domenica 28 marzo 2010

I rapporti Pakistan - Afghanistan

Una dozzina di importati leaders dei Talebani, Comandanti militari e procacciatori di risorse economiche destinate agli insorti afgani, nelle ultime sei settimane sono stati arrestati in Pakistan. Il governo di Kabul e responsabili del Contingente NATO hanno apprezzato i risultati che sicuramente hanno influito negativamente sulle operazioni militari dei Talebani attaccati ad Helmand ma, nello stesso tempo, è stato espresso anche scetticismo in quanto gli arresti hanno inciso negativamente sui colloqui “riservati” che ormai da mesi Karzai sta portando avanti autonomamente con esponenti dei Talebani. Fonti di stampa locali ed internazionali come il TIME, riportano, infatti, interviste a rappresentanti governativi registrate a Peshawar, a Kabul ed a Kandahar da cui emerge che dei 14 arrestati, otto erano sicuramente favorevoli al processo di pace nel quale sembra fossero già coinvolti personalmente. Ipotesi confermate anche da un funzionario delle Nazioni Unite Kai Eide, ex rappresentante speciale dell’ONU in Afghanistan, che in una recente intervista alla BBC ha affermato che gli arresti avvenuti in Pakistan hanno interrotto contatti già attivi a Dubai tra Nazioni Unite e Talebani anche con l’importante mediazione del re Abdullah e di altri esponenti di spicco dell’Arabia Saudita. Gli arresti effettuati dai pakistani hanno anche interrotto contatti aperti personalmente da Karzai con parte degli arrestati fra cui il Mullah Abdul Ghani Baradar, tutti appartenenti alla tribù afgana Popalzai di cui è originario lo stesso presidente. Molte le perplessità, quindi, sull’efficacia politica dell’azione pakistana che anche analisti locali giudicano inaspettata perché, come ribadito ufficialmente da un alto funzionario del Governo afgano, "I pakistani conoscevano da almeno otto anni ogni movimento di Abdul Ghani Baradar e degli altri arrestati all'interno del Pakistan. Ed allora perché gli arresti ora, quando cominciava ad arrivare qualche segnale di pace con i Talebani? ". Molti, dunque, gli interrogativi in sospeso. Fra i possibili motivi uno potrebbe essere rappresentato dalla pressione che l'Amministrazione Obama sta esercitando sul Pakistan perché assuma un ruolo più concreto nella lotta contro i Talebani ed acceleri le iniziative in corso nel paese come il contrasto alla raccolta dei fondi destinati agli insorti afgani, il reclutamento di “jihadisti” e di kamikaze in particolare adolescenti frequentatori delle madrasse pakistane (scuole religiose islamiche). Ma molto probabilmente non è l’unica ragione che ha spinto Islamabad a procedere all’improvvisa cattura di importanti personaggi talebani da anni residenti in Pakistan . I servizi segreti pakistani - principali artefici dell’insediamento dei Talebani a Kabul nella metà degli anni ’90 - sono stati esclusi, per quanto noto ed almeno per ora, dalle trattative di pace. I funzionari dell’ISI (Inter Service Intellgence) pakistano, notoriamente interessato alle vicende afgane. potrebbero, quindi, avere interesse perché coloro che sono stati catturati non partecipino alle trattative di pace in quanto da sempre interfacciati ad esponenti dell’ISI e quindi a conoscenza di possibili episodi del passato in cui l’intelligence pakistana potrebbe avere avuto un ruolo determinante e non sempre a totale vantaggio degli afgani. Infatti l’ISI, sulle orme del vecchio KGB, non sempre ha applicato nel tempo procedure operative condivisibili e i talebani di rango come Abdul Ghani Baradar e Mulvi Kabir potrebbero essere a conoscenza di dettagli scomodi, anche solo per averli subiti. Sicuramente il Pakistan non è molto favorevole che i Talebani catturati nel paese possano incontrare le autorità afgane, come tutta la stampa pakistana riferisce in questi giorni informando che Islamabad ha rifiutato di accogliere la richiesta di estradizione presentata da Kabul per poter interrogare coloro che sono stati arrestati a Karaci ed ha respinto anche le richieste degli Stati Uniti che intendono interrogare costoro senza la presenza di funzionari dei servizi segreti pakistani. Il rifiuto pakistano, come ipotizzato da Thomas Ruttig, uno dei direttori del network di analisti operativo in Afghanistan, potrebbe rappresentare un tentativo di ottenere che anche funzionari di Islamabad siano coinvolte nel processo di pace e, per l’appunto, l’ISI potrebbe cercare di creare le condizioni perché tutto ciò si realizzi. Il Pakistan teme sicuramente che la sua estromissione possa rappresentare una sconfitta politica che annulli gli sforzi dei pakistani impegnati da decenni di cercare di ottenere che nel governo di Kabul sia presente una maggiore rappresentanza pashtun non solo composta da talebani, ma anche da altri due gruppi di ribelli come il clan di Haqqani, che opera nell’Afghanistan orientale e quello dell’ex signore della guerra Gulbuddin Hekmatyar che non ha mai smesso di interfacciarsi con l’intelligence pakistana fin dai tempi dell’invasione russa dell’Afghanistan. Il Pakistan guarda anche con sospetto alla emergente presenza dell’India in Afghanistan ed Islamabad recentemente, in occasione della recente visita di Karzai, ha esplicitamente chiesto al presidente afgano un maggiore impegno per frenare la crescente ingerenza dell’eterno nemico del Pakistan. Forse, una nuova situazione si sta configurando nella regione, con contorni ancora sfumati ma che andrebbe attentamente monitorata perchè potrebbe incidere sulla stabilità di una regione geografica essenziale a livello globale. A tale riguardo una rilettura degli avvenimenti terroristici avvenuti a Kabul il 26 febbraio 2010 induce a pensare che forse qualcosa è già in evoluzione. L’obiettivo principale di quella azione era un albergo che ospitava oltre agli italiani anche diversi operatori indiani attivi in Afghanistan. Fra le vittime sicuramente non casuali, cittadini indiani qualcuno presumibilmente funzionario della vicina Ambasciata dell’India a Kabul. Un atto terroristico sicuramente coordinato sul piano tattico e pianificato e non affidato a gruppi armati improvvisati e motivati solo dal fanatismo religioso. Piuttosto un’azione più complessa che potrebbe aver avuto uno scopo ben più complesso da quello di un semplice gesto terroristico attuato per raggiungere un mero consistente impatto mediatico. Qualcosa pensata, organizzata e condotta da un “gruppo di fuoco” che con ogni probabilità non era composto solo da Talebani, piuttosto integrato e coordinato da elementi esterni secondo un modello molto noto nel passato durante la resistenza dei mujaheddin contro l’invasore sovietico e, successivamente, nel corso della guerra civile afgana a vantaggio della vittoria dei Talebani.
28 marzo 2010

