lunedì 28 novembre 2011

Trilaterale e Bildberg, due interessanti realtà

Da anni, con un’alternanza ciclica tipicamente italiana, siamo stati impegnati a leggere ed a disquisire di Massoneria, di Logge massoniche deviate (P2 – P4 ecc), di Gladio, di organizzazioni segrete e di lobby più o meno potenti. Molte definite anche “occulte”, sulla base dei contenuti della “Legge Anselmi”, la n. 17 del 25 gennaio 1982. Disposto normativo promulgato nell’assoluto rispetto dell’articolo 18 della Costituzione, per fare chiarezza, sulle associazioni segrete “….quelle che anche all’interno di organizzazioni palesi occultano la propria esistenza……”. Poco o nulla, invece, è stato approfondito nel tempo su due interessanti strutture associative, la Trilaterale e la Bildberg. Organizzazioni che si occupano principalmente di finanza a livello globale e di cui fanno parte intellettuali, studiosi e politici di fama internazionale. Lobby strutturate che in qualche modo hanno avuto ed avranno influenza sui problemi della macro economia planetaria. La Trilaterale ed in particolare la Bildberg, sono organizzate sotto forma di associazionismo culturale e no profit, con frequentazioni eccellenti. Potentati su cui è possibile approfondire consultando la dovizia di informazioni pubblicate in Internet. La "Trilateral Commission" (Trilaterale) e la "Bielderberg" sono associazioni chiuse, nate per iniziativa privata, autoreferenziate come apolitiche. Una sorta di ONG (Organizzazioni non Governative) senza scopo di lucro destinate a favorire il confronto delle idee in materia economica. La Trilaterale rappresenta un gruppo di discussione fondato il 23 giugno 1973 (fonte Wikipedia), su iniziativa del magnate dell'economia americana, David Rochefeller Presidente della Chase Manattan Bank e di altri alti dirigenti e notabili fra cui Herry Kissinger. Ha la propria Sede a New York, i suoi associati sono più di trecento, tutti notabili, uomini di affari, politici, ed intellettuali europei, giapponesi, statunitensi, in contatto costante fra loro e che periodicamente si riuniscono per promuovere la cooperazione fra le aree geografiche di appartenenza. Il numero dei rappresentanti di ciascun Paese è fissato percentualmente e ciascun membro non può nello stesso tempo appartenere alla Trilaterale e ricoprire cariche politiche e/o istituzionali. Vincolo che però spesso non è applicato, come è possibile evincere scorrendo gli elenchi dei membri. Il Gruppo Bilderberg, così chiamato dal nome dell'albergo in cui si riunirono nel 1954 i fondatori dell'associazione (hotel de Bilderberg - Oosterbeek, Paesi Bassi, è nato con lo scopo di contrastare l’emergente anti americanismo, in quegli anni diventato dilagante in tutta l’Europa occidentale, e per favorire una maggiore collaborazione sul piano politico e finanziario fra gli Stati Uniti e Paesi europei. Ne fanno parte dirigenti a livello istituzionale, manager delle aziende e delle organizzazioni più importanti a livello globale. Il gruppo si riunisce una volta all'anno a "porte chiuse" con l'assoluta interdizione dei giornalisti, che non possono nemmeno avvicinarsi alle Sedi che ospitano le riunioni. I meeting del Bilderberg sono organizzati nel rispetto di regole ben precise, svolti in piccole cittadine, quanto più possibile lontane dalle Sedi delle maggiori strutture di comunicazione (nel 2004 la riunione ha avuto luogo a Stresa, un piccolo comune sul Lago Maggiore). La partecipazione è rigorosamente regolata da inviti destinati ad ospiti di eccellenza, scelti in base all’influenza ed alla loro posizione in importanti settori dell’economia mondiale. Segretezza degli argomenti e controllo dei partecipanti sono i parametri chiave del gruppo Bilderberg, che hanno consentito il suo consolidamento e la sua influenza. Non è semplice individuare il ruolo che Trilaterale e Bildberg possono avere avuto nel corso degli anni sull’andamento dell’economia mondiale. Altrettanto non facile è capire quale influenza possono avere i temi trattati nel tempo nell’ambito delle due organizzazioni e che in qualche modo possano essere collegabili all’attuale crisi finanziaria mondiale. Scorrendo gli elenchi dei membri che ne fanno parte, le loro esperienze professionali e le loro posizioni dirigenziali nell’ambito di importantissime strutture dell’economia mondiale, si è portati a pensare che Trilaterale e Bildberg non si occupino solo di “filosofia dell’economia” come alcuni contenuti dei loro statuti lascerebbero intendere, ma di strategie economiche direttamente collegate all’economia reale. Germania, Francia, Gran Bretagna e Giappone hanno un nutrito numero di rappresentati di rilievo nelle due strutture, come peraltro l’Italia con suoi esponenti di spiccata caratterizzazione politica, scientifica ed economica. Ma a differenza dell’Italia, da tempo obiettivo di speculazioni, i nostri partner europei fanno parte del Consiglio di Amministrazione del Fondo Monetario Internazionale ed impongono un continuo pressing sulla nostra economia, arrivando ad ipotizzare prestiti a favore dell’Italia con fondi altrimenti destinati a Paesi del Terzo Mondo ed in via di sviluppo. Forse, sulla base di precedenti analisi economiche sviluppate in sedi diverse dalla UE, i nostri partner europei ci considerano un bene economico “interessante” e quindi da comperare.

