venerdì 27 gennaio 2012

Gli italiani non hanno razza

Il settimanale tedesco Der Spiegel ha pubblicato un servizio circostanziato sul naufragio della Costa Concordia. La fotografia del relitto della nave in copertina con il titolo “Italia mordi e fuggi”, offendendo l’Italia e gli italiani. Nel corpo viene anche sottolineata la differenza fra italiani e tedeschi. Questi ultimi a differenza degli italiani sono una “razza” . Un quotidiano italiano riporta nei dettagli il commento sui contenuti e ci informa pure che il nostro Ambasciatore a Berlino – bontà sua – ha ufficializzato una nota di protesta. Il Comandante della nave subirà tutte le sanzioni che merita, ma per il suo tramite non può essere offesa un’intera Nazione. L’autore dell’articolo scrive una sola verità: gli italiani non sono una razza. E’ vero. Infatti, gli uomini appartengono più propriamente ad etnie, mentre cani, gatti o altri mammiferi sono comunemente ascrivibili ad una razza. Il popolo italiano è erede di tradizioni, di cultura e di scienza che non possono essere negati da nessuno, a meno che non sia un detrattore della storia. Quella cultura tramandata da generazione in generazione che solo Cicerone, Dante, Michelangelo, Leonardo, Giotto, Manzoni e più di 20 Premi Nobel italiani potevano lasciare ai loro concittadini. In qualsiasi circostanza la popolazione italiana ha dimostrato generosità ed altruismo. Centinaia di migliaia di italiani che durante l’ultima guerra mondiale hanno rischiato di subire la deportazione tedesca nel tentativo di proteggere loro concittadini ebrei,. L’Italia è la Nazione che ha dato i natali a Salvo d’Acquisto, immolatosi per tentare di salvare al massacro centinaia di cittadini italiani rastrellati dall’esercito tedesco per essere trucidati. I nostri antenati hanno anche difeso i tedeschi quando per sfuggire agli Unni, superarono il Danubio e si affidarono alla protezione dell’Impero Romano. Siamo eredi di elevati valori morali, come quelli che da giorni spingono i nostri giovani e meno giovani ad immergersi nelle gelide acque del Tirreno, in condizioni spesso di pericolo, per individuare – senza distinzione di nazionalità, di sesso e di religione, superstiti del naufragio o tentare di restituire i morti alle loro famiglie. Sicuramente costoro non appartengono alla “razza” di chi ha inventato Mauthausen o Auschwitz. Il Comandante Schettino è un italiano, nessuno lo nega e come tale è sicuramente pronto a pagare i suoi errori. Noi italiani siamo troppo colti ed educati per non accettare le critiche, ma siamo fieri del nostro Paese e vorremmo non essere derisi.
27 gennaio 2012 – ore 19.00

