lunedì 21 giugno 2010

Somalia, obbligo di barba a Mogadiscio

Hezb al-Islam, gruppo di insorti islamici somali ha disposto che in Somalia la popolazione maschile deve farsi crescere la barba in quanto “dovere morale imposto da Maometto” (ANSA). Un’invenzione che potrebbe rappresentare un semplice aneddoto multiculturale ma che, invece, nel momento storico particolare andrebbe osservata con attenzione considerando i trascorsi storici che nel tempo e nel mondo mussulmano hanno visto protagonista “la barba”, segno distintivo di precise prese di posizione politiche e religiose. L'ultima importante legge dei talebani emanata nel 1998 riguardava proprio la "Barba lunga almeno un palmo" che seguiva altre esasperate norme come il divieto dell’uso dei televisori e la soppressione del codice civile afgano. Leggi dettate da interpretazioni non moderate delle regole islamiche e che insieme ai limiti imposti alla popolazione concludevano la preparazione di quanto sarebbe avvenuto l’11 settembre. Una lunghezza "coranica" della barba, che non doveva essere più corta della larghezza di una mano e seppure non paragonabile ai limiti imposti alle donne di coprirsi il volto, sembrava voler imporre anche agli uomini una specie di velo "peloso". La foggia della barba nei paesi islamici ha rappresentato sempre un modo per rappresentare il dissenso per ogni forma di laicismo politico e culturale che abbattesse le regole religiose a favore di una interpretazione laica dello Stato. Un’espressione di costume che insieme alla veste bianca caratterizza le popolazioni di molti paesi, in particolare i più giovani della società che in questo modo dimostrano di essere pronti ad impegnarsi per l’Islam. La norma somala è stata annunciata da Moalim Hashi Mohamed Farah, uno dei capi del movimento, che in una conferenza stampa ha sottolineato che “farsi crescere la barba è un dovere morale, ordinato dal nostro profeta Maometto e noi dobbiamo difendere questa pratica religiosa”. Un analogo ordine era stato imposto mesi fa da un altro gruppo rivale di ribelli musulmani somali, gli Shebab, che si richiamano ad Al Qaeda e che insieme agli Hezb al-Islam controllano il centro sud della Somalia e la maggior parte dei quartieri di Mogadiscio dove hanno imposto regole molto severe in nome di un'interpretazione integralista dell'Islam. Gli Shebab, peraltro, dispongono anche di una polizia religiosa e sono attivissimi nell'imporre regole e restrizioni di antica tradizione tribale come amputazioni, lapidazioni, esecuzioni in piazza e distruzione delle tombe dei non musulmani con il pretesto di lottare contro l’idolatria. In Somalia è in atto, quindi, un approccio religioso estremo che tenta di sostituirsi all’interpretazione laica dello Stato dove l'Islam praticato è moderato ed influenzato dall’antica tradizione del “sufismo”, come scienza della conoscenza diretta di Dio attraverso dottrine e metodi derivati dal Corano. Il “wahhabismo” che ora è invece rivendicato dagli Shebab, mutuato dalla vicina penisola arabica e fino ad ora considerato estraneo dalla cultura locale somala, è, notoriamente arroccato su posizioni religiose estreme, sull'osservanza rigorosa del Corano e sulla severa condanna delle consuetudini religiose che nel tempo possano offuscare le pratiche devozionali dei musulmani. Un improvviso “risveglio religioso” in un paese che ha un ruolo fondamentale del Corno d’Africa, che si affaccia sul Golfo di Aden e che ospita fazioni molto prossime alle principali organizzazioni terroristiche internazionali alcune delle quali molto vicino agli estremismi islamici del Centro Asia. Un’improvvisa inversione di tendenza per ora limitata “alla lunghezza della barba” ma che viene ufficializzata contemporaneamente alla notizia di undici navi da guerra americane fra cui una portaerei ed una nave da battaglia israeliana che “sembra” abbiano attraversato il canale di Suez dirette verso l’Oceano Indiano. La coincidenza di un futile fatto di costume a se stante o una “chiamata” per i fratelli dormienti ?
21 giugno 2010

