giovedì 27 ottobre 2011

Residui nucleari e gas letali in Libia

Il 23 settembre le forze rivoluzionare libiche hanno comunicato di aver rinvenuto a Sabha, a circa 750 chilometri da Tripoli, un deposito di materiale nucleare. Centinaia di fusti con sostanze radioattive e sacchi di plastica gialla. Notizia interessante, ma non a sorpresa, in quanto all'Agenzia Atomica (AIEA) era noto che in Libia esistessero depositi di materiale nucleare anche se non ne era conosciuta l'esatta natura e consistenza rispetto a quanto dichiarato a suo tempo da Gheddafi. Sono stati trovati bidoni e sacchi sigillati con nastro adesivo con riportate scritte solo in inglese e senza nessuna notazione in arabo. Nelle sacche di plastica una polvere gialla come pubblicato in un sito di Internet (http://www.vip.it/libia-trovate-tonnellate-di-scorie-nucleari-a-sehba-tripoli-e-sirte-video), le cui immagini non permettono, però, di capire con certezza la natura del materiale contenuto nei bidoni. La polvere gialla, invece, è con ogni probabilità "yeollowcake" (torta gialla), scoria dei processi di purificazione dei minerali che contengono uranio. In sintesi, ossidi di uranio (biossido e triossido) con scarsa valenza radioattiva ma molto tossici se ingeriti o inalati. Il deposito di Sabha non è la sola scoperta negli otto mesi di guerra. Altri nascondigli sono stati individuati come confermato dall'Istituto di Studi Strategici di Londra. Scorie radioattive provenienti dalla vecchia centrale di Tajoura ubicata nella periferia di Tripoli e materiale chimico altamente letale, parte integrante dell’arsenale di Gheddafi. Lynn Pascoe, Capo ufficio politico dell'ONU ed altre fonti delle Nazioni Unite precisano, a tale riguardo, che Gheddafi dopo aver aderito nel 2003 agli accordi internazionali sull’uso di armi chimiche, nel 2010 aveva distrutto solo il 55% dello specifico armamento, con una disponibilità residua di ancora qualche tonnellata di iprite. Valutazioni confermate dai ritrovamenti del CNT a Jufra ed a Ruwangha dove sono accatastati fusti di iprite e gas nervini ed a Sabha dove sono immagazzinati centinaia di proiettili contenenti iprite fabbricati in Corea. Gheddafi è stato frettolosamente trucidato. Con la sua morte è diventato tombale il segreto su dove poteva essere nascosto il materiale nucleare e chimico e, soprattutto, chi nel tempo aveva fornito alla Libia le necessarie materie prime e le tecnologie per trattare l’uranio e fabbricare gas letali. Anche l'archivio del Rais trovato nel bunker di Tripoli sicuramente non potrà fornire notizie utili nello specifico, in quanto ormai abbondantemente epurato nei molteplici passaggi di mano dal momento del ritrovamento. I gas e le scorie nucleari difficilmente potranno essere utilizzate per scopi militari, ma rappresentano un'appetibile fonte di rifornimento per scopi eversivi qualora qualcuno intendesse effettuare attentati terroristici "sporchi". Rappresentano, inoltre, una consistente risorsa economica, se immessi sul mercato clandestino degli armamenti. E’ imperativo, dunque, che la comunità internazionale attui immediate iniziative per individuare tutti i possibili depositi, inventariandone i contenuti per metterli in sicurezza per eliminare qualsiasi rischio di minaccia specifica sul piano globale. L'ONU dovrebbe essere promotore, quindi, di iniziative appropriate perché lo specifico problema sia affrontato e risolto il più rapidamente possibile, come avvenne nel 1989 in Afghanistan per la bonifica di mine e di ordigni bellici non esplosi, quando fu avviato un intervento finalizzato, l’Operation Salam, con il coinvolgimento di tutta l'expertise internazionale. Una risoluzione delle Nazioni Unite da promuovere, questa volta, non solo per garantire una "formale" protezione dei civili libici, ma per assicurare l'effettiva salvaguardia della popolazione mondiale.