Roma 28 novembre 2011, ore 09.00

mercoledì 23 novembre 2011

L’Islam radicale in Bosnia Herzegovina

L’estremismo islamico si affaccia sull’Adriatico. Il 28 ottobre scorso Mevlid Jasarevic ha esploso più di 100 colpi d’arma da fuoco contro l’Ambasciata USA a Sarajevo. Ha ferito in modo grave due persone per poi essere fermato da un addetto alla sicurezza. Un episodio che segue quello di Mostar, quando nel luglio scorso un gruppo di islamici di ritorno dalla preghiera si sono ferocemente scontrati con cittadini di etnia croata. Agenzie di stampa locali hanno immediatamente informato che l’attentatore era un fanatico già noto alla polizia ed ha motivato il proprio gesto per “diventare un martire ed andare in paradiso”. Altre versioni, invece, sospettano che dietro Mevlid ci siano realtà bosniache eredi del passato e vicine all’estremismo islamico. Gruppi che negli anni ’90 contribuirono alla formazione dell’esercito bosniaco, sponsorizzati e finanziati da Bin Laden. Le indagini sono in atto, ma un certo nervosismo trapela nelle Autorità bosniache che temono una possibile minaccia conseguente al risveglio di simpatizzanti dell’organizzazione wahabita, presente in varie regioni dei Balcani, vicina all’estremismo islamico e propugnatrice di regole religiose radicali. I Wahabiti sono arrivati in Bosnia all’inizio delle ostilità degli anni ’90, inquadrati in un’unità militare mussulmana, la Brigata El Mudzahid che entrò a far parte del nascente esercito della Bosnia Herzegovina. Combattenti ben addestrati di origine araba ed afgana, ben equipaggiati e continuamente riforniti di armi e munizioni assicurate dai “fratelli” afgani, iraniani e sauditi. La Brigata islamica con i suoi 2000 uomini si attestò nell’area della città di Zenica, regione dove ancora oggi vive una consistente rappresentanza di militanti wahabiti. I combattenti mussulmani parteciparono attivamente a tutte le operazioni contro i serbi ed i croati affiancando i gruppi paramilitari bosniaci della “Legione Verde” e dei “Cervi Neri”. La loro azione militare fu spesso caratterizzata da episodi prossimi a crimini di guerra, tali da suscitare l’interesse della Corte del’AIA che dopo Dayton aprì una lunga serie di indagini anche nei confronti dell’ex Presidente bosniaco. Dopo Dayton una parte dei militari della Brigata islamica è rimasta in zona stabilendosi in molti villaggi della Bosnia centrale ed acquisendo la cittadinanza bosniaca dopo aver sposato donne locali. Costoro hanno sempre manifestato propensione per un approccio radicale all’Islam, promuovendo iniziative dettate dalla dottrina wahabita. Non si conosce esattamente il numero dei wahabiti naturalizzati bosniaci, ma sicuramente rappresentano una apprezzabile componente della popolazione della Bosnia. Un’Agenzia di stampa locale ha recentemente divulgato i risultati di un sondaggio che indicano come la componente mussulmana radicale rappresenti il 3% della