lunedì 22 marzo 2010

Afghanistan. Gli USA non distruggono le culture di papavero da oppio



Il 19 marzo il Vice responsabile della rappresentanza russa presso le Nazioni Unite ha svolto una relazione al Consiglio di sicurezza dell’ONU sulle dimensioni della minaccia rappresentata dalla droga coltivata in Afghanistan e dei commerci illeciti che da qui raggiungono i mercati mondiali. Il diplomatico, ha sottolineato anche l’esigenza che il problema deve essere immediatamente affrontato sul posto, in quanto è accertato che i traffici illeciti rappresentano una risorsa economica per il terrorismo internazionale. La diplomazia russa dall’inizio dell’anno ripropone per la terza volta questo problema all’ONU, rimarcato anche dal rappresentante della Russia presso la NATO che ha auspicato il raggiungimento di una posizione comune in Afghanistan contro la produzione ed il traffico degli stupefacenti.Un’aspirazione che sembra, invece, essere disattesa, almeno in parte, dagli Stati Uniti che, come riportano alcune fonti di stampa afgane ed americane, stanno affrontando il problema con un approccio “inusuale”. Il Gen. Stanley McChrystal sembra, infatti, orientato a non distruggere le coltivazioni del papavero da oppio presenti nella provincia di Helmand dove il Contingente NATO sta consolidando i propri successi militari, in quanto ritiene che l'oppio rappresenta il principale sostentamento per il 60 al 70 per cento degli agricoltori in Marjah e distruggere i campi prima del raccolto comprometterebbe la già precaria economia locale. Una posizione condivisa dal Comandante Jeffrey Eggers che ha confermato di non voler "calpestare il sostentamento di chi sta cercando di conquistare” ed anche funzionari delle Nazioni Unite impegnate sul fronte della droga in Afghanistan, risulta che concordino con questa posizione pur non nascondendo una certa sorpresa per una decisione la cui origine è enigmatica. Una parte dei funzionari afgani dell’attuale Governo non approvano, invece, queste scelte e invocano la nuova Costituzione afgana che proibisce la coltivazione del papavero da oppio. Costoro vorrebbero distruggere le coltivazioni prima della raccolta per lanciare un segnale di inversione di tendenza e non alimentare ancora le entrate dei gruppi ribelli. Zulmai Afzali, portavoce del ministero afgano per la lotta contro la droga ha esplicitamente affermato che non ci può permettere che il mondo “veda le forze legalmente incaricate di conquistare Marjah stare accanto ai campi pieni di oppio destinato ad essere raccolto e trasformato in un veleno che uccide la gente di tutto il mondo". Una dichiarazione ufficiale di un rappresentante del Governo di Karzai che per la prima volta dal 2001 contesta una decisione americana inopinatamente permissiva nei confronti di coloro che garantiscono risorse ai Talebani con il traffico della droga e dei funzionari corrotti che hanno favorito il sorgere di feudi mafiosi in aree come Marjah. Amministratori che hanno sottaciuto il proliferare dei laboratori per la trasformazione del papavero da oppio in eroina ed il consolidamento di clan malavitosi che localmente gestiscono il commercio della droga attraverso il Pakistan a est, l'Iran ad ovest o gli Stati dell'ex Unione Sovietica, a nord. Un "matrimonio di convenienza" che ha trasformato l'Afghanistan in uno Stato di narcotraffico paragonabile alla Colombia, come recentemente affermato da Antonio Costa direttore esecutivo di UNODC (Ufficio dell’ONU contro le Droghe ed il Crimine). La scelta americana va, quindi, controcorrente e disattende le aspettative afgane ed internazionali che desideravano che la distruzione totale di tutte le coltivazioni di oppio avvenisse contemporaneamente al progredire dell’offensiva, seppure prevedendo un rimborso a favore dei contadini proprietari delle culture. Ma quello che può sembrare un enigma potrebbe invece essere una pragmatica decisione indotta dalle esigenze operative attuali e future. L’operazione Mushtarak (“insieme” in Dari e Pashto) in corso nella Provincia di Helmand, sarà seguita a breve dalla già programmata “Operazione Omaid” che avrà lo scopo di eliminare la presenza dei Talebani nel vecchio feudo del Mullah Omar, Kandahar la capitale spirituale degli Studenti Islamici che hanno governato l'Afghanistan dal 1996 fino alla loro caduta nel 2001. Una provincia difficile quella di Kandahar, in cui nel tempo sono state accertate varie forme di corruzione che hanno coinvolto anche persone vicine al Presidente Karzai, originario della Provincia. Fra tutti, Ahmed Wali Karzai fratellastro del presidente afgano, eletto nel consiglio provinciale di Kandahar, al quale gli analisti politici presenti nel paese attribuiscono un ruolo che si estende ben oltre a quello di anziano della tribù Popalzai e di capo del consiglio provinciale. Wali Karzai ha dimostrato nel tempo di essere in grado di gestire le controversie locali, di canalizzare gli aiuti umanitari e di influire sulla stessa giustizia. Esperti antinarcotici in Kabul ammettono che pur non avendo prove su possibili collegamenti del fratello del Presidente con i trafficanti di droga, sono a conoscenza che lui ed i suoi parenti sono potenzialmente in grado di influenzare le strutture istituzionali, come i vertici della polizia di Kandahar ed anche della provincia di Helmand, accusati di aver favorito il passaggio delle spedizioni di droga verso l’Iran ed il Pakistan, un commercio del valore di tre miliardi di dollari in un anno. Un personaggio poliedrico Wali Karzai che sembra avere anche contatti di “lavoro” con la CIA che con ogni probabilità si affida al network gestito sul territorio dal potente uomo politico per le attività di intelligence svolte nella provincia e non solo. Sicuramente anche McChrystal conosce il ruolo di Wali Karzai e le sue potenzialità, per cui avrebbe deciso di non correre il rischio di compromettere l’offensiva di Kandahar ed ha procrastinanto la distruzione delle coltivazioni di papavero da oppio pur correndo il pericolo che nel frattempo un fiume di droga seguiti ad inondare il mondo. L’enigma non è forse più tale, ma rimangono seri dubbi sulla condivisione e l’efficacia di queste scelte che sembrano scaturire dall’esigenza di non compromettere gli equilibri con una parte importante del Governo di Kabul.
22 marzo 2010

