mercoledì 25 gennaio 2012

La globalizzazione del fondamentalismo islamico dopo la primavera araba

Il rischio di una globalizzazione dell'estremismo islamico, come era prevedibile, segue a distanza di un anno la primavera araba. Attraverso queste pagine esprimemmo subito il dubbio che quanto stava accadendo poteva avere ricadute negative sulla minaccia terroristica qualora non attentamente monitorato. Le manifestazioni, infatti, fin dall’inizio si proponevano spesso con approcci estremistici che nulla avevano a che fare con la cultura pastorale e contadina di quella gente, ma che erano permeate da una specie di magnificazione collettiva. Piazze che non si limitavano a rivendicare i loro diritti, ma si auto esaltavano gridando “Allah Akbar” (Dio è il più grande), con atteggiamenti molto simili a quelli ricorrenti a Gaza, a Teheran, Bagadad o Kabul. L’inizio di uno tsunami che avrebbe coinvolto di lì a poco i Paesi africani limitrofi e scavalcato il Mediterraneo per inondare tutto il Medio Oriente. Vicende totalmente ignorate dall'Europa, solo un gemito timido della Asthon che condannava i massacri di Mubarak e di Bel Alì, senza andare oltre con concrete iniziative politiche. Un'Europa che fin dall'inizio ha dimostrato la più completa inadeguatezza a gestire eventi che di lì a poco avrebbero rappresentato una trasformazione storica e culturale epocale. Ben presto, l'onda anomala ha superato il Mediterraneo raggiungendo il Barein, il Qatar, l'Oman e lo Yemen dove da tempo erano operative cellule di Al Qaeda. Un effetto domino che ha raggiunto anche la Siria suscitando l’immediata e feroce repressione del Presidente Assad. I veri obiettivi dei protagonisti della primavera araba sono stati improvvisamente cancellati dai risultati elettorali tunisini ed egiziani e da ciò che sta accadendo in tutta l’Africa islamica. Non democrazie laiche, ma grande prevalenza di realtà islamiche radicali. In Tunisia si è affermato il partito islamico degli Ennahda molto più vicino a Teheran piuttosto che alle democrazie occidentali. In Egitto la prima parte della lunga e complessa tornata elettorale ha dato la vittoria ai Fratelli Mussulmani che insieme ad altri partiti islamici radicali hanno conquistato il 70% dei seggi. In Libia, il Presidente ad interim del CNT, Mustafa Abdelhakiche Jalilha ha formalizzato al mondo che la nuova Costituzione libica sarà improntata alla stretta osservanza della Sharia. Contestualmente, ha nominato Abdel Hakim Bellhady Comandante militare della piazza di Tripoli e gli ha dato la delega di riorganizzare il nuovo Esercito libico. Hakim, uno storico capo di Al Qaeda in Libia, combattente in Afghanistan e già ospite di Guantalamo, incaricato da Bin Laden di organizzare gruppi armati libici destinati ad uccidere Gheddafi e rovesciate la Jamahirys Popolare Socialista libica. Attentati in Somalia dove i pirati dimostrano un rinnovato vigore e dove gli Shabab, gruppo militante islamico legato ad Al Qaeda, si propongono sempre di più come una realtà politica radicale, con un ruolo destabilizzante in tutta l’area del Corno d’Africa. Nel Maghreb subsahariano le cellule di Al Qaeda si sono appropriate di consistenti armamenti ed equipaggiamenti militari abbandonati durante la guerra in Libia. Un approvvigionamento clandestino che potrebbe aver acquisito anche materiale militare non convenzionale, chimico e nucleare, accantonato nei depositi segreti di Gheddafi e che potrebbe essere utilizzato in IED (Improvised Explosive Device) destinati ad attacchi terroristici sporchi. In Algeria quotidiani locali riportano che sono stati sventati attacchi terroristici contro navi in navigazione nel Mediterraneo, pianificati dalle cellule di Al Qaeda nel Magreb. In Sudan gli arabi islamisti continuano a minacciare e colpire le minoranze. In Nigeria, improvvisamente, è esploso il radicalismo islamico che negli ultimi mesi ha compiuto stragi fra le comunità cattoliche. Veri e propri atti di genocidio sistematico camuffato da attacchi terroristici. Venerdì 20 gennaio un massacro a Kano, città di 3 milioni di abitanti a nord del Paese. Gli integralisti islamici del gruppo Boko Harm, hanno trucidato 160 nigeriani cattolici. Anche il gruppo Polisario comincia a farsi risentire. Attivo da decenni nel Sahara occidentale per rivendicare i diritti del popolo Sahraui, con un passato caratterizzato da feroci scontri contro il Marocco durati fino al 1975 , anno in cui l’organizzazione venne di fatto riconosciuta dall’ONU. Un improvviso risveglio che, come riferito da autorevoli testate giornalistiche internazionali, vede alcuni membri di Polisario in crescente contatto con cellule di Al Qaeda dell’AQMI (Al Qaeda del Maghreb islamico). Il ritorno sulla scena del gruppo Polisario pregiudica la stabilità già precaria di tutta la regione sahariana occidentale e dello Shael, zona costiera nel nord Africa, roccaforte di criminali, terroristi internazionali e trafficanti di droga. Nello Shael circolano ogni anno quasi 100 tonnellate di cocaina commercializzata con la partecipazione attiva di membri di Al Qaeda, alla stessa stregua di quanto accade in Afghanistan per la raffinazione ed il commercio dell’eroina. Sostanze stupefacenti destinate ad inondare i mercati occidentali con scopi anche destabilizzanti, attraverso quello che potremmo definire il “terrorismo bianco”. Ad un anno dalla primavera si constata un’emergente globalizzazione del radicalismo islamico, in aree fino ad ora caratterizzate da apprezzabile tolleranza fra le varie religioni e dove la laicità dello Stato ha sempre favorito un avvicinamento all’Occidente. Shebab somali, Boho Haram nigeriani, cellule di Al Qaeda nel Maghreb, in Mali, in Niger, in Ciad ed in Algeria. Entità che scalpitano dopo la scomparsa di Gheddafi che, invece, come Capo dell’Unione Africana, era riuscito a gestirne la convivenza, assicurando un certo equilibrio nella regione. La presenza di Al Qaeda non è più concentrata in Afghanistan, ma è ormai estesa nel mondo. In Waziristan, in Somalia, nelle province remote dello Yemen con lente ma incisive penetrazioni di jihadisti in Tunisia, in Egitto ed in Libia, dove, in Cirenaica, sono presenti da anni elementi quaedisti. Gli “arabi afgani”, mujahidin che nel 1989 hanno combattuto in Afghanistan contro i sovietici e successivamente si sono organizzati in Libia in una vera e propria struttura armata destinata a suo tempo ad opporsi al regime di Gheddafi, il Lybian Islamic Fighting Grop (LIFG). Aggregazioni diverse che cercano di imporre in Africa un’egemonia islamica radicale dallo Shael alle coste occidentali della Nigeria fino a quelle orientali della Somalia. L’estremismo islamico, quindi, approfittando dell'onda lunga provocata dallo tsunami della “rivolta del pane” sta dilagando in tutta l'Africa. Contemporaneamente l’Iran minaccia l’Occidente paventando la chiusura dello stretto di Hormuz, passaggio obbligato delle risorse energetiche dirette verso il mondo industrializzato ed in Siria l’alleato ed amico Assad continua a massacrare il suo popolo. L’Europa continua a limitarsi a guardare confermando i limiti della sua inconcludente politica internazionale che si aggiunge al fallimento dell’Unione anche come holding economica.
25 gennaio 2012 – ore 12,30

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