martedì 30 aprile 2013

Lettera aperta al Ministro degli Esteri Emma Bonino


Illustre Ministro, sono il Generale in quiescenza Fernando Termentini. Durante la mia vita professionale e successivamente ho avuto l’onore di condividere le Sue posizioni sui diritti dell’uomo ed ho partecipato sul piano operativo e delle idee  al Suo impegno per la messa a bando della mine anti persona. Come Ufficiale dell’Esercito, infatti, ho operato per oltre 20 anni nei territori infestati da ERW (Explosive Remants of the War) per portare avanti incisive azioni di Capacity Building a favore delle popolazioni locali e per favorire “l’awareness” contro il pericolo specifico anche e soprattutto attraverso attività di formazione di operatori locali per renderli capaci di bonificare le terre dove vivevano. Molti i territori “caldi” in cui ho lavorato, Afghanistan nell’Operation Salam, Kuwait alla fine della Prima Guerra del Golfo, successivamente in Somalia durante l’Operazione ONU Restore Hope, in Mozambico, in Bosnia Herzogovina, in Egitto ed in Libia.  

Un impegno che è continuato dopo aver dismesso l’uniforme partecipando attivamente alla policy della Campagna Italiana per la messa a Bando delle mine anti uomo ed attraverso la progettazione, gestione e coordinamento di attività operative in varie “aree affected” secondo i criteri stabiliti da UNMAS nello spirito della Convenzione di Ottawa nel cui ambito Lei è stata protagonista come rappresentante della Commissione Europea.

Una volta lasciato il servizio non ho dimenticato però né di essere Comandante né tantomeno il mio approccio etico nel garantire i diritti fondamentali dell’uomo ed assicurare l’applicazione del Diritto Umanitario. In questo contesto,  da oltre 15 mesi, insieme ad altri migliaia di cittadini italiani, seguo la vicenda dei due Fucilieri di Marina italiani lasciati in ostaggio dell’India, oltraggiati nell’onore di militari e costretti ad essere lontani dai loro affetti famigliari.

A tale riguardo, quindi, mi permetto di portare immediatamente alla Sua attenzione di Ministro degli Esteri del nuovo Governo italiano alcuni aspetti del problema che a mio modesto parere meritano una peculiare attenzione, sicuro del Suo impegno per restituire ai due servitori dello Stato ed alle loro famiglie la dignità oltraggiata dalle prevaricazioni di uno Stato terzo.

 Massimiliano Latorre e Salvatore Girone sono in ostaggio dell’India da più di un anno. Sono obbligati a vivere condizioni di vita che, sono certo, non sono condivise da chi come Lei ha sempre dimostrato il massimo rispetto dei diritti dell’uomo e che, oggi, come Ministro degli Esteri è deputato  a difendere il prestigio internazionale del nostro Paese. Mi rivolgo a Lei a nome mio e di migliaia di italiani che vivono le mie stesse preoccupazioni con un quotidiano impegno attivo sul social network Facebook a favore dei nostri concittadini, con la consapevolezza e certezza che Lei darà un  nuovo impulso alla vicenda restituendo la dignità a due cittadini italiani che da 15 mesi,  strappati alle loro famiglie, vivono una condizione di prigionia offensiva della dignità nazionale, delle nostre Forze Armate e della diplomazia italiana nel mondo.

A tale riguardo, mi permetto, di evidenziare gli aspetti macroscopici del problema, che a mio modestissimo avviso  hanno reso la vicenda una farsa e che se non affrontati e risolti con incisività contribuiranno ancora di più a gettare ombre sull’immagine internazionale dell’Italia ed a compromettere la sicurezza di due cittadini italiani.

  1. l'India sta reiteratamente violando le più importanti convenzioni internazionali sul diritto del mare, peraltro sulla base di un’istruttoria molto approssimativa  (le perizie balistiche non sono chiare, il calibro dei proiettili non combacia con quello dei nostri militari, il peschereccio indiano crivellato di colpi è stata sorprendentemente affondato, ecc.).
  2. Fermo restando l’immenso cordoglio per la morte di due innocenti pescatori le cui cause sono ancora tutte da accertare ed a prescindere dall'innocenza o colpevolezza dei nostri due militari, essi comunque devono essere giudicati in Italia, nel rispetto del principio dell'immunità funzionale universalmente riconosciuto dal Diritto Consuetudinario e perché  gli eventi ipotizzati sono avvenuti in acque internazionali fuori dalla giurisdizione indiana come la stessa Corte Suprema indiana ha confermato.
  3.  La Legge permette l'attivazione di un arbitrato internazionale, ovvero il coinvolgimento di un tribunale internazionale indipendente dalle parti, deputato a giudicare con equità garantendo il rispetto dei diritti delle due parti in causa. Un’opportunità che fino al Suo insediamento  non è stata applicata né dal Suo Predecessore né, tantomeno,  dal Vice Ministro De Mistura.
  4. l’India ha palesemente violato la Convenzione di Vienna quando ha applicato un’inaccettabile restrizione della libertà di movimento del nostro Ambasciatore in India, altro motivo che avvalora l’urgenza di un immediato arbitrato internazionale in sede ONU per stigmatizzare la illecita condotta del Governo indiano, inaccettabile per tutta la diplomazia internazionale.
  5. In India vige  la pena di morte per i reati ipotizzati a carico dei due nostri militari. Chi ha consegnato costoro alla Giustizia indiana riferendosi a  frammentarie  e non meglio definite assicurazioni del Governo indiano sulla non applicazione della massima condanna,  ha  per ben tre volte oltrepassato i vincoli previsti dalla nostra Costituzione in tema di estradizione in Paesi dove vige la pena capitale, un aspetto questo che credo andrebbe attentamente valutato a garanzia di tutti i cittadini italiani .
  6. La esasperata inerzia che l’India ha dimostrato finora nell’affrontare l’intera vicenda non assicura sicuramente ai nostri militari il “giusto processo” assoggettando loro e le loro famiglie ad una sorta di tortura psicologica inammissibile per una democrazia e per uno Stato che fa parte dell’Assemblea delle Nazioni Unite. Inoltre,  l’approccio indiano offende la nostra dignità nazionale, pregiudica la credibilità del nostro paese in ambito internazionale e propone un Italia incapace a difendere gli interessi e i diritti dei propri cittadini nel mondo e  delle nostre aziende quotidianamente impegnate all'estero. L’intera vicenda, inoltre, rischia di costituire un grave precedente giuridico a danno dell’intera comunità internazionale qualora si verificassero episodi simili in futuro.

