente un presidio talebano. La situazione rischia di vanificare gli sforzi internazionali di questi anni e favorire accordi politici che potrebbero in Afghanistan riproporre i Talebani a partecipare alla gestione del Paese ed in Iraq i salafiti iracheni e forse anche qualcuno della vecchia nomenclatura del partito Bath. Obama si trova, dunque, di fronte ad un bivio per il futuro dell’Afghanistan e dell’Iraq. Rischiare di deludere oltre gli americani anche una parte dei Democratici se rimanda oltre il 2011 il ritiro delle truppe statunitensi. Una scelta difficile ma forse assolutamente necessaria per non vanificare gli sforzi finora affrontati in termini di vite umane ed impegni economici. E’ auspicabile che lo faccia dando più credibilità alle richieste dei Comandanti operativi ed affidandosi a strutture di analisi non vincolate a schemi preconcetti ed arroganti come quelle che convinsero Bush ad attaccare l’Iraq pur senza acquisire a priori un consenso internazionale e, soprattutto, senza predisporre un “dopo Saddam” prima che fosse lanciato il primo raid aereo su Bagdad. Un cambiamento di rotta che potrebbe influire negativamente sulla popolarità di Barack Obama che ha raggiunto un nuovo minimo storico, il 44% dei gradimenti, secondo un ultimo sondaggio Gallup, in rapida discesa dopo 2 settimane dall’annuncio della sua approvazione per la costruzione di una moschea di Ground Zero. Ne guadagnerebbe, però, l’Obama premio Nobel per la Pace ancora “in pectore”, a totale vantaggio della lotta al terrorismo internazionale.
18 agosto 2010

domenica 1 agosto 2010

La strategia USA in Afghanistan

Un ex capo della task force della CIA, che 25 anni orsono ha aiutato i mujaeddhin afgani a combattere l’invasore sovietico, in un’intervista al Wall Street Journal ha espresso dubbi sulla validità operativa della attuale strategia attuata per combattere i Talebani. L’esperto americano sottolinea come, infatti, sia pericolosamente simile a quella che alla fine degli anni ’80 portò alla sconfitta sovietica. Analisi assolutamente condivisibile se è noto lo sforzo allora sostenuto dagli americani per favorire la resistenza afgana, destinato ad essere immediatamente vanificato dalle lotte interne post invasione, con protagonisti principali i Signori della Guerra, le fazioni tribali e forse anche con la complicità dell’ISI pakistano. Carenze di valutazione in quel momento anche giustificabili che, però, hanno sicuramente agevolato nel tempo il consolidamento dei Talebani e di Al Qaeda. Il Presidente Obama vuole iniziare il ritiro delle truppe a metà del 2011 con un approccio almeno apparentemente semplicistico che non tiene conto proprio della importanza di queste realtà storiche. Un errore che potrebbe innescare il collasso del governo Karzai ancora troppo condizionato dalla corruzione dilagante e da realtà locali colluse con chi gestisce la coltivazione della droga e qualsiasi altro traffico illecito. Un vuoto di potere che potrebbe riaprire situazioni tragiche già vissute dalla popolazione afgana negli anni ’90. Un’eventualità condivisa anche da esperti analisti russi, profondi conoscitori della realtà afgana in quanto operativi in Afghanistan negli anni ’70, che suggeriscono al Cremino di aumentare la presenza di professionalità sovietiche in Afghanistan destinate a permeare le realtà tribali attraverso forme di assistenza economica, tecnologica, commerciale e culturale. In ogni caso, è essenziale che Washington, a premessa di tutto, aiuti Karzai a trovare rapide ed affidabili alternative ai politici corrotti che ancora permeano le istituzioni afgane, esaltando i valori tradizionali del paese condivisi dalla maggior parte della popolazione afgana ed assicurando aiuti economici sul piano globale destinati ad esaltare la “Capacity Building” del Paese piuttosto che interventi “unidirezionali” ad alto rischio di ingerenze locali. Una necessità condivisibile da tutti coloro che conoscono l’Afghanistan, Patria di grandi potenzialità rappresentate da gente di cultura, liberali, laici non estremisti e gente onesta. Non sembra che però, almeno per ora si proceda in questa direzione, anche se la Commissione indipendente per il controllo degli ultimi risultati elettorali ha “squalificato” 36 candidati per il Parlamento, sui quali sono state raccolte prove di collusione con milizie private illegali. Potrebbe essere un buon inizio di pulizia del processo elettorale in Afghanistan in previsione delle elezioni parlamentari del prossimo 18 settembre, ma la struttura di vigilanza non ha la facoltà di poter decidere quale candidato escludere. Devono, quindi, essere individuate altre soluzioni perseguibili che coinvolgano direttamente Kabul, abbandonando una volta per tutte qualsiasi promessa pleonastiche che, se disattesa, può amplificare il rischio di un’escalation di atti eversivi violenti. La realtà attuale è resa ancora più emblematica dalla scelta di Karzai del suo Vice Mohammad Qasim Fahim. Documenti ufficiali definiscono Qasim come coinvolto fin dal 1990 in possibili crimini di guerra, situazione peraltro nota a molti afgani. Fahim era un alto comandante del Jamiat-e-Islami durante la guerra civile in Afghanistan e un rapporto di Human Rights Watch parla di "prove credibili e coerenti di violazioni diffuse e sistematiche dei diritti e delle violazioni del diritto umanitario internazionale" da parte di tutti i comandanti di quel gruppo. La realtà afgana è sicuramente complessa e caratterizzata da valenze che non possono né devono essere ignorate. I leaders tribali costituiscono lo scheletro della cultura afgana e la maggior parte è sicuramente collegata e quotidianamente coordinata almeno con le fazioni talebana moderate. Costoro devono essere coinvolti in tutte le iniziative portate avanti per conferire al Governo di Kabul autonomia e possibilità di autogestirsi, a meno di non vanificare gli sforzi finora affrontati in termini economici e di vite umane. L'Afghanistan è una società tribale radicata che non può essere ignorata, piuttosto deve essere opportunamente coinvolta e gestita nel massimo rispetto delle tradizioni locali.
1 agosto 2010