27 ottobre – 10.00

martedì 25 ottobre 2011

La situazione dopo la primavera araba

Gheddafi è stato trucidato, Mubarak e Bel Alì sono stati deposti, l’Occidente plaude i risultati conseguiti dalle popolazioni islamiche per arrivare alla democrazia, mentre il siriano Assad continua, invece, a reprimere con la forza il dissenso del proprio popolo. Gli avvenimenti recenti in Tunisia, in Egitto ed ora in Libia, dimostrano, invece, i limiti della tanto osannata primavera araba, i cui risultati sono molto inferiori a quelle che potevano essere le aspettative occidentali. E’ in atto, infatti, una strisciante e preoccupante regressione che sta vanificando quella che poteva sembrare l’evoluzione moderna di un Islam fondamentalista. Riemerge lo scontro millenario tra sunniti e sciiti con protagonisti l’Arabia Saudita e l’Iran. L’Egitto ripropone un modello che ormai si pensava appartenere al passato.; la rivalutazione del regime militare e l’annullamento del ruolo femminile nella vita del Paese. In Tunisia i gruppi estremisti vicini ai Fratelli Mussulmani, gli Ennahda, hanno riscosso la fiducia dei cittadini che hanno partecipato alle prime elezioni libere dopo quaranta anni di dittatura, cancellando la possibilità dell’affermazione di uno Stato sicuramente laico. La Turchia, si sta proponendo come il “leader massimo” dell’Islam emergente dalla primavera araba, assumendo posizioni estreme con la condivisione della politica iraniana e di quella di Hamas, mentre rifiuta gli aiuti offerti da Israele in occasione del recente terremoto che ha colpito il Paese. L’Arabia Saudita, come già avvenuto in passato, ha ripreso ad investire fiumi di danaro per appoggiare il consolidamento di fazioni fedeli all’Emiro, in particolare cercando di estendere la propria influenza in Paesi del Golfo come il Bareihm. In Algeria Al Qaeda rialza la testa. La cellula attiva tra il Niger, Mauritania e Mali ha ripreso a minacciare l’Occidente e rapito una cooperante italiana. Il Capo del CNT libico ha annunciato la liberazione della Libia nonostante che la situazione sia ancora fluida ed il primogenito di Gheddafi chiami a raccolta i suoi fedelissimi per vendicare l’omicidio del padre. Mustafa Abdul Jalil ha dichiarato la ferma intenzione che il futuro del Paese dovrà essere improntato al rispetto della “Sharia”. La legge coranica che prevede, tra l’altro, la lapidazione della donna infedele ed il taglio della mano di chi è sorpreso a rubare. Un annuncio accompagnato dalle manifestazioni di una folla plaudente al grido “Allah akbar” (Dio è grande), che coglie di sorpresa un Occidente fino ad ora troppo ottimista sui risultati che avrebbe ottenuto “la primavera araba”. La situazione è complessa e rischia di riaccendere i contrasti che si ritenevano ormai cancellati dai venti di democrazia che arrivavano dalle Nazioni islamiche dell’Africa mediterranea. Un rischio che non sembra impensierire chi almeno politicamente ha appoggiato fin dall’inizio le rivendicazioni delle popolazioni dell’area come il Ministro della Difesa britannico, che sottolinea il successo raggiunto dal CNT in Libia “seppure macchiato dalla fine di Gheddafi” o Obama che esprime tutta la sua soddisfazione per l’inizio di una “nuova Libia”. Ottimismi che potrebbero essere sconfessati nell’immediato futuro quando il tepore della primavera araba potrebbe trasformarsi in un rigido inverno in cui tutti saranno contro tutti e non sarà chiaro quali saranno i governi con cui trattare. Le premesse ci sono e grande è il rischio che sia vanificato il sacrificio di tutti coloro che, come il tunisino Muhammad Bonazizi, hanno sacrificato la propria vita aspirando ad un rinnovamento epocale delle loro condizioni di vita. Una schiera di illusi che vedendo rapidamente svanire le speranze di democrazia, cancellate da nuove realtà che nulla hanno a che fare con le aspirazioni di libertà, potrebbero scendere di nuovo in piazza con conseguenze difficili da prevedere.
25 ottobre 2011 – ore 13,30