Per tutto quanto sopra esposto, lo scrivente a suo nome e di tutti gli altri cittadini che con lui condividono questo dramma che sta coinvolgendo da 15 mesi due  servitori dello Stato, Le chiede rispettosamente di :

a.      attivare sollecitamente e unilateralmente un Arbitrato UNCLOS, come previsto dall'art. 290 par. 5 della Convenzione ONU per il Diritto della Navigazione (l'arbitrato può essere attivato rapidamente, in 30 giorni, e unilateralmente, a prescindere dalla volontà delle autorità indiane in base all'art. 287 par. 5 e 3 all. 7 della stessa Convenzione);
b.     inoltrare formale protesta all'ONU per la violazione dei diritti del nostro Ambasciatore a New Delhi, e di attivare immediatamente un procedimento al riguardo presso la Corte Internazionale di Giustizia, affinché venga accertata la responsabilità indiana in questa grave violazione;
c.      avviare ogni altra procedura utile a riaffermare l'esclusiva giurisdizione italiana sull'intera vicenda;
d.     attivare tutti i canali diplomatici disponibili affinché pervengano messaggi e iniziative di solidarietà da parte di paesi alleati ed amici, anche in un ottica di rafforzamento delle azioni antipirateria - di comune interesse internazionale - e di difesa dei diritti del personale che presta tale servizio.

La tutela internazionale dei propri diritti e interessi, infatti e come peraltro espresso da insigni giuristi,  non si riflette necessariamente in senso negativo sull'insieme delle relazioni - anche economiche - con l'India. L'affermazione di ciò che compete ad uno Stato nei confronti di un altro, infatti,  nelle sedi e nelle forme stabilite da accordi di cui gli stessi Stati sono parti contraenti non può mai essere considerata di per se come elemento condizionate delle relazioni bilaterali (p. es. ricordiamo la recente vertenza, tra Italia e Germania, dinanzi alla Corte Internazionale di Giustizia sulle vittime del nazismo, quella tra Spagna e Canada sul diritto del mare, etc).

Tutti noi siamo fiduciosi  di un positivo accoglimento della presente istanza, e tutti ed in particolare il sottoscritto, si rimane disponibili per collaborare anche con l’impegno personale per portare avanti  ogni iniziativa pubblica, pacifica e democratica per la riaffermazione della verità e della giustizia su questa importante vicenda.

Con grande rispetto e stima Le porgo i saluti di tutti noi ed i miei personali ossequi, augurandoLe le migliori soddisfazioni per il prestigioso incarico appena assunto..

Gen.Brig. (ris) dott. Fernando Termentini

Amministratore del Gruppo di FB “Riportiamo a casa i due militari prigionieri” (https://www.facebook.com/groups/337996802910475/)


martedì 23 aprile 2013

Terrorismo : la minaccia delle cellule dormienti


La minaccia di cellule dormienti vicine al terrorismo internazionale e sparse del mondo, di cui spesso si è parlato in queste pagine, diventa sempre di più una realtà  concreta. L’attentato di Boston sembra confermarlo insieme a quello sventato ieri in Canada dove la polizia di Toronto ha arrestato due sospetti terroristi che pianificavano un’azione eversiva contro  la linea ferroviaria che collega il Canada agli USA.  

Dzhokhar Tsarnaev, uno dei due fratelli che hanno compiuto l’attentato di Boston inizia a fornire informazioni e fonti attendibili statunitensi riferiscono che sempre di più emerge la certezza che i due fratelli non abbiano agito da soli. Una convinzione,  che oltre a derivare dalle prime ammissioni del ferito è confermata dalla natura degli attivatori elettronici temporizzati che hanno provocato l’esplosione. Sistemi probabilmente forniti da qualcuno in quanto  troppo sofisticati per essere stati auto costruiti e troppo costosi,. Varie notizie confermano, infatti,  che gli inquirenti stiano dando la caccia ad una cellula eversiva “dormiente” composta da circa 12 persone a cui dovrebbero aver fatto riferimento i due fratelli e che potrebbe avere programmato anche altri attentati.

L’ipotesi del collegamento dei due fratelli con una struttura organizzata è confermata anche dal numero di armi ed esplosivo rinvenuti a casa degli attentatori, cittadini naturalizzati americani che però non potevano acquistare legalmente armi. Tamerlan il maggiore dei due ucciso durante lo scontro a fuoco con l’FBI, aveva qualche precedente penale che gli impediva di ottenere il permesso di acquisto e detenzione, Dzhokhar, invece, non aveva ancora compiuto i 21 anni, età minima per poter acquistare un fucile od una pistola.