popolazione, numero non rilevante ma significativo in una realtà socio culturale come quella bosniaca. L’azione dell’attentatore del 28 ottobre potrebbe, quindi, rappresentare il risveglio di forme di estremismo islamico in un’area di importanza strategica per l’Europa e l’intero Occidente. Un segnale, che segue altre indicazioni premonitrici iniziate a partire dal 2005, quando improvvisamente aumentò la pressione iraniana a Sarajevo ed in tutta la Bosnia Herzegovina mussulmana. In quel periodo iniziò una capillare gestione ed organizzazione delle madrasse che venivano mano a mano costruite ed accompagnate da una capillare collocazione sul territorio di centri culturali islamici e dalla concessione di un appannaggio economico mensile a tutti i giovani che manifestavano la volontà di riappropriarsi dell’identità islamica wahabita, anche solo curando aspetti esteriori come l’abbigliamento. Uomini con barbe lunghe e pantaloni corti sotto il ginocchio, donne che indossano una tunica nera che lascia scoperti solo gli occhi. Obbligo di rispettare il Ramadam, di pregare 5 volte al giorno e di frequentare le moschee nel venerdì di preghiera. L’attentatore che ha sparato contro l’Ambasciata americana ha 23 anni ed appartiene proprio alla generazione cresciuta sotto l’azione diretta o indiretta dei condizionamenti derivati dall’emergente estremismo religioso. Ventenni istruiti ed addestrati da ex mujaheddin, arrivati in Bosnia all’inizio degli anni ’90 per aiutare i fratelli mussulmani a combattere i serbi ed i croati. Giovani che in questi anni hanno avuto anche la possibilità di stringere rapporti di lavoro o anche di semplice amicizia con coetanei appartenenti ad Organizzazioni Non Governative saudite e kuwaitiane, presenti nel Paese per scopi umanitari e che, dopo l’11 settembre sono oggetto di stretto controllo delle Autorità e delle Forze di sicurezza nazionali. Jasarevic, il giovane che ha sparato è nato a Novi Pazar, città che nel 2007 è stata oggetto di un’importante azione di polizia per stanare militanti wahabiti che operavano in una campo di addestramento per la formazione di militanti islamici. E’ ancora presto per identificare con certezza il vero movente che ha spinto l’attentatore a compiere il gesto eversivo. Potrebbe trattarsi di un momento di esaltazione di un “lupo solitario” o rappresentare l’inizio di una nuova minaccia terroristica che si affaccia sulle rive orientali dell’Adriatico. Un segnale comunque da non sottovalutare, in quanto evidenzia un certo fermento che coinvolge le nuove generazioni bosniache, in un momento in cui la Bosnia è impegnata ad accelerare la sua ammissione in Europa e la popolazione è costretta ad accettare i vincoli connessi alla possibile transizione. Una inquietudine di cui potrebbero approfittare le realtà islamiche radicali come i wahabiti, presenti in molte aree dei Balcani oltre che in Bosnia e vicine all’Arabia Saudita ed all’Iran.