domenica 6 giugno 2010

La Loya Jirga afgana esorta alla pace

I notabili afgani e gli anziani, circa 1600 membri, hanno partecipato la scorsa settimana alla “Loya Jirga”, grande assemblea del popolo afgano, originariamente aperta solo ai gruppi Pashtun ed ora anche alle altre etnie. I lavori sono durati tre giorni e tutti i partecipanti hanno concordato sulla necessità di fermare i combattimenti per raggiungere una pace duratura in una nazione ormai martoriata. La jirga è stata presieduta da Ustad Burhanuddin Rabbani presidente dell'Afghanistan nel 1990, quando i signori della guerra talebani stavano lottando per il controllo del paese, sicuramente non considerato nel paese come l’ideale figura di collegamento per arrivare a porre fine alla guerra. Gli osservatori internazionali non credono, comunque, che questa assemblea abbia avvicinato l'Afghanistan alla pace in quanto ai lavori non hanno partecipato tutti i gruppi rappresentativi del Paese ma per lo più esponenti di correnti vicine a Karzai ed ai suoi alleati, con una palese esclusione dei rivali politici e dei rappresentanti della società civile afgana. Sono stati esclusi anche le principali fazioni ribelli come i talebani afgani e la rete di Haqqani e Gulbuddin Hekmatyar Hezb-i-Islami ed invece è stata favorita una significativa presenza di ex signori della guerra veterani della jihad anti sovietica, molti dei quali, peraltro, inscritti nelle black list internazionali perché corrotti e coinvolti in soprusi e traffici illegali. I Talebani destinatari del piano di pace ma assenti ai lavori hanno espresso pesanti critiche attraverso i loro siti su Internet, definendo l’Assemblea una “bravata propagandistica" voluta per accontentare gli USA e nello stesso tempo non deludere gli alleati islamici. Gli analisti del “Afghanistan Network” riferiscono che i delegati, articolati in 28 commissioni, hanno prodotto un documento finale dai contenuti “sfumati” che cerca di mantenere attiva l’apertura verso l’occidente e nello stesso tempo non rinuncia ai punti fermi della tradizione islamica afgana. In sintesi per citare alcuni dei principali punti sottoscritti. I ribelli che deporranno le armi e parteciperanno alle trattative di pace dovranno essere cancellati dalla lista nera delle Nazioni Unite. I ribelli che intendono prendere parte alle trattative devono immediatamente interrompere i loro collegamenti con formazioni terroristiche straniere. Non dovranno essere cancellati i progressi compiuti a favore della democrazia e dei diritti delle donne. Le truppe della NATO devono continuare a sostenere l'esercito afgano ed a garantire che l'Afghanistan non diventi un campo di battaglia per i clan delle varie province afgane. Dovranno essere incrementati i programmi di educazione islamica per tutti i rappresentanti del Governo centrale che dovrà impegnarsi a combattere la corruzione ed attuare quanto necessario per riscuotere la fiducia degli afgani. Nella tradizione dell’Afghanistan la Jirga ha sempre rappresentato un punto fermo le cui decisioni prese all’unanimità diventano le linee guida per i responsabili politici del paese, ma l’ultima assemblea non sembra, invece, aver raggiunto questi scopi. Piuttosto ha riproposto un approccio pragmatico caratteristico della tradizione locale, proponendo più opzioni per taluni aspetti anche contrastanti fra di loro. Maggiore apertura agli USA ed alla comunità internazionale per garantirsi il necessario supporto economico ma, nello stesso tempo, incrementare il “senso islamico” di chi è destinato a governare, condizione essenziale per mantenere attiva la liason appena creata con l’Iran e la Siria. Lotta alla corruzione, ma apertura ai Signori della Guerra che hanno partecipato con una nutrita rappresentanza alla jirga e che proprio attraverso la corruzione garantiscono i loro traffici illeciti. Nessun accenno al problema della riconversione della coltivazione del papavero da oppio a favore della produzione agricole, ma richiesta di aiuti per abbattere il tasso di povertà che come noto nel paese coinvolge principalmente le realtà rurali. Posizioni contraddittorie che come avvenuto nel 1989 dopo l’uscita dei sovietici dall’Afghanistan seguiteranno a consigliare scelte ambigue destinate a non favorire la pace ma a lasciare aperte più soluzioni da applicare secondo le circostanze del momento. Anche la posizione di Karzai non si discosta, almeno in prima battuta, da questa realtà. Visita gli USA ai quali promette amicizia e chiede aiuto all’Occidente, Nello stesso momento strizza l’occhio all’Iran, alla Siria ed al confinate Pakistan, si fa ospitare dal governo islamico delle Maldive per portare avanti le trattative di pace e si prepara a fondare una Repubblica Islamica in cui forse difficilmente sarà assicurata la parità dei diritti fra uomini e donne.
6 giugno 2010