domenica 23 ottobre 2011

La morte di Gheddafi

La NATO ha annunciato che il 31 ottobre finiranno le operazioni militari iniziate il 17 marzo contro la Libia in seguito alla risoluzione 1973 delle Nazioni Unite, votata per garantire la sicurezza e l’incolumità della popolazione libica minacciata dalla repressione di Gheddafi. La decisione dell’ONU è stata fin dall’inizio applicata con un largo margine interpretativo degli attori principali della Coalizione militare della Nato. Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti d’America, infatti, dopo i primi attacchi a convogli e mezzi militari, hanno palesemente concentrato la loro azione sui possibili rifugi del Rais che di volta in volta venivano indicati come Centri di Comando e Controllo del regime. Più verosimilmente, invece, compaund attrezzati per ospitare Gheddafi in continuo spostamento per il timore di essere intercettato da un “missile intelligente” americano. Una concentrazione di sforzi, quella della NATO, evidentemente impegnata ad intercettare e colpire il Rais nonostante le quotidiane smentite dalla Coalizione anche se sul terreno venivano distrutti edifici e bunker al centro di Tripoli ma sfuggivano ai bombardamenti le rampe di lancio missilistiche e le truppe del Rais potevano seguitare a lanciare SCUD contro Misurata e contro il naviglio NATO in navigazione nel Golfo della Sirte. Il 21 ottobre Gheddafi è stato bloccato ed ucciso con modalità tutte da chiarire al punto che le stesse Nazioni Unite hanno sentito l’esigenza di aprire un’inchiesta. Nell’immediato si è parlato di un convoglio di autovetture civili dirette verso sud che è stato intercettato mentre percorreva il deserto libico. Uno dei mezzi trasportava Gheddafi ed era stato colpito da un missile sparato da un aereo francese o da un Predator americano. Attendibili agenzie di stampa precisavano gli eventi riportando dichiarazioni del Presidente francese Nicolas Sarkozy ed il Premier inglese Cameron che facevano a gara per attribuirsi la paternità nazionale di aver colpito Gheddafi. Sulla scena, quindi, al momento dei fatti erano sicuramente in volo velivoli militari della NATO come previsto dalla risoluzione 1973, ma con quasi certezza non orientati a difendere la popolazione civile ma a colpire un convoglio di automezzi che in quel momento non minacciava nemmeno il più povero pastore beduino che vigilava sul proprio gregge. Un attacco al suolo di aerei condotto in stretta aderenza ad un’azione di terra, come dimostrato dall’immediato intervento delle truppe del CNT che poi hanno ucciso il Rais. Un’azione militare da manuale, con un attento coordinamento aereo e terrestre, che non può essere stata occasionale né tantomeno fortuita. Un rivoltoso non meglio identificato, comunque fuori del controllo dei comandanti dell’unità che ha preso parte all’azione, ha quindi giustiziato Gheddafi ferito, tappandogli la bocca per sempre. Una fine quella del Rais, che a prescindere da qualsiasi motivazione di natura umanitaria segue altre uccisioni eccellenti ricorrenti nella Storia a partire dalla fine del Secondo Conflitto Mondiale. Vere e proprie eliminazioni di personaggi che seppure feroci dittatori o sanguinosi terroristi conclamati, sono stati giustiziati sul posto eliminando il rischio che potessero rivelare scomode verità. L’ultimo omicidio, prima di quello di Gheddafi, l’uccisione di Bin Laden intercettato nella propria camera da letto dall’eccellenza delle truppe speciali statunitensi e per quanto noto inerme al momento dei fatti. Eventi che travalicano i contenuti delle Convenzioni Internazionali in tema di diritto umanitario e di salvaguardia dei feriti e dei prigionieri di guerra. Azioni che non possono essere proprie di chi fa della democrazia la sua Bandiera ideale e che sicuramente non concorrono ad abbattere la minaccia terroristica globale. La storia insegna che non è pagante trasformare il proprio nemico in vittima, e tantomeno non lo è se l’avversario fa parte di realtà culturali caratterizzate dal fanatismo e dall’estremismo anche religioso. Gheddafi era un dittatore, ma aveva tutto il diritto di difendersi di fronte ad un tribunale internazionale. L’averlo trucidato e non aver rispetto le regole dell’Islam che impongono la sepoltura entro le 24 ore dalla morte, non risolve il problema delle vicende libiche e potrebbe piuttosto alimentare vendette incrociate in una realtà socio culturale in cui l’appartenenza al clan e le regole tribali hanno un valore determinante. Non a caso Sirte, città natale di Gheddafi ha difeso il dittatore per settimane nonostante l’attacco del CNT ed i bombardamenti della NATO. La tribù di appartenenza di Gheddafi, i Qaddafia, hanno già designato Sarif el Islam, il primogenito del Rais di cui non si conosce la sorte, successore di Gheddafi con il compito di cacciare dalla Libia “i ribelli della NATO”. Anche i Warfela e Magarha, altre importanti tribù libiche, hanno aderito all’iniziativa del clan di Sirte mentre a Tripoli il Comandante della Brigata dei ribelli che ha conquistato la città, Abdel Hakim Belhaj un islamico radicale protagonista della resistenza afgana e già militante talebano, già scalpita per ritagliarsi un ruolo importante nel futuro del Paese. In Libia in questo momento è stato eliminato un dittatore ma si stanno creando condizioni di cui potrebbero approfittare le forze islamiche estremistiche a totale danno della popolazione reduce da 42 anni di oscurità politrica.