Roma 23 nov. 2011 – ore 10.00

lunedì 21 novembre 2011

Stragi in Egitto

Coloro che a suo tempo hanno utilizzato fiumi di inchiostro per osannare i risultati ottenuti dalla Primavera Araba in Egitto ed in Tunisia, è stato forse affrettato nell’esprimere ottimismo. Oggi si meraviglierà per ciò che sta accadendo in Egitto considerandolo come qualcosa di inaspettato, quando invece, conoscendo le realtà locali, non era difficile prevederlo. Costoro dovrebbero rivedere le loro analisi, come anche suggerito attraverso queste pagine quando ancora nulla si sospettava sull’evoluzione negativa della situazione egiziana. In Egitto e forse presto anche in Tunisia e nella stessa Libia del post Gheddafi, inizia ad emergere la rabbia e l’insoddisfazione di coloro che erano scesi in piazza sfidando la morte nel nome della democrazia e contro i dittatori. Primi fra tutti i giovani egiziani coordinati dalla gestione “illuminata” di facili profeti, come il premio Nobel per la Pace El Barabei o i Fratelli Mussulmani. Aspirazioni la cui realizzazione è stata affrettatamente affidata ai militari egiziani, dimenticando che costoro sono stati sempre molto vicini al deposto Mubarak e sempre fedeli al loro mecenate statunitense. Oltre 1800 i feriti e decine i morti dopo due giorni di manifestazioni. Tutto ad una settimana dalle prime libere elezioni dopo 40 anni di dittatura. Vittime fra la folla che manifesta il proprio dissenso e la propria disillusione, ed anche un arresto, quello di Butaina Kamel, l’unica donna candidato. I partiti che parteciperanno alla competizione elettorale sono 35 ma risulta che abbiano un unico portavoce: Mohamed El-Beltagy esponente di spicco del partito Libertà e giustizia dei Fratelli Musulmani. Le manifestazioni oltre al Cairo hanno catalizzato anche la piazza di Alessandria, nota per il suo approccio laico alle vicende del Paese, provincia egiziana molto vicina per collocazione geografica e per tradizione alle democrazie occidentali. L’Unione Europea, torna ad “essere preoccupata” ed il portavoce Catherine Ashton si limita a rinnovare le consuete dichiarazioni programmatiche. Un’Europa che durante la primavera araba aveva già evidenziato i propri limiti politici e che oggi, dopo aver fallito anche come Holding finanziaria non in grado di difendere la propria moneta, torna a esprimere il proprio cruccio per quanto avviene sulle rive africane del Mediterraneo evitando, però, di promuovere incisive politiche a livello internazionale. Nel frattempo in Tunisia nella prima tornata elettorale si sono affermati gli Ennahdha, un partito islamista tuttaltro che laico e nella Libia del post Gheddafi viene rivalutata la sharia, la Legge di Dio, sicuramente distante dalla cultura delle tradizione liberale e democratica occidentale. La situazione che si delinea ancora una volta sulle rive del Mediterraneo non è sicuramente delle più limpide. Sottovalutarla interpretrando qualsiasi vittoria locale come un traguardo raggiunto sulla strada della democrazia potrebbe avere nell’immediato futuro gravi conseguenze per la stabilità e la sicurezza internazionale. Non bisogna mai dimenticare, infatti, quanto avvenuto in altri Paesi ed in particolare in Afghanistan con la nascita di Bin Laden sponsorizzato dall’Occidente come esempio di democrazia durante la resistenza afgana contro l’invasore sovietico.
21 nov. 2011- ore 18,30