mercoledì 2 giugno 2010

Assalto di Israele in acque internazionali

Navi commerciali sono state “abbordate” in acque internazionali da un gruppo di assalto dell’esercito israeliano. Subito dopo l’accaduto è iniziato l’accavallarsi di notizie, spesso anche diverse fra loro, concentrate a raccontare come siano andati i fatti sull’onda di una spinta emotiva piuttosto che di un’esatta conoscenza della dinamica degli eventi. L’attacco di Israele è stato condannato dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, ma gli stessi contenuti del documento ONU spingono ad essere cauti nell’esprimere giudizi affrettati, anche se non si può che condividere l’unanime disappunto su un’azione militare avvenuta in acque internazionali contro navi battenti bandiera di Stati sovrani e quindi assimilabile a qualcosa di molto simile ad un’invasione. Pochissimi hanno invece cercato di leggere l’evento come possibile rischio per l’inizio di una nuova “intifada” su scala globale, che potrebbe coinvolgere tutto il Medio Oriente ed estendersi ai Paesi mussulmani del Centro Asia. L’azione israeliana è stata svolta contro una nave turca in un momento in cui la Turchia ammicca all’Unione europea e nello stesso tempo svolge un’azione di ricompattamento delle realtà islamiche che gravitano nel Mediterraneo e che hanno un ruolo fondamentale in Medio Oriente, come l’Iran e la stessa Siria a cui Ankara vuol dimostrare di dimenticare l’antica inimicizia aprendo varchi doganali sugli 800 km di confine fino ad oggi reso invalicabile perché minato. Molti dei commentatori dell’attacco israeliano hanno anche trascurato di informare che chi ha predisposto il convoglio navale diretto verso Gaza appartiene ad organizzazioni molto vicine agli jihadisti e ad Hamas, come l’organizzazione turca Ihh (Humanitarian Relief Foundation) promotrice dell’iniziativa ed i Fratelli Musulmani, strutture fino ad oggi considerate da Ankara ai limiti della legalità e che invece potrebbero uscire rivalutate dall’episodio. Sicuramente, quanto avvenuto ha compromesso l’alleanza di Israele con la Turchia paese della NATO che ha un ruolo importante perché a cavallo tra l'Europa e il Medio Oriente musulmano su cui esercita, peraltro, un’apprezzabile influenza diplomatica. Sicuramente quella israeliana è stata un’azione molto vicina ad una forma di guerra asimmetrica piuttosto che ad un’azione di autodifesa, destinata, con ogni probabilità, ad innescare reazioni difficilmente prevedibili, ma sicuramente cruente. Le avvisaglie già ci sono. Subito dopo l’attacco alle navi c’è stato un duro scontro nella striscia di Gaza e sembra che alcuni palestinesi si siano infiltrati in territorio Israeliano (fonte ANSA). Segnali che non possono essere sottovalutati e devono indurre ad affrontare con urgenza e con concrete ed incisive azioni politiche il problema della pace in Palestina, coinvolgendo collegialmente Stati Uniti, Unione Europea ed ONU, che dovranno attivare una volta per tutte un processo di pace credibile ed accettato da ambo le parti. Unico modo per evitare che ci sia una nuova ondata di kamikaze che si immolano nel nome della jiahd provocando vittime innocenti, traguardo raggiungibile solo se si abbandonano gli approcci timidi e poco incisivi verso atti ai limiti della legalità internazionale. Il Consiglio di Sicurezza si aspetta, infatti, una "un'indagine completa e credibile da parte di Israele” come dichiarato dal Segretario generale dell'ONU Ban Ki-moon e gli USA esprimono solo “profondo turbamento per i recenti episodi di violenza e rammarico per la tragica perdita di vite umane” come detto dal portavoce del Dipartimento di Stato Usa, Philip Crowley. In queste circostanze, a prescindere di chi possano essere le responsabilità oggettive, applicare le “regole della diplomazia” potrebbe indurre a cattive interpretazioni e scatenare attacchi terroristici non solo con l’uso di IED ma anche attraverso possibili manovre finanziare utilizzate per indebolire le economie occidentali magari utilizzando i “fondi sovrani” gestiti dai paesi simpatizzanti con Hamas. Una minaccia terroristica che potrebbe vedere coinvolte le strutture eversive operative in varie parti del mondo o, peggio, “schegge impazzite”, che esaltate dagli eventi come quello avvenuto nel mar Mediterraneo motivano ed attuano autonome azioni terroristiche.
2 giugno 2010