22 ottobre 2011 – 22.00

lunedì 17 ottobre 2011

Violenza senza limiti

Dimostrare il proprio malessere sociale distruggendo è già esecrabile e lontano da ogni diritto democratico di poter manifestare il proprio dissenso. Distruggere un crocifisso e l’immagine della Madonna simbolo della maternità e della vita è un atto bestiale difficile da connotare. Sabato 15 ottobre a Roma, in occasione della manifestazione degli “indignatos” è successo anche questo. Un delinquente incappucciato, talmente vile da non mostrare il proprio volto, ha sfogato la propria rabbia contro un simbolo universale rispettato in tutto il mondo e non solo unico appannaggio del mondo cattolico. Maria, la Madonna, è il simbolo della vita. E’ amata da mussulmani, buddisti e dagli stessi non credenti che in essa riconoscono la natività come significato di essere uomo. A Maria è dedicata anche una “sura” del Corano anche se i mussulmani non la definiscono una santa. Chi ne ha oltraggiato l’immagine ha oltraggiato se stesso ed ha rinunciato al diritto di rispetto che compete a qualsiasi essere umano. Compiendo l’atto dissacrante ha dimostrato di essere incapace di discernere la differenza fra la manifestazione di un disagio sociale da un atto oltraggioso e senza senso. Calpestare la statua della Madonna di Lourdes come avvenuto a Roma è un atto vile compiuto da un codardo che probabilmente non riesce a distinguere la differenza fra usare le proprie mani per colpire un uomo piuttosto che accarezzare il proprio figlio. Un atto blasfemo che non ha senso e che dimostra la natura delinquenziale ed amorale di chi trincerandosi dietro una manifestazione pacifica ha spaccato vetrine, dato fuoco ad automobili ed attaccato lo Stato colpendo le Forze dell’Ordine. Un teppista che ha offeso non solo la religione e la comunità cristiana ma ha oltraggiato se stesso in quanto uomo, confermando, se ce ne fosse stato bisogno, la natura delinquenziale delle cellule che hanno esercitato violenza durante la manifestazione romana. Chi ha compiuto l’atto vestiva l’uniforme dei violenti che hanno scaricato le loro frustrazioni attraverso atti distruttivi dimostrando che non sono in grado di distinguere la differenza delle cose. Tutto è eguale, tutte le realtà hanno lo stesso valore senza differenza alcuna. Una massificazione massimalista che indica che il mondo non è investito solo da una crisi economica, ma è anche preda di una metastasi antropologica che rende il tutto un niente. L’atto irriverente, infatti, non può essere semplicisticamente definito come una “bestemmia isolata”, ma conferma la matrice anarchico – insurrezionalista degli autori convinti che l’azione contro strutture statali e religiose è la migliore espressione della loro emancipazione. Gesti ed episodi che devono indurre la collettività ad assumersi le proprie responsabilità, incitando i responsabili della gestione dello Stato a riappropriarsi con urgenza delle loro peculiarità istituzionali, per riguadagnare quei valori etici e di democrazia che nel tempo hanno fatto grande l’umanità.