mercoledì 25 gennaio 2012

La globalizzazione del fondamentalismo islamico dopo la primavera araba

Il rischio di una globalizzazione dell'estremismo islamico, come era prevedibile, segue a distanza di un anno la primavera araba. Attraverso queste pagine esprimemmo subito il dubbio che quanto stava accadendo poteva avere ricadute negative sulla minaccia terroristica qualora non attentamente monitorato. Le manifestazioni, infatti, fin dall’inizio si proponevano spesso con approcci estremistici che nulla avevano a che fare con la cultura pastorale e contadina di quella gente, ma che erano permeate da una specie di magnificazione collettiva. Piazze che non si limitavano a rivendicare i loro diritti, ma si auto esaltavano gridando “Allah Akbar” (Dio è il più grande), con atteggiamenti molto simili a quelli ricorrenti a Gaza, a Teheran, Bagadad o Kabul. L’inizio di uno tsunami che avrebbe coinvolto di lì a poco i Paesi africani limitrofi e scavalcato il Mediterraneo per inondare tutto il Medio Oriente. Vicende totalmente ignorate dall'Europa, solo un gemito timido della Asthon che condannava i massacri di Mubarak e di Bel Alì, senza andare oltre con concrete iniziative politiche. Un'Europa che fin dall'inizio ha dimostrato la più completa inadeguatezza a gestire eventi che di lì a poco avrebbero rappresentato una trasformazione storica e culturale epocale. Ben presto, l'onda anomala ha superato il Mediterraneo raggiungendo il Barein, il Qatar, l'Oman e lo Yemen dove da tempo erano operative cellule di Al Qaeda. Un effetto domino che ha raggiunto anche la Siria suscitando l’immediata e feroce repressione del Presidente Assad. I veri obiettivi dei protagonisti della primavera araba sono stati improvvisamente cancellati dai risultati elettorali tunisini ed egiziani e da ciò che sta accadendo in tutta l’Africa islamica. Non democrazie laiche, ma grande prevalenza di realtà islamiche radicali. In Tunisia si è affermato il partito islamico degli Ennahda molto più vicino a Teheran piuttosto che alle democrazie occidentali. In Egitto la prima parte della lunga e complessa tornata elettorale ha dato la vittoria ai Fratelli Mussulmani che insieme ad altri partiti islamici radicali hanno conquistato il 70% dei seggi. In Libia, il Presidente ad interim del CNT, Mustafa Abdelhakiche Jalilha ha formalizzato al mondo che la nuova Costituzione libica sarà improntata alla stretta osservanza della Sharia. Contestualmente, ha nominato Abdel Hakim Bellhady Comandante militare della piazza di Tripoli e gli ha dato la delega di riorganizzare il nuovo Esercito libico. Hakim, uno storico capo di Al Qaeda in Libia, combattente in Afghanistan e già ospite di Guantalamo, incaricato da Bin Laden di organizzare gruppi armati libici destinati ad uccidere Gheddafi e rovesciate la Jamahirys Popolare Socialista libica. Attentati in Somalia dove i pirati dimostrano un rinnovato vigore e dove gli Shabab, gruppo militante islamico legato ad Al Qaeda, si propongono sempre di più come una realtà politica radicale, con un ruolo destabilizzante in tutta l’area del Corno d’Africa. Nel Maghreb subsahariano le cellule di Al Qaeda si sono appropriate di consistenti armamenti ed equipaggiamenti militari abbandonati durante la guerra in Libia. Un approvvigionamento clandestino che potrebbe aver acquisito anche materiale militare non convenzionale, chimico e nucleare, accantonato nei depositi segreti di Gheddafi e che potrebbe essere utilizzato in IED (Improvised Explosive Device) destinati ad attacchi terroristici sporchi. In Algeria quotidiani locali riportano che sono stati sventati attacchi terroristici contro navi in navigazione nel Mediterraneo, pianificati dalle cellule di Al Qaeda nel Magreb. In Sudan gli arabi islamisti continuano a minacciare e colpire le minoranze. In Nigeria, improvvisamente, è esploso il radicalismo islamico che negli ultimi mesi ha compiuto stragi fra le comunità cattoliche. Veri e propri atti di genocidio sistematico camuffato da attacchi terroristici. Venerdì 20 gennaio un massacro a Kano, città di 3 milioni di abitanti a nord del Paese. Gli integralisti islamici del gruppo Boko Harm, hanno trucidato 160 nigeriani cattolici. Anche il gruppo Polisario comincia a farsi risentire. Attivo da decenni nel Sahara occidentale per rivendicare i diritti del popolo Sahraui, con un passato caratterizzato da feroci scontri contro il Marocco durati fino al 1975 , anno in cui l’organizzazione venne di fatto riconosciuta dall’ONU. Un improvviso risveglio che, come riferito da autorevoli testate giornalistiche internazionali, vede alcuni membri di Polisario in crescente contatto con cellule di Al Qaeda dell’AQMI (Al Qaeda del Maghreb islamico). Il ritorno sulla scena del gruppo Polisario pregiudica la stabilità già precaria di tutta la regione sahariana occidentale e dello Shael, zona costiera nel nord Africa, roccaforte di criminali, terroristi internazionali e trafficanti di droga. Nello Shael circolano ogni anno quasi 100 tonnellate di cocaina commercializzata con la partecipazione attiva di membri di Al Qaeda, alla stessa stregua di quanto accade in Afghanistan per la raffinazione ed il commercio dell’eroina. Sostanze stupefacenti destinate ad inondare i mercati occidentali con scopi anche destabilizzanti, attraverso quello che potremmo definire il “terrorismo bianco”. Ad un anno dalla primavera si constata un’emergente globalizzazione del radicalismo islamico, in aree fino ad ora caratterizzate da apprezzabile tolleranza fra le varie religioni e dove la laicità dello Stato ha sempre favorito un avvicinamento all’Occidente. Shebab somali, Boho Haram nigeriani, cellule di Al Qaeda nel Maghreb, in Mali, in Niger, in Ciad ed in Algeria. Entità che scalpitano dopo la scomparsa di Gheddafi che, invece, come Capo dell’Unione Africana, era riuscito a gestirne la convivenza, assicurando un certo equilibrio nella regione. La presenza di Al Qaeda non è più concentrata in Afghanistan, ma è ormai estesa nel mondo. In Waziristan, in Somalia, nelle province remote dello Yemen con lente ma incisive penetrazioni di jihadisti in Tunisia, in Egitto ed in Libia, dove, in Cirenaica, sono presenti da anni elementi quaedisti. Gli “arabi afgani”, mujahidin che nel 1989 hanno combattuto in Afghanistan contro i sovietici e successivamente si sono organizzati in Libia in una vera e propria struttura armata destinata a suo tempo ad opporsi al regime di Gheddafi, il Lybian Islamic Fighting Grop (LIFG). Aggregazioni diverse che cercano di imporre in Africa un’egemonia islamica radicale dallo Shael alle coste occidentali della Nigeria fino a quelle orientali della Somalia. L’estremismo islamico, quindi, approfittando dell'onda lunga provocata dallo tsunami della “rivolta del pane” sta dilagando in tutta l'Africa. Contemporaneamente l’Iran minaccia l’Occidente paventando la chiusura dello stretto di Hormuz, passaggio obbligato delle risorse energetiche dirette verso il mondo industrializzato ed in Siria l’alleato ed amico Assad continua a massacrare il suo popolo. L’Europa continua a limitarsi a guardare confermando i limiti della sua inconcludente politica internazionale che si aggiunge al fallimento dell’Unione anche come holding economica.
25 gennaio 2012 – ore 12,30