Negli inquirenti statunitensi si consolida, quindi, sempre di più la certezza che i due potessero fare riferimento ad una struttura eversiva che li abbia addestrati e sostenuti logisticamente, programmata per entrare in azione “su ordine” con procedure pianificate. Vari i motivi fra cui uno in particolare.  Il tentativo dei due caucasici, subito l’attentato sul luogo della maratona,  di entrare nel  Massachusetts Institute of Technology (MIT) dopo aver ucciso una guardia giurata. Un atto inspiegabile per due terroristici che fuggivano dal sito di un primo attentato se non motivato dal fatto che probabilmente stavano cercando di colpire un altro obiettivo di una serie loro assegnata.

Mentre negli USA si continua ad indagare ieri,  in Canada,  la polizia ha arrestato Chiheb Esseghair e Raed Jaser accusandoli di pianificare un attentato alla ferroviaria che da Toronto arriva a New York e sospettati di operare “per conto o in associazione con un gruppo terroristico. 

Sembra che non ci siano legami con gli accadimenti di Boston ma il fatto che la Polizia canadese abbia operato in stretto collegamento con l’intelligence USA lascia pensare altro. Peraltro fonti ufficiali dei due Paesi hanno informato che gli arrestati in Ontario e nel Quebec erano da tempo sotto “monitoraggio” e stavano preparando un grande attacco terroristico con obiettivo le linee ferroviarie canadesi ed erano sospettati di essere supportati da cellule di Al Qaeda collegate con una struttura operante in Iran.

Un complotto sventato in stretta successione ai fatti di Boston e che ricorda molto il fallito attentato a Toronto nell’estate del 2006 quando furono arrestate 18 persone imputate di pianificare e progettare attacchi alla Peace Tower sulla collina del Parlamento ed alla borsa di Toronto, nonché alla vita del Primo Ministro ed altri politici canadesi.

Due episodi, l’attentato riuscito a Boston e quello sventato in Canada,  che non sarebbero collegati fra loro ma che confermano la presenza di cellule terroristiche sparse nel mondo, motivate da analoghe ideologie e fanatismo religioso ed unite da un network silente ma pronto ad attivarsi.

 I terroristi fermati in Canada erano in procinto di rendere operativa una delle principali direttive di Osama Bin Laden riportata in uno documento fra i vari rinvenuti ad Abbottabad: “colpire le linee ferroviarie in qualsiasi modo …..” . Una disposizione già applicata a Madrid e nella metropolitana di Londra e che si somma a quelle più generiche impartite nel tempo da Osama: colpire l’America e l’Occidente con atti eclatanti diretti contro la popolazione, come quanto avvenuto a Boston.

Una conferma che il network del terrorismo è ancora attivo e strutturato in modo tale da attivare le cellule dormienti sparse nel mondo anche solo con semplici ed anonimi messaggi di carattere generale diramati sul Web. Piccole unità collegate fra loro e gestite da una struttura gerarchico funzionale con al vertice  “dirigenti” della vecchia nomenclatura jihadista, molti dei quali rifugiati proprio in Iran dove vivono ed operano in strutture protette, collegati ad altri esponenti presenti in Medio Oriente e nell’Africa Subsahariana.

Nuclei continuamente rinforzati anche attraverso i flussi di clandestini apparentemente in fuga da zone di guerra e da combattenti della jihad in corso che vede protagonisti i sunniti contro gli sciiti appoggiati da Teheran. Mujaheddin protagonisti nelle stragi in Iraq, nella lotta contro i ribelli in Siria, nelle faide delle Aree Tribali pakistane, in Malì, in Somalia da parte degli Al Shebab, in Libia per mano delle cellule di Al Qaida da tempo consolidate nelle alture della Cirenaica. “Fratelli” degli eredi  di Al Qaeda come i movimenti salafiti in Nord Africa ed in  Medio Oriente impegnati a diffondere ed imporre l’islamismo radicale.

Estremisti come i Boko Haram che significa testualmente  “l’educazione occidentale è peccato”,  che operano nelle regioni nord-orientali della Nigeria, dominate dall’etnia Hausa a maggioranza musulmana impegnati quotidianamente in stragi contro le comunità cristiane locali.

Una presenza integrata dal radicalismo islamico europeo con protagonisti bosniaci o ceceni cittadini del nuovo Stato fondato il 31 ottobre del 2006 da Dokka Abu Usman.  “L’Emirato del Caucaso”, entità virtuale con  l’obiettivo di raggruppare tutta la regione del Caucaso settentrionale in un unico stato musulmano, ricorrendo all’uso della forza nell’assoluto rispetto dell’Islam più radicale.

Gente preparata alla guerriglia ed all’eversione terroristica basata sull’attentato, pronti ad essere “imprestati” alle cellule dormienti già consolidate in Occidente per essere usati in operazioni contro il comune nemico della jihad islamica, gli Stati Uniti d’America.

Minaccia costante, difficile da individuare e motivo di pressante e costante ricatto all’Occidente ed alla sicurezza internazionale, rappresentata da piccole unità di quaedisti in possesso, però, di elevato valore intrinseco, qualora utilizzati in “baratti” fra Islam radicale ed occidente. 