17 ottobre 2011 – 12,30

domenica 16 ottobre 2011

Vergogna !

Ieri a Roma come in centinaia di altre città del mondo i giovani hanno manifestato il proprio malessere sociale. Dappertutto un dissenso proposto con un approccio deciso ma simpatico, dove ha dominato il senso civico piuttosto che l’arroganza della violenza. Roma si è invece distinta, permettendo che gruppi di criminali imponessero le loro regole a danno dei cittadini e contro gli stessi interessi di coloro che in corteo sfilavano compostamente. Vergogna per aver dato spazio a questi delinquenti incapaci di dimostrare pacificamente il loro dissenso. Vergogna di essere l'unica Nazione che non applica il diritto di autodifesa nei confronti di coloro che esercitano violenza contro lo Stato. Vergogna per aver offerto al mondo le immagini di un Paese che lascia spazio a gruppi di delinquenti addestrati alla guerriglia ed all’odio trincerandosi dietro l’alibi di manifestare il proprio malessere sociale. Guardiamo quello che avviene negli altri Paesi custodi di antiche democrazia liberali. Un esempio fra tutti la Gran Bretagna in cui sono assicurate le massime garanzie a chi vuole esprimere pacificamente il proprio disappunto nel rispetto delle regole, ma dove, nello stesso tempo, si contrasta senza esitazione chi invece le infrange. I delinquenti come quelli che ieri hanno devastato Roma devono essere perseguiti con fermezza, dimostrando che lo Stato esiste e che non intende delegare il proprio ruolo ad una piazza esaltata. Alcuni di costoro sono stati arrestati. Domani saranno probabilmente liberi come avvenuto purtroppo in passato nel nome di un diritto che non è tale nel momento che non garantisce al popolo la protezione dello Stato. Altrettanto avverrà per coloro che, una volta individuati dalle Forze di Polizia attraverso l’esame delle immagini, non conosceranno mai le patrie galere perchè non colti in flagranza di reato. Regole applicate nel nome della democrazia e di un falso garantismo, ma che nulla hanno a che fare con la sovranità popolare se si lascia spazio a malfattori come quelli che ieri a Roma hanno dimostrato di voler dissacrare lo Stato. I giovani hanno tutta la ragione di dimostrare il loro disagio e devono essere garantiti di poterlo fare. Nello stesso tempo, però, sono tenuti a vigilare per non diventare preda dell’inganno di chi tenta di far credere loro che lo Stato deve tutto. Utopia che la storia ha cancellato, anche se i nostalgici di un passato anacronistico ancora tentano di affermarla come regola fondamentale, coltivando facili illusioni destinate a favorire la regressione piuttosto che lo sviluppo.
16 ottobre 2011 - 13.00

