mercoledì 23 novembre 2011

L’Islam radicale in Bosnia Herzegovina

L’estremismo islamico si affaccia sull’Adriatico. Il 28 ottobre scorso Mevlid Jasarevic ha esploso più di 100 colpi d’arma da fuoco contro l’Ambasciata USA a Sarajevo. Ha ferito in modo grave due persone per poi essere fermato da un addetto alla sicurezza. Un episodio che segue quello di Mostar, quando nel luglio scorso un gruppo di islamici di ritorno dalla preghiera si sono ferocemente scontrati con cittadini di etnia croata. Agenzie di stampa locali hanno immediatamente informato che l’attentatore era un fanatico già noto alla polizia ed ha motivato il proprio gesto per “diventare un martire ed andare in paradiso”. Altre versioni, invece, sospettano che dietro Mevlid ci siano realtà bosniache eredi del passato e vicine all’estremismo islamico. Gruppi che negli anni ’90 contribuirono alla formazione dell’esercito bosniaco, sponsorizzati e finanziati da Bin Laden. Le indagini sono in atto, ma un certo nervosismo trapela nelle Autorità bosniache che temono una possibile minaccia conseguente al risveglio di simpatizzanti dell’organizzazione wahabita, presente in varie regioni dei Balcani, vicina all’estremismo islamico e propugnatrice di regole religiose radicali. I Wahabiti sono arrivati in Bosnia all’inizio delle ostilità degli anni ’90, inquadrati in un’unità militare mussulmana, la Brigata El Mudzahid che entrò a far parte del nascente esercito della Bosnia Herzegovina. Combattenti ben addestrati di origine araba ed afgana, ben equipaggiati e continuamente riforniti di armi e munizioni assicurate dai “fratelli” afgani, iraniani e sauditi. La Brigata islamica con i suoi 2000 uomini si attestò nell’area della città di Zenica, regione dove ancora oggi vive una consistente rappresentanza di militanti wahabiti. I combattenti mussulmani parteciparono attivamente a tutte le operazioni contro i serbi ed i croati affiancando i gruppi paramilitari bosniaci della “Legione Verde” e dei “Cervi Neri”. La loro azione militare fu spesso caratterizzata da episodi prossimi a crimini di guerra, tali da suscitare l’interesse della Corte del’AIA che dopo Dayton aprì una lunga serie di indagini anche nei confronti dell’ex Presidente bosniaco. Dopo Dayton una parte dei militari della Brigata islamica è rimasta in zona stabilendosi in molti villaggi della Bosnia centrale ed acquisendo la cittadinanza bosniaca dopo aver sposato donne locali. Costoro hanno sempre manifestato propensione per un approccio radicale all’Islam, promuovendo iniziative dettate dalla dottrina wahabita. Non si conosce esattamente il numero dei wahabiti naturalizzati bosniaci, ma sicuramente rappresentano una apprezzabile componente della popolazione della Bosnia. Un’Agenzia di stampa locale ha recentemente divulgato i risultati di un sondaggio che indicano come la componente mussulmana radicale rappresenti il 3% della popolazione, numero non rilevante ma significativo in una realtà socio culturale come quella bosniaca. L’azione dell’attentatore del 28 ottobre potrebbe, quindi, rappresentare il risveglio di forme di estremismo islamico in un’area di importanza strategica per l’Europa e l’intero Occidente. Un segnale, che segue altre indicazioni premonitrici iniziate a partire dal 2005, quando improvvisamente aumentò la pressione iraniana a Sarajevo ed in tutta la Bosnia Herzegovina mussulmana. In quel periodo iniziò una capillare gestione ed organizzazione delle madrasse che venivano mano a mano costruite ed accompagnate da una capillare collocazione sul territorio di centri culturali islamici e dalla concessione di un appannaggio economico mensile a tutti i giovani che manifestavano la volontà di riappropriarsi dell’identità islamica wahabita, anche solo curando aspetti esteriori come l’abbigliamento. Uomini con barbe lunghe e pantaloni corti sotto il ginocchio, donne che indossano una tunica nera che lascia scoperti solo gli occhi. Obbligo di rispettare il Ramadam, di pregare 5 volte al giorno e di frequentare le moschee nel venerdì di preghiera. L’attentatore che ha sparato contro l’Ambasciata americana ha 23 anni ed appartiene proprio alla generazione cresciuta sotto l’azione diretta o indiretta dei condizionamenti derivati dall’emergente estremismo religioso. Ventenni istruiti ed addestrati da ex mujaheddin, arrivati in Bosnia all’inizio degli anni ’90 per aiutare i fratelli mussulmani a combattere i serbi ed i croati. Giovani che in questi anni hanno avuto anche la possibilità di stringere rapporti di lavoro o anche di semplice amicizia con coetanei appartenenti ad Organizzazioni Non Governative saudite e kuwaitiane, presenti nel Paese per scopi umanitari e che, dopo l’11 settembre sono oggetto di stretto controllo delle Autorità e delle Forze di sicurezza nazionali. Jasarevic, il giovane che ha sparato è nato a Novi Pazar, città che nel 2007 è stata oggetto di un’importante azione di polizia per stanare militanti wahabiti che operavano in una campo di addestramento per la formazione di militanti islamici. E’ ancora presto per identificare con certezza il vero movente che ha spinto l’attentatore a compiere il gesto eversivo. Potrebbe trattarsi di un momento di esaltazione di un “lupo solitario” o rappresentare l’inizio di una nuova minaccia terroristica che si affaccia sulle rive orientali dell’Adriatico. Un segnale comunque da non sottovalutare, in quanto evidenzia un certo fermento che coinvolge le nuove generazioni bosniache, in un momento in cui la Bosnia è impegnata ad accelerare la sua ammissione in Europa e la popolazione è costretta ad accettare i vincoli connessi alla possibile transizione. Una inquietudine di cui potrebbero approfittare le realtà islamiche radicali come i wahabiti, presenti in molte aree dei Balcani oltre che in Bosnia e vicine all’Arabia Saudita ed all’Iran.

Roma 23 nov. 2011 – ore 10.00

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