domenica 21 marzo 2010

IED artigianali in Afghanistan

Il Washington Post, uno dei maggiori quotidiani USA ha pubblicato il 18 marzo u.s. la notizia che “i combattenti talebani hanno più che raddoppiato il numero di bombe artigianali”. Una tipologia di IED (Improvised Esplosive Device) provvisti di cariche esplosive autocostruite, ormai numericamente di gran lunga superiore a quanto utilizzato in Iraq. L’autore dell’articolo, Craig Whitlock , motiva questa nuova scelta operativa dei Talebani con il fatto che gli ordigni a bassa tecnologia sono difficilmente individuabili dai sofisticati sistemi di contromisura utilizzati dal Contingente militare della NATO ed in particolare da militari USA. Una spiegazione assolutamente vera se riferita ai sistemi di attivazione degli IED nel caso che gli insorti utilizzassero sistemi meccanici piuttosto che elettronici. Assolutamente affrettata se riferita solo al tipo di carica esplosiva e peraltro fuorviante qualsiasi valutazione analitica della minaccia. Qualunque sia, infatti, la carica esplosiva utilizzata, artigianale realizzata impiegando sostanze chimiche destinate all’agricoltura (fertilizzanti) mescolate a gasolio o esplosivo convenzionale per uso bellico, non può vanificare l’efficacia dei moderni dispositivi elettronici utilizzati contro la minaccia specifica, gli “jammers”. Essi agiscono sul dispositivo di attivazione dell’ordigno cercando di “confonderlo” (jam in inglese significa pasticcio, confusione) e non sulla sua carica, qualunque essa sia. I dispositivi utilizzati dal Contingente NATO in Afghanistan emettono segnali radio di disturbo per rendere inutilizzabile i possibili congegni elettronici utilizzati da un terrorista per attivare a distanza l’esplosione e sicuramente non vengono “accecati” da cariche esplosive artigianali. I disturbatori elettronici impiegati nel teatro afgano ed iracheno, sono estremamente versatili, coprono un'ampia banda di frequenza radio ed altrettanto un numero elevato di bande in uso ai cellulari con lo scopo di contrastare ogni possibile gamma di fonti di emissioni elettromagnetiche, dai semplici trasmettitori radio ai telefonini più sofisticati ed a qualsiasi altro dispositivo wireless. Probabilmente i Talebani, constatata la valenza dei moderni jammers, stanno mutando le scelte operative ritornando ad esaltare il concetto a base di ogni IED: tanto più efficace quanto maggiore è la fantasia di chi lo realizza piuttosto che la sofisticazione del materiale usato. I talebani sono, infatti consapevoli che nel 70% dei casi la presenza degli IED artigianali, è possibile solo se gli specialisti EOD (Esplosive Ordnance Disposal) sono in grado di “leggere” specifici indizi sulla presenza di possibili “ordigni da agguato terroristico”. La scelta talebana potrebbe, quindi, risultare vincente nei confronti di un avversario che ormai è abituato ad utilizzare dispositivi tecnologicamente sofisticati per individuare e neutralizzare gli ordigni e che, quindi, ha perduto la “sensibilità epidermica” indispensabile per individuare gli indicatori della possibile presenza di IED, garantita solo da un’attenta formazione consolidata attraverso una lunga esperienza operativa. Per realizzare IED artigianali che all’atto dell’esplosione abbiano un’efficacia almeno eguale a quelli di ordigni tecnologicamente più evoluti anche solo usando munizionamento bellico, è necessario disporre di grosse quantità di sostanze chimiche di base e di altro materiale di normale uso commerciale che in realtà come quella afgana possono essere assicurate unicamente potendo fare affidamento sul sopporto logistico locale che solo la complicità della popolazione e stretti rapporti con la malavita locale possono garantire. Questa scelta operativa dei Talebani, se confermata, potrebbe configurare un nuovo scenario in cui il consenso per gli insorti da parte della popolazione locale e la complicità dei Signori della Guerra assumerebbero una valenza significativa con ricadute anche su una possibile rivalutazione del ruolo degli insorti. I clans di criminali, inoltre, sicuramente sfrutterebbero la situazione utilizzando parte del materiale destinato agli attacchi terroristici per la tutela dei loro interessi non leciti attraverso attentati che poi potrebbero essere attribuiti agli insorti coinvolgendo in particolare le forze di polizia ed il personale della NATO. A tale riguardo è assolutamente condivisibile l’affermazione attribuita dall’articolo del Washington Post al Magg. Gen. T. Michael Flynn, il capo dell'intelligence militare americana in Afghanistan, quando afferma che “il modo più efficace per combattere l'ondata di IED è quello di applicare una strategia globale anti - insurrezionale che coinvolga la popolazione locale”. Un approccio che contribuirebbe ad isolare i Signori della Guerra e proporre gli abitanti come un’essenziale fonte informativa per gli specialisti di antisabotaggio.

22 marzo 2010

(per approfondimenti: http://www.difesa.it/backoffice/upload/allegati/2010/%7B130B2A1C-2D2B-4C1A-8600-514CEB08D8B0%7D.pdf )