venerdì 7 ottobre 2011

Il decennale dell’operazione Enduring Freedom

Il 7 ottobre 2001 iniziò la guerra al terrorismo internazionale con l’obiettivo di distruggere la rete terroristica di Al Qaeda ed eliminare il suo capo carismatico Bin Laden. Lo scopo, quello di assicurare una pace duratura al mondo eliminando la nomenclatura di un’organizzazione terroristica arroccata in Afghanistan e nelle aree tribali pakistane, protetta dai Talebani di Kabul e che rappresentava la punta dell’iceberg del terrorismo internazionale. Da quel giorno l’Occidente ha pagato un prezzo enorme in termini di vite umane e di impegno economico, 2500 morti fra cui 45 italiani. Bin Laden è stato ucciso in Pakistan poco prima del decennale dell’inizio della battaglia, la rete terroristica è stata quasi decapitata, ma sicuramente non è stato raggiunto l’obiettivo di annientare la minaccia globale. Piuttosto, Al Qaeda è evoluta e si è consolidata in altre aree, in particolare in Africa, dimostrando di essere in grado di “rialzare la testa” nonostante i duri colpi inferti alla struttura di vertice. Dopo Bin Laden è stato ucciso Al Awalagi, yemenita di cittadinanza americana responsabile della comunicazione jihadista in lingua inglese, è stato catturato Haji Mali Khna,, una delle figure di spicco dell’organizzazione estremistica pakistana Haqqani, punto di riferimento dell’eversione talebana ancora operativa in Afghanistan, ma Al Qaeda ed i suoi alleati continuano a colpire. Ieri sangue a Mogadiscio con un attentato che ha provocato 70 morti ed oltre 150 feriti. Un’azione rivendicata dagli Shabaab, gruppo miliziano somalo integralista, che da anni ospita nei propri ranghi numerose cellule di Al Qaeda fra cui esponenti di spicco come Ibrahim al Afgani, protagonista della resistenza afgana contro i sovietici. Gli Shabaab rappresentano una nuova realtà terroristica che può fare affidamento su almeno 3000 combattenti operativi, per lo più giovanissimi votati ad immolarsi in nome della jihad islamica che si richiama alla legge coranica (sharia). Realtà eversiva che può disporre di consistenti risorse economiche garantite dal commercio della droga e dai profitti degli alleati pirati somali che operano nel Golfo di Aden. Un altro segnale inquietante arriva dall'Afghanistan. Sette giorni orsono sono state arrestate sei persone in procinto di effettuare un attentato contro Karzai, come riferisce Lutfullah Mashad, portavoce dell’Intelligence afgana (NDS). Fra gli arrestati, un professore universitario, due studenti afgani ed una guardia del Corpo del Presidente afgano, tutti collegati alla rete Haqqanialleata dei Talebani più estremisti e vicina all’Intelligence pakistana (ISI). Il tentativo di colpire Karzai segue l’omicidio di Rabbani compiuto da un kamikaze di nazionalità pakistana, e conferma un'apprezzabile residua vitalità di Al Qaeda nel Centro Asia. Un vigore globale, che sta permeando anche il post primavera araba, nel momento che in Tunisia sono stati arrestati all'inizio della settimana tre libici, sospetti terroristi della componente magrebina di Al Qaeda, fermati a sud del Paese in possesso di armi e si ha notizia dell’impegno di cellule di Al Qaeda di appropriarsi dell'arsenale libico abbandonato nel deserto dall’Esercito di Gheddafi. 5000 missili SAM7 sono spariti dai depositi come espressamente denunciato da un alto ufficiale del CNT libico ed in magazzino nei pressi di Sabha sono stati trovate tonnellate di proiettili di artiglieria di grosso calibro contenenti iprite, il famoso aggressivo chimico meglio noto come gas mostarda. Al Qaeda, dunque, rappresenta ancora una minaccia forse indebolita sul piano operativo ma con un potenziale residuo preoccupante e non più limitato all’area asiatica ma esteso sul piano globale. Il succedersi di significativi episodi terroristici lascia, poi, pensare ad un unico coordinamento, quasi si fosse tornati al passato quando lo Sceicco del terrore gestiva attentati come quello di Oklaoma City, di Nairobi e delle Torri Gemelle a New York. Gli eventi suggeriscono, quindi, di bandire i facili ottimismi che portano spesso a dichiarare la sconfitta dell'organizzazione ogni qual volta qualche vertice viene eliminato. Piuttosto è necessario tenere sotto controllo tutti i segnali che confermano come il credo quaedista sia ancora condiviso in molte aree dove è ancora radicato l’islam fondamentalista. In particolare in Africa settentrionale e subsahariana dove la primavera araba e la crisi libica hanno favorito il consolidamento sul piano militare delle cellule di Al Qaeda del Magreb africano che, approfittando della situazione hanno potuto potenziare i loro arsenali e consolidare le alleanze con gli Shebab somali. Dieci anni sono trascorsi dall’inizio dell’attacco occidentale al terrorismo internazionale di matrice islamica e qualche risultato è stato raggiunto almeno in Afghanistan in termini di democrazia e di rispetto dei diritti umani. L'obiettivo principale di sconfiggere il terrorismo internazionale non è stato, però, ancora raggiunto. Il morbo seppure pesantemente attaccato ha dimostrato di essere in grado di trasformarsi ed evolvere continuamente ripresentandosi ciclicamente sullo scenario mondiale. L'eversione ancora sfugge al controllo e dopo dieci anni non è azzardato affermare che l'impegno di garantire la sicurezza internazionale è ancora all'inizio e lunga è la strada da percorrere.
5 ottobre 2011, ore 19,30