venerdì 11 novembre 2011

L'atomica iraniana e El Barabei


Gheddafi e' stato eliminato ed i problemi libici, almeno per ora, sono stati accantonati. Insieme al Rais sono ormai sepolte le verità su quali realtà mondiali tecnologicamente evolute, possano avere aiutato il regime a sviluppare il nucleare e gli armamenti non convenzionali. Il siriano Assad è ignorato nonostante che continui a far massacrare il proprio popolo. Saleh, il Presidente yementita, ritornato in patria dopo l’attentato subito, ha ripreso a reprimere con la forza le manifestazioni di piazza. Eventi che sembrano essere ignorati dalle Nazioni Unite che, invece, hanno dimostrato una considerevole capacità reattiva nel ratificare la risoluzione 1973 a difesa della popolazione libica. In questo particolare contesto storico, e' tornato alla ribalta Ammadinejad, il Presidente iraniano, che continua a minacciare l'Occidente ed Israele con i suoi programmi nucleari, in un recente passato giudicati leciti perché finalizzati a scopi civili. Valutazione riportata nella relazione finale di un’ispezione internazionale diretta da El Barabei allora Presidente dell'Agenzia Internazionale per l'Energia nucleare (AEIA) e premio Nobel per la pace. Una figura emblematica, quella di El Barabei, che in passato coordinò anche le ispezioni in Iraq per accertare se Saddam disponesse di armi proibite, sottoscrivendo un documento finale dai contenuti molto vaghi ed interpretabili, tali da contribuire ad accelerare l’intervento militare della coalizione anglo - americana contro l'Iraq. La medesima persona che all'inizio della Primavera araba e' improvvisamente comparsa nelle piazze egiziane, prendendo parte attiva alle contestazioni contro Mubarak. Un "tuttologo", in grado di interpretare i dati tecnici sull’uso del nucleare e, contemporaneamente, di sviluppare importanti iniziative politiche gestendo, in "nome della Pace", masse di manifestanti sicuramente non pacifici. Improvvisamente, El Barabei scomparso dalle scene internazionali dopo la caduta di Mubarak forse perché impegnato a prepararsi a governare l’Egitto, attira di nuovo l’attenzione in seguito alle dichiarazioni del suo successore alla presidenza dell'AEIA, il giapponese Yukiya Amano, che coraggiosamente e senza esitazioni denuncia al mondo che l'Iran sta preparando l'atomica. Una conclusione assolutamente diversa da quella sottoscritta a suo tempo dall’ex Presidente dell’AIEA, con riscontri dettagliatamente descritti nell’ultimo report dell’Agenzia con riferimento a siti iraniani realizzati per gestire il nucleare per scopi militari, dotati di strumentazioni all'avanguardia, sicuramente non riconducibili alla sola espertise iraniana. El Barabei, invece, aveva assicurato il contrario, proponendosi sullo scenario internazionale come un neutrale e convinto difensore di un mondo in cui doveva essere bandito l'armamento nucleare, al punto da meritare nel 2005 il Premio Nobel per la Pace. L'attuale realtà iraniana è assolutamente diversa ed ora propone al mondo una realtà complessa sicuramente non semplice da gestire. L'Iran si prepara a sperimentare missili intercontinentali con testate nucleari in grado di colpire Gerusalemme e molte delle Capitali europee. Armi realizzate copiando e migliorando sistemi già sviluppati in Francia, Gran Bretagna, India e Pakistan. Attività sicuramente iniziate da tempo ed ora in continuo "progress" con un trend in costante crescita, destinato a consolidarsi se non immediatamente fermato. Le Nazioni Unite assistono ma non intervengono perché vincolate dalla presenza nel Consiglio di Sicurezza di importanti amici di Teheran come la Cina e la Russia, sicuramente pronte ad esercitare il loro diritto di veto. Cina che, peraltro, e' nella condizione di vincolare anche gli Stati Uniti, in quanto maggiore creditore del debito pubblico americano, ormai molto vicino al 100 % del PIL statunitense. Una realtà che si è creata soprattutto in conseguenza del ruolo giocato da El Barabei quando era responsabile dell’AIEA. Figura apparentemente aperta alle democrazie occidentali ma, probabilmente, più vicina ai Fratelli Mussulmani, all'estremismo islamico ed all’antisemitismo del Presidente iraniano.
11 nov 2011 - ore 14.00