23 aprile 2013, 13,00

sabato 20 aprile 2013

Una nuova minaccia, il terrorismo casalingo

Il 7 luglio del 2005 il primo attentato “fai da te” dopo il devastante attacco terroristico dell’11 settembre 2001 a New York e quello dell’11 marzo 2004  a Madrid.
 A Londra protagonisti islamici di terza generazione. Un segnale importantissimo che indicava l’esistenza di una potenziale minaccia di cittadini occidentali se con lontane origini islamiche, pronti ad agire come “lupi solitari” dietro la spinta propagandistica dell’estremismo religioso. Azione oggi semplice, garantita dalla tecnologia del  mondo del Web, in grado di esercitare una pressione psicologica costante nei confronti di soggetti che convivono con situazioni estreme di disagio.
 A Londra, infatti, hanno agito terroristi non infiltrati per seminare terrore, ma  cittadini dello Stato obiettivo dell’azione eversiva.
 A luglio nel 2005 è nato un nuovo pericolo terroristico destinato ad essere confermato da eventi successivi. Il fallito attentato a Times Square a New York nel maggio 2010 pensato da Faisal Shahzad, pakistano naturalizzato americano   residente negli USA. Il successivo tentativo di far esplodere in volo un aereo della Delta Northwest Airline da parte di  Abdul Farouk Abdulmutallab, un nigeriano di 23 anni, preceduto della strage nella caserma di Fort Hood per opera di Nidal Hasan, ufficiale musulmano statunitense. Faisal interrogato dalla FBI  ammise di essere stato addestrato in Pakistan nella regione del Wariristan a costruire “Improvised Device Explosive” (IED) nel più assoluto rispetto delle tradizioni dell’intransigenza islamica.
Il 16 aprile 2013 l’attentato a Boston ripropone la nuova minaccia. Gli autori i due fratelli Tsarnaev, di origine cecena. Dzhokhar Tsarnaev, 19 anni, è stato catturato ed il fratello Tamerlan, 26 anni, morto dopo uno scontro a fuoco con le forze dell’ordine statunitensi.
Ragazzi arrivati negli Stati Uniti quasi in coincidenza dei fatti di Londra, assolutamente insospettabili, fuggiti dalla guerra civile cecena dopo aver vissuto in Kazakhstan. Mussulmani praticanti,  come ha confermato il padre  dal Dagestan, Repubblica caucasica della  Federazione Russa.
 L’attentato è stato compiuto con mezzi “artigianali”, due pentole a pressione imbottite di esplosivo non eccessivamente potente ed assemblate con tecniche consolidate e comuni agli elementi eversivi che vivono nelle enclavi terroristiche dell’Afghanistan, nei Balcani in Bosnia ed in Kosovo, in Iraq ed in Corno d’Africa.
  A seguire gli eventi di Boston  lettere contaminate con ricina, un potente veleno di origine naturale tra i più pericolosi, sostanza che non è di libera vendita né di facile reperimento, seguite da pacchi sospetti individuati in due edifici del Congresso, l'Hart e il Russell Buildings del Senato. Un copione che ha già caratterizzato gli eventi post 11 settembre con i plichi  all’antrace spediti a vari esponenti del Congresso Statunitense. Si ripropone, quindi, un “homegrown terrorism”, ossia un terrorismo nato in casa,  con protagonisti  ideatori ed esecutori cresciuti in realtà sociali non condivise e coinvolti da un disagio sociale religiosi fondamentalisti. Giovani considerati gente normale, spesso studenti modello, accumunati tra loro dall’interpretazione radicale delle regole religiose.
 Gli attentatori del 2005 a Londra figli di immigrati pakistani ed assidui frequentatori delle moschee più radicali.   Tamerlan, uno dei due fratelli ceceni coinvolti nell’attentato di Boston, autore di un filmato pubblicato su Youtube intitolato “terroristi”, accompagnato da una colonna sonora inneggiante ad Allah. Non fondamentalisti arabi ma  mussulmani europei estremisti. Gli attentatori di Londra nati in Gran Bretagna da genitori pakistani, i fratelli Tsarnaev nati in Cecenia, islamici europei.
 Membri di una nuova matrice terroristica difficile da prevedere e sfuggente all’attenzione investigativa di chi è “professionalmente” concentrato a controllare solo il marocchino, l’algerino o il tunisino.
 Se le ipotesi della FBI venissero confermate la nuova minaccia è rappresentata da “schegge impazzite”  che potrebbero agire di iniziativa per affermare il “proprio io” attraverso atti eclatanti per cancellare la frustrazione indotta in loro dalla costrizione di dover vivere in società in cui non si riconoscono.
 Piccoli gruppi su tre o quattro persone al massimo o singoli individui non collegati al network internazionale di Al Qaeda, ma che agirebbero in modo autonomo.  Cellule che potrebbero essere collegate a forme di terrorismo interno indotte da estremismi di natura politica catalizzati dall’attuale recessione economica.
 Facili prede della propaganda del fondamentalismo religioso sempre di più riconducile all’iniziativa di formazioni islamiche radicali residenti fuori del mondo mussulmano tradizionale. Primi fra tutti i wahhabiti residenti in Bosnia Herzegovina dove sono rimasti moltissimi jihadisti alla fine della guerra e che oggi ospita numerose madrasse disseminate nel Paese che propongono l’Islam più intollerante, tutte finanziate dall’Iran.
 Forze che esercitano una forte pressione propagandistica attraverso il Web, come Bilal Hussein Bosnic, leader del movimento wahhabita in Bosnia Herzegovina che in questi giorni pubblica su Yu Tube “Abbiamo bisogno di mobilitare tutti, dovremmo stare tutti in difesa dell’Islam, ciascuno secondo le proprie responsabilità.  Dichiarazioni alle quali si sovrappongono le parole di un altro leader dei Wahhabiti quando afferma “Dobbiamo amare chi ama Allah ed odiare chi lo odia. ….. odiare gli infedeli anche coloro che sono i nostri vicini di casa ………”.
 Una realtà quella del fondamentalismo islamico in Bosnia in crescita da anni e che gli USA hanno sempre sottovalutato,  nonostante che quasi tutta l’Intelligence occidentale indichi la Bosnia come terreno fertile per il reclutamento di estremisti islamici.
20 aprile 2013, 16,00 