domenica 2 ottobre 2011

Un punto di situazione sull’evoluzione della minaccia terroristica

La vecchia nomenclatura di Al Qaeda inizia a cadere sotto i colpi della comunità internazionale impegnata nella lotta al terrorismo. E’ stato ucciso da un Drone USA Anwar al Awlaki, leader della cellula di Al Qaeda radicata nello Yemen. Anwar con la doppia cittadinanza, americana e yemenita, era responsabile dell’edizione in lingua inglese della rivista “Inspire”, diffusa nelle penisola arabica e di chiara inspirazione jihadista. Al Awalagi rappresentava, inoltre, come condiviso da molti analisti, il “credo operativo” di Osama ed era insieme all’egiziano Ayaman al Zawahiri l’obiettivo prioritario americano nel contrasto al terrorismo. Un Iman, un predicatore che attraverso i suoi sermoni chiamava alla jihad. Un terrorista operativo che aveva avuto un ruolo diretto nel falliti attacchi del 2010 tentati a New York ed ideatore dei pacchi esplosivi inviati a sinagoghe canadesi ed intercettati in Europa ed a Dubai. Un fanatico estremista che ha vissuto negli USA dove si era laureato in ingegneria presso l’Università del Colorado e forse già agente segreto di Al Qaeda in America molti anni prima dell’11 settembre. All’inizio della settimana nella provincia afgana di Paktia è stato catturato Haji Mali Khna, religioso fondamentalista e figura di spicco della famosa rete Haqqani, costituita da gruppi fondamentalisti vicini alle fazioni talebane pakistane estremiste, i “Tarek e Talibani Pakistani”. Un fanatico simpatizzante anche della “sura” di Quetta che fa riferimento al latitante Mullah Omar, sospettato altresì di aver partecipato alla recente uccisione di Rabbani. Un omicidio, deciso con lo scopo di indurre Karzai a desistere da una soluzione di pace solo afgana e che escludesse il Pakistan, accusato di favorire attraverso la propria struttura di Intelligence (ISI) la struttura di Haqqani posizionata nelle Aree Tribali pakistane ai confini con l’Afghanistan nel nord Waziristan. Un Pakistan che dopo l’uccisione di Bin Laden è stato additato dagli USA come un alleato poco affidabile e che invece vuole ricavarsi un ruolo importante nel processo di pace in Afghansitan per impedire un inserimento dell’India , della Cina e dell’Iran. L’eliminazione di due importanti figure della vecchia nomenclatura di Al Qaeda potrebbero indurre a pensare che ci si avvia verso un definitivo successo contro la lotta al terrorismo internazionale, ma in questi casi l’ottimismo potrebbe essere un cattivo consigliere. Quanto sta accadendo in Afghanistan non permette, infatti, di ben sperare. Importanti fatti eversivi concentrati nel mese di settembre, come accaduto l’11 settembre con un attacco terroristico ad Herat che ha provocato oltre 30 