mercoledì 17 marzo 2010

Afghanistan. Dopo i Talebani anche i Signori della Guerra al Tavolo della pace

Il governo afgano ha approvato martedì 16 marzo una legge che condona tutti i crimini di guerra avvenuti prima del 2001. Un’amnistia ratificata improvvisamente e che assicura immunità generalizzate a tutti coloro che già appartenenti a gruppi armati protagonisti della guerra civile afgana possono aver commesso atti contro i diritti umani. Una legge approvata, per quanto noto, con il consenso dei due terzi del Parlamento e quindi, come previsto dalle procedure afgane, operativa senza la firma di Karzai. Un Parlamento di cui fanno parte alcuni degli ex protagonisti della guerra civile afgana come i due vice presidenti di Karzai che hanno fatto parte delle fazioni armate che a partire dall’inizio degli anni ’90 si sono fronteggiati per assicurarsi il controllo di Kabul e dividersi quello dell’Afghanistan. L’atto legislativo non viene assolutamente condiviso dalle molte organizzazioni afgane impegnate in difesa dei diritti civili della popolazione. Costoro considerano la legge come "Una vergogna assoluta che cancella anni di guerra civile che ha provocato la distruzione di interi quartieri della Capitale, rovine che ancora oggi ricordano quelle vicende, con migliaia di morti fra la popolazione civile e centinaia di migliaia di persone costrette a fuggire dalle proprie case. E’ uno schiaffo a tutti gli afgani che hanno sofferto per anni ed anni i crimini di guerra ed i signori della guerra". Appoggiare un simile condono che riabilita di fatto coloro i quali hanno gestito da sempre le sorti del paese, potrebbe essere pericoloso ed innescare l’inizio di nuovi anni di guerra civile, come avvenuto subito dopo l’uscita dall’Afghanistan dell’invasore sovietico. Un rischio molto probabile se si considera che le sette fazioni che dal 1989 e fino all’avvento dei Talebani si sono confrontate con le armi per la spartizione politica del paese, ancora oggi hanno una notevole influenza politica, accompagnata da un’altrettanto elevata potenzialità militare. Non tutti condividono questa ipotesi e ritengono che garantire l’immunità ai signori della guerra può rappresentare l’inizio della vera ripresa economica dell’Afghanistan. Costoro, però, dimenticano che i Signori della Guerra non hanno mai smesso di coltivare oppio, esportare droga ed armi e controllare il traffico commerciale nel paese, anche durante il periodo dei Talebani e soprattutto dal 2002, in combutta con i governanti delle aree tribali pakistane. Costoro difficilmente abbandoneranno la loro “antica cultura”, bensì faranno dell’amnistia un motivo per operare in tranquillità e senza correre il rischio di dover rispondere di vecchie colpe. Una legge che di fatto favorisce chi è vicino a molti degli attuali esponenti politici che hanno un interesse indotto perché i “potenti locali” siano liberi di difendere gli antichi privilegi dei clan di appartenenza.

17 marzo 2010

lunedì 15 marzo 2010

Gli aiuti ONU in Somalia

Domani 16 marzo dovrebbe essere consegnata al Consiglio di Sicurezza ONU una relazione riservata sulla gestione degli aiuti delle Nazioni Unite destinati alla Somalia per assicurare la sopravvivenza di circa 2 milioni e cinquecentomila somali sparsi su tutto il territorio e da anni sotto la mannaia della guerra civile. Il Programma Alimentare delle Nazioni Unite (PAM) in Somalia ogni anno gestisce circa 450 milioni di dollari per garantire cibo e quanto altro necessario ad una popolazione priva di tutto. Una cifra assolutamente rilevante, circa il 50% delle risorse annuali amministrate dall’Agenzia per portare aiuti in tutto il mondo. Non tutte le risorse economiche sono impiegate per assicurare il cibo e gli aiuti che occorrono. Il 30% è destinato a garantire le retribuzioni e la logistica di funzionamento del personale delle NU che opera nel Paese. Un 10% per pagare i trasporti delle derrate alimentari e degli altri aiuti che in teoria dovrebbero raggiungere tutta la popolazione. Questa attività è gestita con criteri monopolistici da tre famiglie locali di cui una molto vicina ai Talebani di Al Qaeda dislocati in Somalia, gli Sheebaab, da sempre oppositori del governo provvisorio. Gli aiuti arrivano via mare ai principali porti di Mogadiscio, Merca, Borraso, trasportati da navi scortate fino in rada dalle marine militari internazionali schierate per contrastare la pirateria nel Golfo di Aden. Nei porti il materiale viene preso in carico dai trasportatori che dovrebbero raggiungere i punti più reconditi della Somalia, scortati da un servizio di sicurezza garantito da un’organizzazione molto vicina ai “Talebani somali” che allo scopo ricevono congrui compensi (si parla di 40.000 US$ a viaggio). Gli autocarri, però, appena lasciate le banchine portuali si disperdono sul territorio, la merce raggiunge i magazzini di clan locali per ritornare di lì a poco sui mercati senza nemmeno che sia strappata l’etichetta che riporta la scritta “UN Aids” (Aiuti delle Nazioni Unite). Olio, riso, frumento, farina vengono esposti sui carrettini dei mercatini delle città. in particolare di Mogadiscio nei pressi del triste “Quarto Miglio” vicino ai resti di un arco di trionfo, retaggio della presenza coloniale italiana. La popolazione per sopravvivere deve quindi ricomprare ciò che la comunità internazionale ha fatto arrivare come dono, assicurando una fonte di reddito significativa che giornalmente rimpingua le casse dei clan locali, molti dei quali affiliati ad Al Qaeda. Una realtà nota a chi conosce quelle aree per esservi vissuto a lungo e che improvvisamente, quasi fosse qualcosa di nuovo e sconosciuto, attira l’attenzione dei maggiori organi di informazione nazionali ed internazionali. Talmente strana ed inopinata da diventare oggetto di una relazione specifica per il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, come se si trattasse di un nuovo scandalo fra i tanti che caratterizzano il secolo e di cui le NU non sono indenni. Ma non è così. Piuttosto è calzante affermare che “nulla di nuovo è sotto il sole”, nemmeno la latitanza degli organi di controllo internazionale che dovrebbero gestire gli aiuti e che invece si limitano ad interventi sporadici e non esercitano il loro mandato attraverso un costante e capillare monitoraggio. La realtà somala proposta come novità invece non è altro che espressione attualizzata di quanto è sempre avvenuto in quel paese, fin dal lontano 1993 anche in presenza delle truppe internazionali che parteciparono alla operazione “Restore Hope” (Ridiamo speranza) voluta proprio dalle Nazioni Unite (http://www.fernandotermentini.it/somalia.htm). Anche allora gli aiuti arrivavano via mare, la merce era caricata su automezzi che subito dopo essere usciti dal piazzale del Porto Vecchio di Mogadiscio sparivano nel paese inghiottiti dai magazzini dei potenti di allora. Il trasporto era assicurato da un’organizzazione gestita da un tale Signor Marocchino, italiano di nascita e somalo di adozione, venuto improvvisamente alla ribalta in occasione dell’omicidio di Ilaria Alpi e del suo fotoreporter. Le derrate ricomparivano di lì a qualche giorno sugli stessi mercati di oggi, come fotografie dell’epoca evidenziano, con criteri regolati da Aidid ed Alimadi, i due Signori della Guerra che in quel tempo si erano spartiti Mogadiscio e quindi la Somalia. La novità di oggi rispetto al passato è rappresentata dal budget lievitato e dalle fazioni di Al Qaeda e dei fondamentalisti islamici che si sono sostituite alle milizie dei Signori della Guerra dell’epoca e dal fatto che il Signor Marocchino, se ancora presente in Somalia, divide il business insieme ad altri molto vicini ai Talebani. Una maggiore attenzione e controllo internazionale avrebbe evitato, forse, la sorpresa e la meraviglia di oggi a totale vantaggio della popolazione ed impedendo ad una componente significativa di Al Qaeda di radicarsi sul territorio e ricavare a danno dei somali risorse economiche utilizzabili anche per scopi terroristici. Invece, anche la Somalia, un tempo paese islamico moderato, deve subire “le regole del mullah Omar” ed alle donne è proibita qualsiasi attività, anche quella di lavorare all’interno delle organizzazioni ONU impegnate a garantire la sopravvivenza della popolazione. Un’errata valutazione della realtà di un paese del Corno d’Africa strategicamente importante per collocazione geografica ha permesso il consolidamento nell’area di una importante struttura terroristica che in parte si garantisce autofinanziamenti derivati da una poco attenta gestione degli aiuti internazionali. Una struttura terroristica ben organizzata pronta ad interfacciarsi con i fratelli che vivono in Yemen per il controllo del Golfo di Aden, arteria strategica per i rifornimenti energetici ed il commercio internazionale. Un processo forse già avviato dai pirati somali che ogni giorno perfezionano le loro tattiche ed incrementano il loro potenziale operativo con gli attacchi ai navigli commerciali, affinando le loro tecniche con le quasi quotidiane “prove generali”.