martedì 16 aprile 2013

La vicenda dei due marò si complica


Il 21 marzo Massimiliano Latorre e Salvatore Girone sono stati fatti rientrare in India. Una decisione improvvisa, inaspettata, che a colto tutti di sorpresa considerando che pochi giorni prima, l’11 marzo il Sottosegretario agli Esteri De Mistura, oggi vice Ministro,  aveva assicurato per il tramite dell’Agenzia stampa AGI “La decisione di non far rientrare i maro’ in India “e’ stata presa in coordinamento stretto con il presidente del Consiglio Mario Monti e d’accordo tutti i ministri” coinvolti nella vicenda, “Esteri, Difesa e Giustizia”. Aggiunge che “siamo tutti nella stessa posizione, in maniera coesa e con il coordinamento di Monti”. 

Una decisione che ha portato l’Ambasciatore Terzi, allora Ministro degli Esteri, a dimettersi il 26 marzo palesando il suo dissenso su quanto stabilito dall’Esecutivo.  Una decisione criticata con fermezza il giorno dopo dal Presidente del Consiglio che ha riferito sulla vicenda nella stessa aula istituzionale, perché inaspettata e perché ufficializzata in modo inusuale.

Il Premier, però, nello stesso momento non ha chiarito  nulla sui contenuti delle affermazioni dell’11 marzo del Sottosegretario De Mistura, “siamo tutti nella stessa posizione, in maniera coesa e con il coordinamento di Monti” e si è solo  limitato a rassicurare che l’India si era impegnata a non applicare la pena di morte nei confronti dei due militari.

Un’assicurazione formalizzata, come traspare nei giorni successivi dall’addetto d’Affari indiano a Roma e non confermata dal Premier indiano Singh che in occasione di un contatto telefonico con il Presidente Monti del 9 aprile afferma  "……sarebbe prematuro esprimere un parere su aspetti specifici” (http://www.dnaindia.com/india/1820653/report-italian-pm-calls-up-manmohan-singh-discusses-marines-issue).

Oggi si doveva riunire l’Alta Corte indiana per sancire, tra l’altro, la costituzione del Tribunale Ufficiale deputato a giudicare i due Marò, ma nulla di tutto ciò avviene e tutto è rimandato a lunedì prossimo 22 aprile. E’ ripresa l’altalena dei rinvii dei Tribunali indiani che ha caratterizzato questi ultimi 14 mesi.

Oggi anche un’altra notizia a mio avviso preoccupante. La Reuters da Delhi informa che l’Italia si è opposta al fatto che l’India voglia affidare le indagini ad un’agenzia antiterrorismo per “i rinnovati timori che i militari italiani rischino la pena di morte”! Decisione quella indiana confermata dal procuratore generale G.E. Vahanvati che ha comunicato  che il governo ha assegnato il caso all'Agenzia indagini nazionale (Nia) antiterrorismo perché l'Ufficio centrale di indagine (Cbi) è oberato di lavoro.
Inoltre, Vahanvati ha detto che il governo ha istituito un tribunale speciale per processare Latorre e Girone ed ha aggiunto che il Nia completerebbe le indagini in 60 giorni. E’ stato, però, ambiguo sulle leggi in base alle quali i due italiani sarebbero incriminati e quindi sulle conseguenti pene.
Credo che a questo punto la Presidenza del Consiglio ed il Ministero degli Esteri siano moralmente  e formalmente in obbligo di fornire chiarimenti inequivocabili su quello che sta accadendo, sul perché ancora non è stato avviato l’arbitrato internazionale e di informare i cittadini italiani sulla  reale concretezza delle promesse indiane di non applicare la pena capitale.
Infatti,  le assicurazioni fino ad ora date a tale riguardo, sono contraddette da quanto riportato dalla stampa indiana il 9 aprile ed oggi dalla Reuters.
Peraltro l’Italia stessa,  come riportato dall’Agenzia,  si sta opponendo alle  decisioni indiane sull’affidamento alla NIA delle indagini per “rinnovati timori che i militari rischiano la pena di morte”.
Di chi siano questi timori non è dato saperlo,  ma non possiamo rimanere nel vago per una questione di fondamentale importanza. Credo che abbiamo il diritto di capire se e per la terza volta non sia stato rispettato quanto prescritto dalla Costituzione italiana in materia di estradizione.
Non reputo accettabile  che in uno Stato di Diritto ed in una democrazia evoluta siano  negate informazioni importanti e sia oscurato il diritto di conoscere con certezza.
Credo che se l’Italia per non sconfessare la parola data ha permesso che due cittadini italiani tornassero in un Paese che indebitamente si è appropriato del diritto di giudicarli, anche l’India dovrebbe dare ampia assicurazione su ciò che è “stato formalizzato” al Vice Ministro De Mistura il 21 marzo, garantendo qualcosa della massima importanza come la non applicabilità della pena capitale.
Lo Stato italiano dove pretendere che questo avvenga subito, con trasparenza e con la stessa fermezza con cui l’India ha obbligato l’Italia a rispettare “La parola data”.  
Roma 16  aprile 2012, ore 15,45

domenica 14 aprile 2013

In Siria incombe la minaccia delle armi chimiche


Secondo gli attivisti dei comitati locali anti-regime, Lcc, le forze del presidente siriano, Bashar Al Assad hanno utilizzato armi chimiche in prossimità di piazza Abbasidi a Damasco e nel sobborgo di Jawbar. Il bilancio, secondo gli insorti, è di "almeno un morto e 30 feriti documentati".