morti. Evento seguito il 14 settembre dall’attacco di 20 ore a Kabul con obiettivo l’Ambasciata USA ed il Comando della NATO ed il 20 settembre dall’assassinio di Rabbani , Presidente dell’Alto Consiglio afgano per la pace. L’eliminazione dei due personaggi di spicco di Al Qaeda non significa, dunque, la decapitazione della struttura terroristica che, invece, può fare riferimento ancora a leader di spicco. L’organizzazione è, infatti, tuttora strutturata in tre branche ben definite. La componente finanziaria che dopo l’uccisione nel 2010 di Said al Masr non ha ancora un leader. Il braccio militare con al vertice Saif al Adel responsabile in passato dell’addestramento militare e dell’intelligence di Al Qaeda e dei membri egiziani della Jihad in Afghansitan. La branca delle comunicazioni affidata a Suliman Abu al Ghayth, venuto alla ribalta in occasione della Prima Guerra del Golfo per i proclami contro Saddam Hussein a favore dei kuwatiani. A costoro si aggiungono i responsabili delle cellule sparse nel mondo, in particolare in Africa e nello Yemen. Fahd al Quso pronto a prendere il posto di Al Awlari ucciso in Yemen. Quso è fra i terroristi più ricercati dalla FBI e dall’Interpool ed è affiliato alle cellule di Al Qaeda presenti nella penisola araba (AQAP). Abu Masab Abdel Wudud già leader dei quadesti algerini ed ora coordinatore di Al Qaeda attiva in Africa nel Maghreb mussulmano (AQMI). Ibrahim al Afgani alla guida degli Shahab operativi in Somalia e nello Yemen, molto vicini ai pirati che nel Golfo di Aden attaccano i traffici commerciali. Personaggi che nel tempo e per diverse circostanze sono stati protagonisti essenziali di vicende storiche che hanno caratterizzato il terrorismo internazionale. Al Qaeda, dunque, come “entità politica terroristica” è ancora in grado di colpire ricorrendo al coordinamento di potenziali terroristi di seconda generazione. Giovani, ora ventenni, cresciuti nelle società occidentali e studenti modello delle università europee e statunitensi come lo era Al Awlaki laureato in ingegneria presso il Colorado Institute o l’ultimo fondamentalista mussulmano americano, arrestato a Boston mentre costruiva aeromodelli imbottiti di esplosivo, piccoli Drone per compiere attentati. Molti di costoro potrebbero rappresentare una minaccia difficilmente da connotare in quanto attuata da “jihadisti freelance”, fuori dal controllo della “Casa Madre”, ma pronti ad intervenire, spinti anche solo da motivazioni emotive. Al Qaeda nella vecchi accezione della parola è anche destinata a scomparire, ma potenzialmente il soggetto politico eversivo sarà ancora in grado di alimentare la proliferazione terroristica, che esiste e che non può essere negata né tantomeno sottovalutata.

02 ottobre 2011 – ore 17.00