martedì 10 gennaio 2012

Iran ed USA mostrano i muscoli

Sembra essere ritornati alla guerra fredda degli anni ’80. Solo uno degli attori è cambiato, con l’Iran che ha preso il posto dell’ex Unione Sovietica. Una situazione che sta lievitando minacciosamente per Occidente con la corsa al nucleare di Teheran e le intenzioni palesate recentemente dall’Iran di bloccare i rifornimenti energetici che attraverso lo stretto di Hormuz raggiungono l’Europa e gli USA. Quello stesso Iran che accetta il massacro della popolazione islamica siriana voluto dal Presidente Assad, storico alleato dell’Iran, che peraltro nega pubblicamente di aver mai ordinato di sparare sulla gente. Una repressione ignorata dall'ONU che al contrario di quanto avvenuto in Libia ha lasciato il problema alla gestione della Lega Araba che alla prima iniziativa ha dimostrato tutti i propri limiti, forse, anche per il condizionamento dell’Iran che sicuramente anche in questo frangente non ha abbandonato il proprio alleato. Nel frattempo, in risposta al minacciato inasprimento delle sanzioni contro l’Iran che USA ed Europa stanno valutando, il Tribunale “rivoluzionario” iraniano ha condannato a morte un cittadino americano. Amir Mirza Hekmati, di origine iraniana, giudicato colpevole, dopo un processo sommario, per azioni di spionaggio per la CIA a favore di un “Paese ostile”. Amir è un ex marine che ha operato nella base di Bagram in Afghanistan ed è accusato di aver tentato di infiltrarsi nei servizi segreti di Teheran, dopo il congedo ed il suo trasferimento in Iran avvenuto nel 2005. Vari i segnali. Una condanna lampo che si sovrappone ad iniziative iraniane di valenza globale. L’ultimatum di Mahmoud Ahmadinejad agli USA, colpevoli di transitare con navi da guerra attraverso lo stretto di Hormuz, mentre l’Occidente e l’Egitto del dopo Mubarak hanno consentito al naviglio iraniano di raggiungere il Mediterraneo attraverso Suez ed a presidiare, seppure dalle acque internazionali, le coste di Israele. A seguire, la visita del Presidente iraniano in Venezuela, uno dei più importanti produttori di petrolio mondiali, per partecipare insieme a Chávez all'insediamento del nuovo Capo di Stato del Nicaragua, altro grande produttore petrolifero africano e dove è in corso una delle più feroci repressioni contro i cristiani. Un viaggio che finirà a Cuba e in Ecuador, Paesi sicuramente distanti dalle democrazie occidentali, in particolare da quella statunitense. La tensione sicuramente è destinata a salire con gli ayatollah che guardano attentamente a ciò che avviene in Siria ed ai risultati delle elezioni in Egitto, in Tunisia e fra poco in Libia, ad un anno dalla primavera araba. Un segnale quello iraniano che è diretto anche all’Arabia Saudita, eterno nemico dell’Iran e che si è proposto come fornitore dell’Occidente e dell’Estremo Oriente per la quota di risorse energetiche fino ad ora appannaggio di Teheran. Con la condanna a morte del cittadino americano le minacce iraniane iniziano ad essere oggettivate da fatti concreti mentre e sempre di più si accentua il contrasto fra la politica del presidente e quella della “suprema guida religiosa” Khamenei. Un’instabilità politica interna indotta da un’influenza sostanziale del potere religioso, che potrebbe determinare la rottura degli equilibri a favore di posizioni estremistiche ed oltranziste con una serie di rischi per l'Occidente. Primo fra tutti il pericolo di una sostanziale lievitazione di tutti i prodotti energetici che in brevissimo tempo potrebbero avere un aumento anche del 50%. Onere che sicuramente non potrebbe essere assorbito dalle attuali traballanti economie occidentali. Un obiettivo strategico che potrebbe far parte dei piani di Mahmoud Ahmadinejad, da cui la sua visita ai maggiori produttori mondiali di petrolio dell’America Latina e del Centro Africa, probabilmente voluta per stringere accordi e rappresentare una nuova realtà da portare avanti dopo una possibile uscita dall’OPEC di Venezuela, Ecuador ed Iran. Decisione che potrebbe essere imitata da altri Stati estremistici ed attuali membri dell’Organizzazione, provocando un nuovo ed inaspettato condizionamento dei mercati energetici che favorirebbe l’ostracismo contro Israele, gli Stati Uniti ed il resto dell'Occidente.
10 gennaio 2012 – ore 19.00