15 marzo 2010

domenica 14 marzo 2010

Evoluzione terroristica in Afghanistan all’approssimarsi della loya jirga

Karzai ha espresso l’intenzione di chiamare i Talebani al tavolo della pace dopo che abbiano deposto le armi. L'alleanza della NATO sta attaccando in maniera incisiva e con una progressione costante le roccaforti dei Talebani e di Al Qaeda nella provincia di Helmand e l’offensiva è destinata a proseguire su Kandahar, patria spirituale dei talebani dal 1990, città natale della famiglia Karzai ed amministrata dal fratello di costui. Karzai subito dopo la visita del presidente iraniano si è recato in Pakistan ed in occasione di una conferenza stampa tenuta ad Islamabad con il primo ministro pachistano Yousuf Raza Gilani, ha auspicato una sempre maggiore collaborazione del Pakistan riconoscendo al paese un ruolo determinante: "Senza l’aiuto del Pakistan, l’Afghanistan non può essere stabile o pacifico". Un richiamo alla riconciliazione ufficializzato subito dopo la dichiarazione di amicizia con l’Iran, accompagnato dalla precisazione che l’Afghanistan non vuole essere teatro di “guerre per procura” come quella fra Pakistan ed India e l’altra fra Iran e Stati Uniti. Iniziative politiche che confermano il consolidamento del “polo islamico” voluto dall’Iran e che sta nascendo nel Centro Asia. Progetto politico che, però, per decollare deve poter fare riferimento ad una pace duratura in Afghanistan seguita dall’immediata uscita delle truppe della NATO dal paese che insieme al ripiegamento USA dall’Iraq, segnerà il primo obiettivo della politica del presidente iraniano. In questo contesto gli insorti Talebani ed i terroristi di Al Qaeda per non dover subire la pace cercano di consolidare le proprie posizioni. Lo fanno attraverso una recrudescenza di atti terroristici che, almeno per il momento, stanno coinvolgendo maggiormente la popolazione civile e le istituzioni nazionali piuttosto che i contingenti militari occidentali. Un attacco in Pakistan venerdì 12 marzo. Nella giornata di preghiera due kamikaze si sono fatti esplodere a 15 secondi l'uno dall'altro in due punti vicini dell'affollato Bazar di Lahore (Pakistan orientale), causando la morte di 48 persone ed il ferimento di altre 134. La seconda volta in pochi giorni il terrorismo colpisce Lahore, seconda città più grande dopo Karachi e capitale culturale del Pakistan. L'8 marzo, infatti, in un attentato contro una sezione speciale per interrogatori della polizia, erano rimaste uccise 18 persone. Un segnale che forse i talebani che da Helmand sono fuggiti in India si siano già organizzati ed hanno iniziato ad operare immediatamente a ridosso del confine indiano. Sabato 13 marzo a Kandahar una serie di attacchi terroristici con la morte di ventisette persone ed il ferimento di altre 50 di cui 40 civili - tra cui sei donne e tre bambini - e 17 agenti di polizia. Quarantadue case ubicate vicino al carcere della città danneggiate dall’attacco, distrutto anche il quartiere generale della polizia. Un’azione terroristica nel cuore della patria del mullah Omar avvenuta mentre decine di migliaia di militari sono in arrivo in Afghanistan per dare il colpo di grazia ai Talebani. Yousuf Ahmadi, portavoce dei talebani, ha giustificato l’attacco come una risposta al generale McChrystal che avrebbe annunciato l’inizio a breve dell’”Operazione Omar” concentrata su Kandahar per sconfiggere definitivamente i Talebani. Gli insorti che Karzai sta chiamando al tavolo della pace sono, quindi, sotto pressione per gli attacchi del Contingente internazionale della NATO e non intendono arrivare alla “loya jirga” del 29 aprile privi di qualsiasi forza contrattuale. Vogliono invece dimostrare che sono ancora in grado di gestire insieme e per conto di Al Qaeda azioni terroristiche allargate e coordinate nell’intera area geografica. In Afghanistan, contro le istituzioni locali e contro i Signori della guerra già loro alleati ed amici dell’Iran, in Pakistan coinvolgendo anche gruppi estremisti dislocati in India. Azioni terroristiche non fini a sé stesse ma un messaggio diretto all’Iran da cui i Talebani si sono visti abbandonare dopo le dichiarazioni rese da Mahmud Ahmadinejad in visita a Kabul, un monito militare alle Truppe della NATO ed un comunicazione politica a Karzai perchè non dimentichi che Al Qaeda è ancora in grado di colpire. Segnali non rassicuranti per l’Afghanistan ed altrettanto pericolosi per la sicurezza internazionale, come lo stesso premier russo Vladimir Putin in visita in India ha oggi dichiarato a New Delhi esprimendo la propria inquietudine per "I gruppi terroristici attivi in Afghanistan e Pakistan che rappresentano una fonte di seria preoccupazione per la regione e per il mondo intero".