Una notizia preoccupante ma da valutare con molta cautela. E’ poco probabile, infatti,  infatti che utilizzando armi chimiche non meglio definite si provochino solo 1 morto e trenta feriti.

Ciò non esclude, però, che Assad disponga di armi chimiche stoccate in due o tre siti a ridosso del confine con il Libano e sotto la protezione degli amici Hezbollah, fidati alleati del comune amico iraniano.  Depositi che le forze armate siriane hanno iniziato a spostare dall’inizio dell’estate dimostrando di non voler rinunciare al proprio arsenale non convenzionale. Una  decisione che potrebbe preannunciare un’escalation incontrollata del conflitto.

Le riserve siriane non dichiarate di gas nervini ed iprite hanno da tempo impensierito le Nazioni Unite e molti dei Paesi della Regione mediorientale per un duplice motivo. Il primo quello che il regime possa utilizzare queste armi contro l’inerme popolazione civile provocando stragi di massa ed inquinamento rilevante del territorio. Il secondo perché gruppi terroristici emergenti od appartenenti ad Al Qaeda, sicuramente già infiltrati fra i ribelli, possano impossessarsene per realizzare “bombe sporche”.

Il governo siriano nega di aver spostato le sue riserve di armi chimiche, e di fatto ha ammesso la loro esistenza non avendo peraltro la Siria mai firmato la convenzione internazionale del 1992 che rende illegale la produzione, la conservazione e l'uso di armi di questo tipo.

Peraltro un industriale di Aleppo rifugiato in Libano, tale Mohammad Sabbagh ha rilasciato una dichiarazione al Time in cui ammette di aver in tempi passati venduto al regime di Assad materie prime per la realizzazione di aggressivi chimici letali. Aggiunge anche che l’impianto di sua proprietà per la realizzazione di cloro gassoso destinato alla potabilizzazione delle acque è caduto pressoché integro nelle mani di Jabhat al-Nusra, il gruppo di fondamentalisti islamici che combatte a fianco dei ribelli e collegato ad Al Qaeda.

L’utilizzo di armi chimiche da parte dei governativi è anche confermato, sempre per quanto  riferito da “The Time”,  da analisi fatte in Inghilterra su campioni di terreno prelevati a Damasco da Truppe Speciali britanniche e dalla scoperta il 19 marzo u.s. nella zona di Aleppo di 30 vittime probabilmente uccise da gas nervino.

Sicuramente ormai in Siria la spirale di violenza è fuori controllo. Il regime è alla corda ed in procinto di essere abbandonato anche dagli alleati più fedeli come Russia e Cina, per cui in un improvviso colpo di coda potrebbe utilizzare su larga scala l’arma chimica alla stessa stregua di quanto fece Saddam Hussein in Kurdistan quando durante la guerra Iraq - Iran il 16 marzo 1988 nella città di Halabja.  

Minaccia incombente che potrebbe spingere l’ONU ad accelerare l’invio di caschi blu in Siria come dichiarato ad un giornale libanese “Al Safir” da Lakhdar Brahimi, inviato speciale in Siria delle Nazioni Unite e della Lega Araba. Parole che sigillano le sue dimissioni previste per il prossimo 18 aprile, dopo non essere riuscito ad ottenere i risultati previsti dal mandato ricevuto.


Roma 14 aprile 2013 - ore 18,00

 

giovedì 11 aprile 2013

L’india esclude la pena capitale per i due Marò italiani. Ne siamo proprio certi ?


Fonti Istituzionali, Vice Ministri ed addirittura garanzie attribuire al Presidente del Consiglio da fonti di stampa ufficiali italiane come la Televisione di Stato, hanno in questi giorni più volte assicurato che l’India non applicherà la pena di morte qualora i due Fucilieri di Marina fossero  condannati.
 
Invece, altre notizie riportate dalla stampa estera indiana ed oggi anche confermate da quotidiani e settimanali italiani  inducono qualche perplessità sulla certezza riferita dagli organi istituzionali.

Ripercorriamo insieme questi eventi comunicativi per capire se i nostri militari non corrono alcun rischio di pena capitale  o se invece  ci sia l’eventualità che l’Italia abbia consegnato – disattendendo precisi articoli della Costituzione - due cittadini italiani ad un Paese terzo che attribuisce loro un’ipotesi di reato per cui potrebbe essere prevista la pena di morte.

La notizia più recente e non smentita a livello Istituzionale,  ci dice che il 9 aprile u.s. il Presidente Monti abbia avuto un colloquio telefonico con il Primo Ministro indiano Singh ed abbia avuto conferma che per reati del tipo di quello  attribuito ai due Marò, l’India non ha mai applicato la pena di morte.