mercoledì 2 novembre 2011

Al Qaeda e la nuova Libia

Dall’inizio della primavera araba ed in particolare della guerra in Libia si è spesso ipotizzato e discusso sulla possibile presenza di militanti di Al Qaeda fra i protagonisti delle vicende che si sono succedute sulle coste mediterranee dell’Africa. Forse oggi ne abbiamo una conferma. Il Daily Mail ha pubblicato le foto di una bandiera dell’organizzazione terroristica che sventola sul palazzo di giustizia di Bengasi. Una fortuita circostanza, lo scherzo di un burlone ? E’ difficile esprimere una valutazione certa dell’accaduto, ma se qualcuno è arrivato fin sul tetto di un edificio governativo della Capitale della rivolta libica, ha avuto sicuramente qualche appoggio esterno. Probabilità che dovrebbe impensierire in quanto conferma la presenza di cellule di Al Qaeda sul territorio libico, peraltro guardate con simpatia. Non è il solo episodio. Il 29 ottobre un attacco terroristico è stato effettuato a Derna in Cirenaica davanti agli uffici del CNT locale. E’ esplosa un’autobomba che come riferiscono fonti locali è stata attivata da simpatizzanti di Al Qaeda. In pochi giorni due segnali che sicuramente non contribuiscono ad indurre ottimismo nell’immediato futuro della stabilizzazione nella Libia del post Gheddafi, ma confermano, invece, quanto ribadito nel tempo su un possibile ruolo attivo delle cellule terroristiche di Al Qaeda negli avvenimenti libici. E’ certo che personaggi molto vicini all’Organizzazione terroristica hanno partecipato alla guerra. Costoro sicuramente hanno avuto ed hanno legami con gli ex commilitoni che portano avanti l’eversione risiedendo nel Magreb africano. Primo fra tutti il Comandante della Brigata che ha conquistato Tripoli, Abdel Hakim Belhaj un islamico radicale protagonista della resistenza afgana, militante talebano vicino ad Al Qaeda che con il nome di battaglia di Abu Abdallah Assadaq ha partecipato da protagonista alla rivolta contro Gheddafi. Noto combattente islamista, arrestato in Tailandia nel 2004, interrogato dalla CIA e poi consegnato alle autorità libiche è stato rilasciato poi dalla polizia anche se erano conclamati i suoi stretti legami con Al Qaeda e con lo stesso mullah Omar. Belhadj ha anche operato in Iraq ed è rimasto sempre in collegamento con le cellule eversive presenti a Bengasi e Derna, due città che nel tempo hanno fornito all’eversione irachena un consistente numero di combattenti, superiore a quelli arrivati dall’Arabia Saudita. I reduci libici tornati dall’Iraq e le strutture di Al Qaeda operanti nel Paese e nel vicino Maghreb, hanno sicuramente approfittato della situazione di belligeranza per rifornirsi di materiale bellico e potrebbero essere entrati in possesso di armi non convenzionali. Munizionamento chimico e scorie radioattive nascoste nel deserto libico come confermato dai ritrovamenti dichiarati ufficialmente di volta in volta dal CNT durante l’appoggio NATO ed ora negate da Mustafà Abd al- Jalil, attuale Capo di Stato (ad interim) della Libia. Le dichiarazioni di Abd al- Jalil non convincono in quanto dal 2007 pedina importante dello Staff di Gheddafi quale Ministro della Giustizia, non poteva non sapere o quanto meno sospettare della disponibilità da parte di Gheddafi di aggressivi chimici e di scorie nucleari. Non averne smentita la loro esistenza durante la guerra ed averlo fatto solo ora che l’ONU sembra voler coinvolgere l’Agenzia Atomica Internazionale, non depone sicuramente a suo favore. Un comportamento non limpido quello dell’attuale responsabile della delicata transizione libica che, peraltro, per le sue pregresse esperienze giuridiche, prima come Presidente di Tribunale poi come Guardasigilli, non può non conoscere il curriculum di Abdel Hakim Belhaj, da lui stesso designato Comandante di un’importante Brigata dell’esercito rivoluzionario libico e nominato recentemente Consigliere Militare di Tripoli. Non è azzardato ipotizzare che la Libia stia per vivere un periodo buio, molto vicino all’era irachena dell’immediato post Saddam, che potrebbe essere anche complicato dalle realtà tribali molto influenti nel Paese. La Nazione potrebbe scivolare verso una situazione simile a quella dell’Afghanistan immediatamente l’invasione sovietica ed, al limite, vicina alla realtà della Somalia del post Siad Barre. Se ciò avvenisse la comunità internazionale non ne guadagnerà in termini di sicurezza globale e di stabilità dell’area mediterranea.
02 novembre 2011 – ore 12.00