14 marzo 2010

giovedì 11 marzo 2010

Afghanistan ed Iran

In Afghanistan è confermata la volontà del presidente Hamid Karzai di avviare un piano di azione per il reinserimento dei combattenti ribelli nella società e di voler proseguire nel negoziare accordi con i talebani, preannunciando una conferenza di pace che sarà svolta il prossimo mese di aprile (Associated Press). Intendimenti politici espressi con precedenti dichiarazioni ripetute più volte dall’inizio dell’anno e confermate dal noto meeting alle Maldive svolto fra rappresentanti del governo di Karzai ed esponenti talebani. Con questi presupposti è stata convocata per il 29 aprile la Loya Jirga afgana (il Grande Consiglio) che affronterà il tema della pace coinvolgendo 1400 anziani in rappresentanza del popolo, data ufficializzata dallo stesso Presidente Karzai in occasione di un incontro ufficiale con il segretario alla Difesa Usa Robert Gates. I Talebani, però, non sembrano voler contribuire ad accelerare il processo di pace e continuano a combattere pur con diverse strategie rispetto al recente passato. Quasi contemporaneamente all’annuncio di Karzai della conferenza di pace, gli insorti nella Provincia di Baghlan a nord est del Paese hanno cercato di conquistare potere espugnando diversi villaggi e catturando circa 70 membri dell’Hezb-e-Islami, combattenti del signore della guerra Gulbuddin Hekmatyar, già alleato di Al Qaeda ed attualmente sulla lista nera del terrorismo delle Nazioni Unite. Gulbuddin Hekmatyar, uno spietato comandante mujaheddin che ha combattuto i sovietici e che nei primi anni ’90 ha partecipato alla guerra civile afgana. Personaggio da sempre vicino all’Intelligence del Pakistan e quasi sicuramente non inviso all’Iran al punto che quando i combattenti talebani del Mullah Omar nel novembre 1994 gli ordinarono di sciogliere le proprie milizie dopo che aveva bombardato Kabul, fuggì in Iran per rientrare in Afghanistan dopo l’11 settembre ed allearsi con i talebani contro le truppe straniere. Sicuramente i Talebani sono preoccupati dalle operazioni in corso ad Helmand che potrebbero rappresentare una prova generale per un definitivo assalto in grande stile di Kandahar, l’antica roccaforte dei ribelli. Cercano, quindi, di conquistare altre posizioni che conferiscono loro una certa competitività quando e se chiamati a trattare la pace. A Marjah l’attacco dell’esercito afgano affiancato dagli americani sta avendo successo e come riferito da fonti ufficiali della NATO piccoli gruppi di combattenti si arrendono ed appartenenti ad Al Qaeda fuggono verso il Kashmir indiano. Le azioni terroristiche in ogni caso non diminuiscono. Nell’arco dell’ultima settimana numerosissimi gli attentati effettuati a macchia di leopardo. Un soldato della Gran Bretagna è stato ucciso da un'esplosione, mentre era di pattuglia a piedi, episodio che conferma ancora disponibilità di mine e di IED efficienti. Nella città orientale di Khost, la polizia afgana sostenuta dalle truppe americane ha ucciso due uomini armati che hanno fatto esplodere una bomba ferendo un funzionario di polizia e un soldato dell'esercito afgano. Sempre a Kost, forze internazionali hanno avuto scontri con gruppi di insorti proprio davanti al palazzo del governatore e due attentatori suicidi si sono fatti esplodere nella città. Nella provincia nord occidentale di Badghis 13 afgani sono stati uccisi dall’esplosione di tre IED posti su una strada. Altre cinque persone dell’organizzazione umanitaria cristiana “World Vision” sono state uccise per un attacco suicida nella provincia orientale afgana di Patika. Il 9 marzo le forze di sicurezza afgane hanno scoperto un grosso deposito di armi a Faizabad, capitale della provincia di Badakhshan, area del nord-est dell'Afghanistan fino ad ora pacifica. Viene riportato che vi fossero immagazzinati 296 colpi di mortaio, 108 spolette di mortaio, 23 proiettili di artiglieria, nove scatole di munizionamento per mitragliatrice pesante e spolette per munizionamento di medio calibro. Altro segnale che insieme all’azione svolta nella Provincia di Baghlan, dimostra come i militanti talebani minacciati da una sconfitta a sud, cercano di posizionarsi nelle province settentrionali dell'Afghanistan finora assolutamente pacifiche. Avvenimenti che allontanano i presupposti per trattative di pace affidabili e indicano come i Talebani il 29 aprile prossimo vogliano presentarsi come una struttura che ancora può chiedere prima di rendersi disponibile a trattare la pace, auspicando anche in una “benedizione” iraniana. Non casualmente, è arrivato a Kabul il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad subito dopo il Segretario alla Difesa USA Robert Gates. Segue la prima visita avvenuta nell’agosto nel 2007 e restituisce quella di Karzai a Teheran nel maggio del 2009, confermando i crescenti interessi iraniani in Afghanistan. Le Agenzie di stampa informano che durante gli incontri ufficiali, il Presidente iraniano ha dichiarato che “gli Stati Uniti sono i veri responsabili della creazione dei terroristi che loro stessi ora combattono in Afghanistan e la NATO non può portare la pace”. Karzai non ha né commentato né sconfessato le affermazioni di Ahmadinejad, piuttosto durante una conferenza stampa ha espresso parole di plauso, come “Speriamo che la nostra nazione sorella, l’Iran, lavori con noi per portare la pace e la sicurezza in Afghanistan, così che entrambi i Paesi saranno al sicuro”. Immediatamente dopo il presidente afgano Hamid Karzai si è recato in visita in Pakistan per chiedere, con ogni probabilità, un appoggio politico nei colloqui con i talebani ed anche forse per ottenere l’estradizione del comandante talebano Mullah Abdul Ghani Baradar, recentemente catturato dalla sicurezza pakistana e possibile oggetto di future trattative con i Talebani. In conclusione, nella regione iniziano a configurarsi nuovi scenari in cui sono emergenti il ruolo che l’Iran si è costruito negli anni anche appoggiando dall’esterno una parte di Al Qaeda e quello del Pakistan, Nazioni pronte a sostituirsi alla presenza occidentale. Un’altra tessera che si va ad aggiungere al mosaico appena abbozzato dopo gli accordi di qualche settimana fa fra Siria ed Iran, in particolare per quanto attiene al libero transito delle persone e delle merci. Accreditati analisti fra cui Theodore Karasik, direttore della divisione di analisi militare presso il Dubai-based Institute considerano, infatti, la visita di Mahmoud Ahmadinejad come un primo passo dell’Iran per cercare di assurgere a “potenza regionale ", utilizzando l’Afghanistan come uno dei possibili “hot spot”.
11 marzo 2010