The Hindu ci informa invece che "Il primo ministro Singh ha anche detto che, alla luce delle indagini in corso, sarebbe prematuro esprimere un parere su aspetti specifici” e non dà nulla di certo sulle garanzie date dal Governo indiano che, peraltro, come più volte giustamente ribadito non ha influenza sul potere Giudiziario. (http://www.dnaindia.com/india/1820653/report-italian-pm-calls-up-manmohan-singh-discusses-marines-issue).

Di fatto, quindi, viene ribadita una precisazione più volte ripetuta dal Ministro della Giustizia indiano e che in qualche modo dovrebbe aver attirato l’attenzione del Premier italiano nel momento che un autorevole giornale come l’Hindustan Times ieri ha titolato la notizia della telefonata con “Concerned Italian PM calls up Singh”, che non è azzardato rendere in italiano con un “Interessato (Preoccupato ?) PM Monti chiama di nuovo Singh”.

Notizie che si sovrappongono a quelle  riferite il 21 marzo quando l’Esecutivo ha deciso di far rientrare in India i due Marò. Fra tutte la più importante e tranquillizzante quella dell’allora Sottosegretario De Mistura nominato dal Premier Monti inviato speciale per l’India e successivamente promosso al rango di Vice Ministro, che rassicurava di aver ricevuto una garanzia scritta dall’India sulla non applicazione della pena di morte nei confronti dei due militari italiani.

De Mistura faceva riferimento ad un documento ufficiale indiano , forse una nota verbale come si è soliti dire in diplomazia, comunque mai portata a conoscenza né del Parlamento né di italiani che ne hanno fatto specifica richiesta, che, secondo quanto oggi pubblicato dal settimanale  Panorama, è  solo una specie di dichiarazione sottoscritta dall’incaricato di affari indiano in Italia, tale Ravi Shankar.

 Non dunque un impegno sottoscritto da un pari rango di Delhi, piuttosto una comunicazione di  un rappresentante diplomatico in servizio presso l’Ambasciata indiana a Roma che forse ha suggerito la telefonata a Singh di un “Concerned Italian PM”.

Uno scritto che, inoltre, sempre  come riportato dal settimanale italiano, contiene una promessa in inglese sicuramente non concretamente impegnativa e tantomeno rassicurante. E’ infatti scritto “According to well settled Indian jurisprudence ths case wouldn’t fall in the category of matter wich attrach the dealth penality, that is to say the rarest  of rare cases”. 

In sintesi, quindi, l’addetto d’affari chiarisce che il caso dei Marò non ricadrebbe nella fattispecie di quelli che in India vengono giudicati con la pena di morte, ma non garantisce le decisioni del costituendo monocratico Tribunale Speciale indiano. Una Corte di Giustizia che per quanto noto dovrebbe decidere in base ai riscontri investigativi che sta raccogliendo l’Agenzia antiterroristica indiana, la NIA, che potrebbero proporre le ipotesi di reato finora contestate in maniera diversa e difforme da quelle che hanno portato gli indiani a sottoscrivere “……in the category of matter wich attrach the dealth penality, that is to say the rarest  of rare cases ….”. Sarebbe sufficiente infatti che venisse a mancare l’aggettivazione “raro”.

Il Senatore Monti, forse, avrebbe ragione di essere “Worried” più che  “Concerned”.

Roma 11 aprile 2013 – ore 11.30 

 

 

 

 

venerdì 5 aprile 2013

Cosa ruota intorno ai due Marò ?


L’Ambasciatore Terzi si è dimesso da Ministro degli Esteri in palese dissenso con il Governo nella gestione delle sorti dei due Fucilieri di Marina “rispediti” in India inaspettatamente per loro, per le loro famiglie e per tutti gli italiani che condividono da 14 mesi le ansie di questi due  militari.  

Una scelta sicuramente meditata e connessa forse e per quanto dato da sapere,  anche alla “promozione sul campo” del Sottosegretario Staffan De Mistura  delegato direttamente dal Premier a rappresentare l’Italia nella gestione con l’India della vicenda, senza che il “diretto superiore del Sottosegretario, il Ministro” venisse coinvolto nella specifica decisione.

 Un rappresentante governativo promosso ancora una volta Vice Ministro dopo le dimissioni dell’Ambasciatore Terzi con delega completa a gestire la vicenda dei due Marò. Già Funzionario dell’ONU, De Mistura si è subito prodigato ad assicurare gli italiani che l’India si era impegnata con un documento scritto a non applicare la pena di morte nei confronti di Massimiliano e Salvatore, pur non pubblicando l’impegno nonostante specifiche richieste in Parlamento in occasione dell’audizione del Presidente Monti ed altrettante istanze di cittadini.

Nell’accavallarsi di notizie frammentarie oggi improvvisamente abbiamo appreso da notizie di stampa che  le indagini nei confronti dei due militari italiane saranno riprese da capo ed affidate all’agenzia indiana NIA fondata con scopi antiterroristici dopo l’attentato di Mumbai avvenuto anni orsono. Squadre di operativi con modesta esperienza investigativa ma grande efficacia operativa nell’individuare ed eliminare un pericolo terroristico.

Nel cercare di acquisire informazioni sul perché di questa improvvisa decisione indiana che sicuramente non sarà destinata ad accelerare i tempi a favore dei nostri Marò come espressamente e più volte rassicurato dal Vice Ministro De Mistura, sono incappato in una recente agenzia stampa che induce ancora di più perplessità sulla vicenda.