lunedì 8 marzo 2010

Una riflessione sulla giornata elettorale in Iraq

In Iraq sono terminate le elezioni dopo una giornata di sangue che ha lasciato sul terreno non meno di 38 morti e 110 feriti. Un tributo alla democrazia dato dai milioni di iracheni che hanno sfidato le minacce ed i proclami di Al Qaeda pur di poter esprimere il loro diritto al voto. Una grande presenza anche nelle regioni sunnite, dove invece nel 2005 le elezioni erano state in gran parte boicottate. Il presidente Jalal Talabani ha parlato di "giorno storico, in cui il vincitore assoluto è il popolo iracheno” ed unanimi gli apprezzamenti di tutto il mondo occidentale. Al Qaeda, quindi, sembra aver fallito questa volta il proprio obiettivo, ma non possono essere ignorati i lanci di razzi ed i colpi di mortaio, di cui quattro anche sulla Zona Verde dove hanno sede le istituzioni irachene e molte ambasciate straniere. Attacchi per la prima volta non realizzati con l’utilizzo di autobomba o di attentatori suicidi ma ricorrendo a veri e propri sistemi d’arma. Al Qaeda, immediatamente prima delle elezioni aveva minacciato che avrebbe usato "mezzi militari" contro chi si fosse recato alle urne ed in parte ha mantenuto la promessa, impiegando appunto lanciatori Katiuscia e mortai. I terroristi hanno gestito un fuoco mirato erogato a macchia di leopardo, dimostrando di essere ancora in grado di intervenire in modo coordinato, con azioni programmate e quasi contemporaneamente in diverse zone del Paese e nella stessa Bagdad. Difficilmente, infatti, i gruppi di fuoco si sarebbero potuti spostare nella stessa giornata da una zona all’altra dell’Iraq trasportando mortai e lanciarazzi pesanti senza correre il rischio di incappare nei controlli delle forze irachene che peraltro hanno dimostrato di essere in grado di poter presidiare il territorio in maniera affidabile. I mortai ed i razzi sono stati utilizzati contro obiettivi ubicati in aree abitate, da siti “aderenti” ai target da colpire, sicuramente ricorrendo a professionisti preparati piuttosto che a fanatici addestrati solo ad azionare un telecomando di un IED o a farsi saltare indossando una cintura esplosiva. Un segnale che non può essere sottovalutato e che deve indurre a non abbassare la guardia per non vanificare la volontà espressa dagli iracheni a vantaggio della democrazia e destinata ad avere ricadute positive in quella particolare e tormentata area geografica. Quanto accaduto, infatti, dimostra che i gruppi terroristici dispongono ancora di risorse militari di una certa valenza anche se forse numericamente limitate e che, in ogni caso, possono ancora fare affidamento a strutture di sostegno sul territorio e ad appoggi esterni in grado di garantire loro un supporto logistico, armi e materiali peculiari.

8 marzo 2010

sabato 6 marzo 2010

AL Qaeda e le elezioni in Iraq

In Iraq è iniziata la seconda tornata elettorale del post Saddam. Ieri hanno votato le forze di Polizia e le Forze Armate, domani saranno aperte le urne ai cittadini. L’Iraq sta vivendo un momento cruciale della sua storia politica del post Saddam che potrebbe incidere anche sulle sorti dell’intera area dell’Asia centrale e sullo stesso futuro della rete globale di Al Qaeda. Il Paese, infatti, si sta avvicinando alle elezioni attraverso un sistema di “open list”, una novità assoluta in tutta l’area e che potrebbe rappresentare un vero e proprio modello in Afghanistan, in Iran e nello stesso Pakistan. La popolazione irachena ha già dimostrato la volontà di percorrere questa strada, quando a gennaio del 2009 ha partecipato alle elezioni provinciali dalle quali è emersa la volontà popolare di voler eliminare “politici ed amministratori impopolari” e di voler avviare a definitiva conclusione l’eterno scisma fra Erbil e Bagdad. Gli esiti dell’elezioni politiche di domani 7 marzo potrebbero, quindi, mettere in discussione le motivazioni politiche finora portate avanti dalla componente irachena di Al Qaeda, con una ricaduta negativa su tutta la struttura terroristica. Al Qaeda teme che ciò avvenga ed ha risposto immediatamente prima con attacchi terroristici poi con minacce palesi. Il recente triplice attacco kamikaze a Baluba, quello di oggi nella città santa di Najaf, avvenuti dopo la serie di atti terroristici del mese dello scorso gennaio. Fonti attendibili ipotizzano anche la minaccia di attentati terroristici realizzati da kamikaze di sesso femminile, un’eventualità seriamente considerata che ha spinto la polizia irachena ad arruolare ed addestrare 600 donne con il compito di perquisire tutte le elettrici che si recheranno alle urne nella provincia sunnita di al-Anbar (Adnkronos/Aki). Oggi anche una minaccia verbale rivolta alla popolazione che si accinge a votare. La Site, organizzazione indipendente USA che monitora i siti web degli integralisti islamici, riferisce, infatti, che la rete terroristica ha diffuso su Internet un messaggio con cui avverte che "lo Stato islamico iracheno dichiara il coprifuoco, per il giorno delle elezioni, di sei ore al mattino e di sei ore alla sera, in tutto l'Iraq e in particolare nelle zone sunnite". Il popolo è sollecitato a rispettare il 7 marzo questa disposizione, per non rischiare di “suscitare la rabbia di Allah e di esporsi alle armi dei mujaheddin”. Una minaccia che raramente è stata così puntuale fin dal 2004 quando è nata la cellula irachena di Al Qaeda caratterizzata da una struttura “multirazziale” più emancipata rispetto a quella afgana. Fondata dal giordano Abu Musab al-Zarqawi e da lui guidata fino alla morte avvenuta nel 2006, si è sempre manifestata con azioni spietate e non ha mai disatteso i suoi proclami. Attualmente, il gruppo jihadista, che fonti accreditate ci dicono guidato da Abu Hamza al-Muhajir, mantiene le sue caratteristiche fondanti ed ospita una consistente componente di militanti non iracheni, in particolare curdi islamici dell’organizzazione “Ansar al-Islam (Partigiani dell’Islam), mujaheddin afgani già professionisti del terrorismo con expertise maturata durante la resistenza all’invasione sovietica e stranieri di varia nazionalità fra cui appartenenti ad una piccola ma attivissima organizzazione islamista (al Salafiah Mujahidiah). La cellula irachena ha sempre dichiarato come obiettivo preminente la costituzione di un “puro Stato islamico”, l’espulsione degli USA dall’Iraq e la cancellazione dell’attuale governo iracheno in quanto ritenuto asservito agli americani. Al Qaeda, forse per la prima volta, sta evidenziando con i suoi avvertimenti mediatici una qualche preoccupazione per quelli che potrebbero essere i risultati elettorali se configurassero un nuovo modello di democrazia islamica. Una risposta che conferirebbe all’Iraq un ruolo essenziale in tutta l’area e che avrebbe un effetto trainante su tutte le forze che in Afghanistan e nello stesso Iran auspicano forme di governo laiche e democratiche. Una possibile prospettiva impone, però, che le elezioni si svolgano sotto un attento monitoraggio della comunità internazionale perché siano garantiti i risultati in modo inequivocabile e sia assicurato al prossimo governo iracheno di poter affrontare il futuro con un approccio trasparente, a differenza di quanto si è verificato in Afghanistan dopo i recenti controversi risultati elettorali. Un impegno che dovrebbe vedere come principali protagonisti l’Unione Europea e gli Stati Uniti in quanto le elezioni in Iraq non rappresentano un fatto locale ma potrebbero concorrere a destabilizzare una componente essenziale di AL Qaeda a totale vantaggio della sicurezza di questa importante e strategica area del Centro Asia e di tutto il mondo.
6 marzo 2010

mercoledì 3 marzo 2010

Le prossime elezioni in Iraq. Un fatto iracheno o destinato ad influire nell’area geografica?

Il prossimo 7 marzo in Iraq ci sarà la seconda tornata elettorale dopo la caduta di Saddam. Una data importante se affrontata con un approccio democratico e costruttivo e che dovrebbe rappresentare la ripresa economica e sociale del paese. I presupposti però non sembrano essere dei migliori. Oggi un triplice attentato suicida compiuto a Baluba. 30 i morti e 42 i feriti dopo un attacco che dimostra come sia ancora significativa la presenza di cellule terroristiche nell’area. Atto che segue quelli recenti del 16 gennaio con 37 morti e del 25 gennaio rivendicato da Al Qaeda. Il 7 marzo saranno chiamati alle urne diciannove milioni di iracheni che dovranno scegliere 325 deputati fra 6.100 candidati. I fatti stanno dimostrando che sono in corso, però, una serie di minacce interne ed esterne per condizionare la volontà degli elettori che si aggiungono ai problemi ancora da risolvere. Primo fra tutti la sentenza della “Commissione Giustizia e Responsabilità” che ha escluso 511 candidati perchè ritenuti vicini al disciolto partito Baath, decisione apprezzata dai politici sciiti ma non condivisa dai sunniti, convinti che quanto deliberato, anche se fosse modificato, ha ormai allontanato gli Arabi sunniti dalla politica irachena. Un’esclusione nemmeno condivisa da Washington che nella persona di Joe Biden, il vice di Obama, pur dichiarando di non volere interferire nel processo elettorale iracheno ha espresso il dubbio che la comunità internazionale possa riconoscere la validità dell’esito delle elezioni se fosse confermata l’esclusione di questi candidati. Il momento è reso ancora più complesso dai curdi che nel nord del paese cercano sostegni all’estero perché una volta per tutte si raggiunga la condizione di “un Iraq unito”, auspicio condiviso dagli USA come recentemente affermato dalla Clinton. Anche Al Qaeda minaccia una nuova ondata di violenze per ostacolare la consultazione elettorale, probabilmente già iniziate con i recenti attentati e l’attacco terroristico di oggi. Una serie di episodi accompagnati anche dall’ombra di Teheran interessata alle vicende interne del vecchio nemico, se è vero come sembrerebbe, che dietro al verdetto della Commissione di giustizia ci sia la regia di Ahmed Chalabi ex alleato del Pentagono che ha avuto un ruolo chiave in occasione dell’attacco americano all’Iraq ed oggi ritenuto da più fonti agente dell’Iran. Costui, insieme ad Ali Faisal al-Lami già indagato dagli USA in quanto implicato in un attacco a edifici governativi a Sadr City, si presenterà alle elezioni del 7 marzo come esponente della “Iraqi National Alliance” di cui fa parte la maggioranza sciita. Altri segnali esterni all’Iraq potrebbero inoltre influire negativamente sulla già precaria situazione preelettorale. La non chiara situazione in Turchia dopo le notizie di uno sventato colpo di stato da parte di militari propugnatori di un regime tradizionalista e laico, il ruolo di Israele ed i recenti accordi Siria - Iran. In una recente visita in Siria di Mahmoud Ahmadinejad, il presidente siriano Bashar al Assad ha espresso formale assenso sulle iniziative nucleari iraniane, affermando che "L’Iran ha il diritto di proseguire il suo programma di arricchimento dell’uranio per scopi pacifici" ed ha annunciato di aver stretto un accordo per il libero transito dei cittadini dei due paesi senza più bisogno di visti d’ingresso. Un “modello Schengel”, che potrebbe rappresentare l’inizio della nascita di una “Unione di Repubbliche Islamiche” a cui nel tempo non potranno sottrarsi l’Iraq, l’Afghanistan e quasi sicuramente lo stesso Pakistan. Un’aggregazione in grado di rappresentare un’alternativa economica e politica all’Arabia Saudita ed agli Emirati, tale da rappresentare un serio pericolo per la sicurezza di Israele. Mahmoud Ahmadinejad nella stessa occasione non a caso è tornato ad affermare "Se l’entità sionista ripeterà gli errori commessi in passato, la Siria e l’Iran saranno pronti ad affrontare lo Stato ebraico", accusando gli Stati Uniti di "voler creare un grande Medio Oriente con un grande stato sionista" e concludendo con un preciso riferimento alla situazione irachena: "i nostri popoli odiano la presenza di stranieri e questi devono subito lasciare la regione". Parole che lasciano capire quali possano essere i futuri intendimenti iraniani e siriani, annunciati, peraltro, in coincidenza delle celebrazioni per la ricorrenza della nascita di Maometto e che ribadiscono l’unità dei popoli musulmani a cui l’Iraq non potrà sottrarsi. Un richiamo indiretto a tutti coloro che considerano legittimati a governare solo i discendenti del Profeta Maometto ed esteso alle possibili cellule terroristiche dormienti dislocate in Iraq e nel mondo, per coinvolgere tutti in una Jihad finalizzata ad annullare qualsiasi sforzo che porti ad un’interpretazione laica della politica, unica garanzia per un rapido sviluppo democratico e per la stabilità nella regione e nel mondo.

3 marzo 2010