Un’informazione che confonde nel momento che per quanto compreso dalle parole del Premier pronunciate in Parlamento in occasione della sua recente audizione, solo l’ex Ministro degli Esteri,  l'Ambasciatore Terzi, era l’unico a voler trattenere in Italia i due militari alla scadenza della licenza elettorale loro concessa da Delhi.

Leggiamola insieme :

“17:53 11 MAR 2013
(AGI) - Roma, 11 mar. - La decisione di non far rientrare i maro' in India "e' stata presa in coordinamento stretto con il presidente del Consiglio Mario Monti e d'accordo tutti i ministri" coinvolti nella vicenda, "Esteri, Difesa e Giustizia.
  E' quanto ha affermato all'Agi il sottosegretario agli Esteri Staffan De Mistura, aggiungendo che "siamo tutti nella stessa posizione, in maniera coesa e con il coordinamento di Monti".
  Secondo il governo italiano, ha spiegato De Mistura, "a questo punto la divergenza di opinioni" tra l'Italia e l'India sulle questioni della giurisdizione e dell'immunita' richiede un arbitrato internazionale: il ricorso al diritto internazionale o una sentenza di una corte internazionale". Non c'e' stata ancora, ha spiegato De Mistura una reazione indiana alla nota verbale consegnata dall'ambasciatore italiano a New Delhi Daniele Mancini. "Le nostre priorita' - ha spiegato il sottosegretario - sono da un lato l'incolumita' e il ritorno in patria dei nostri maro' e dall'altro mantenere un ottimo rapporto di lavoro e di collaborazione con le autorita' indiane. L'India - ha aggiunto - e' un grande Paese con il quale abbiamo tutta intenzione di avere un ottimo rapporto. E questo - ha concluso - e' un motivo in piu' per lasciare le divergenze nelle mani del diritto internazionale, magari con una sentenza di una corte internazionale".


Sono confuso e concludo solo chiedendomi se il Sottosegretario agli Esteri a cui fa riferimento l’AGI è lo stesso diplomatico svedese Staffan De Mistura oggi Vice Ministro degli Esteri.

Roma 05 aprile 2013 – ore 14,30

 

 

giovedì 4 aprile 2013

Lettera aperta al Vice Ministro De Mistura


Egregio Sig. Vice Ministro,
sono un cittadino italiano che chiede, con atto formale di posta elettronica certificata,  di poter aver garantito il diritto di conoscere esattamente quali siano le iniziative in corso che l’Italia sta portando avanti per tutelare due cittadini italiani sospettati dall’India di  aver commesso un reato grave. Fatti presumibilmente accaduti secondo le affermazioni indiane durante l’esercizio delle loro funzioni di militari ai quali Nuova Delhi ha anche negato ”l’immunità funzionale”.

A tale riguardo, quindi,  chiedo cortesemente a Lei che per quanto noto ha ricevuto la delega dal Premier di trattare e gestire direttamente il problema, il motivo per cui l’Italia non ha ancora attivato un atto formale presso le Nazioni Unite chiedendo l’applicazione urgente della procedura dell’arbitrato internazionale. Arbitrato che come a Lei noto può essere chiesto anche unilateralmente e che a mio modesto avviso dovrebbe essere avviato con la massima urgenza per dimostrare a Delhi che l’Italia non rinuncia a quanto garantito dal Diritto Internazionale. 

Un ottimismo esasperato, infatti, sulla possibile e rapida soluzione del caso sembra ancora una volta non essere giustificato. E’ di nuovo iniziato il “balletto” dei rinvii delle udienze e le dichiarazioni contrastanti fra i Ministri indiani sulla efficacia legale e sostanziale degli impegni presi dal Ministro degli Esteri indiano che secondo quanto da Lei affermato ha escluso qualsiasi rischio della applicazione della pena capitale da parte del Tribunale speciale. 

Signor Vice Ministro auspicherei, quindi, che nel quadro di un rapporto di massima trasparenza con gli italiani fosse reso pubblico questo documento almeno per quella parte dei contenuti che non siano nè confidenziali né tantomeno riservati. Tutte le centinaia di migliaia di italiani che stanno seguendo la vicenda dei due nostri connazionali da quattordici mesi, forse avrebbero il diritto di poter essere informati non solo  da dichiarazioni ma dalla lettura diretta di un documento di fondamentale importanza e che dovrebbe garantire punti fondamentali del rispetto della nostra Costituzione in materia di estradizione. Un riscontro certo e garantito solo dalla lettura della “nota verbale” congiunta che dovrebbe essere stata sottoscritta da Lei e dal suo pari rango “de facto” indiano, sull’accordo della non punibilità dei due militari con la pena di morte.

Nel ringraziarLa per l’attenzione, rimango in attesa di conoscere i tempi entro i quali l’Italia prevede di chiedere formalmente all’ONU di attivare la procedura dell’arbitrato internazionale non rinunciando in tal modo ai propri diritti e di fornirmi cortesemente ogni altro elemento di risposta anche se negativo che confermi i rapporti di trasparenza fra i cittadini e le Istituzioni,  giustappunto quanto garantito dalla normativa italiana (legge 241/90) ed imprescindibile punto fermo delle  democrazie evolute .

Cordialmente

Gen.Brig. (ris) dott. Fernando Termentini

 (mail@fernandotermentini.it), amministratore del gruppo di FB “Riportiamo a casa i due militari prigionieri” (   https://www.facebook.com/groups/337996802910475/)