mercoledì 4 gennaio 2012

Un anno dalla primavera araba

E’ trascorso un anno dalle prime notizie sulle manifestazioni di piazza in Tunisia. Un vento di ribellione che avrebbe dato inizio alla “primavera araba” destinata a contagiare quasi tutte le piazze islamiche dell'Africa mediterranea. Dittature decennali vacillavano, scosse dalla spinta di quelle popolazioni che stavano lottando per affermare i propri diritti civili e per affermare condizioni di democrazia laica. In quei giorni gli avvenimenti venivano proposti con ottimismo esasperato dalla maggior parte dei media internazionali, che conoscendo le realtà e le culture coinvolte, non poteva essere totalmente condiviso. La situazione che si presenta dopo un anno dimostra, infatti, che forse una maggiore prudenza nelle valutazioni a caldo avrebbe permesso di immaginare un quadro di situazione generale più aderente a quella che sarebbe stata la situazione effettiva finale. All’inizio degli eventi, controcorrente con molti commentatori, scrissi che i venti primaverili potevano trasformarsi in uno tsunami che rischiava di coinvolgere non solo tutto il bacino del Mediterraneo, con conseguenze difficilmente prevedibili ed in ogni caso difficili da gestire. Espressi concrete perplessità sulla effettiva possibilità di una rapida affermazione della democrazia, condizione aspirata dalle popolazioni represse sotto la dittatura di Ben Alì, Mubarak e Gheddafi, manifestando un approccio pessimistico nella valutazione dei risultati che sarebbero stati raggiunti. Analisi al momento probabilmente poco condivise, ma che a distanza di un anno dimostrano una certa validità. La situazione globale delle aree islamiche africane interessate agli eventi e di quelle del Centro Asia ad esse vicine tradizionalmente, non è, infatti, migliorata in maniera significativa né ha guadagnato in termini di stabilità e di democrazia. I risultati elettorali in Tunisia ed in Egitto propongono nuovi scenari in cui probabilmente il radicalismo religioso condizionerà la laicità dello Stato vanificando almeno in parte quanto la gente aveva sperato. Una seconda primavera potrebbe riaprirsi con protagonisti i migliaia di illusi, giovani e meno giovani, che all’inizio del 2010 rischiando la propria vita manifestarono apertamente il dissenso contro chi li aveva costretti a subire l’oppressione della dittatura. I primi segnali già si addensano all’orizzonte. La gioventù egiziana torna a riunirsi in piazza Tahir per manifestare tutto il proprio malcontento e nel nome di una libertà ancora negata. In Tunisia la popolazione scalpita nel timore che il partito An-Nahda (la rinascita) di ispirazione islamica, vincitore delle elezioni, possa consolidarsi allontanando ancora una volta il traguardo di uno Stato laico e democratico. Nei Paesi islamici geograficamente vicini all’epicentro della primavera araba, la instabilità aumenta e fioriscono nuove realtà eversive ideologicamente più vicine al terrorismo internazionale piuttosto che al concetto di democrazia universalmente riconosciuto. In Siria Assad continua a massacrare il suo popolo che, incoraggiato dagli avvenimenti tunisini ed egiziani, da un anno cerca di conquistare qualche diritto civile. In Libia Gheddafi è stato ucciso con un atto di giustizia sommaria e Mustafa Abdel Jalil, attuale Presidente del Consiglio nazionale di transizione (Cnt), ha preannunciato che tutte le future leggi libiche saranno emanate nel più assoluto rispetto della sharia. Sempre in Libia, viene consideratocome eroe Abdelhakim Belhadj, personaggio inquietante, capo militare dell’insurrezione ed oggi massimo responsabile a Tripoli del Military Council libico. Un ex jihadista, veterano dell’Afganistan, fino a poco tempo considerato uno degli uomini più vicini ad Osama, già rappresentante di Al Qaeda in Libia ed in passato ospitato nelle carceri di Guantanamo, oggi grande amico degli americani. Nel frattempo, anche approfittando degli avvenimenti connessi alla primavera araba, gli eredi di Bin Laden, consolidano giorno dopo giorno le loro posizioni nel continente africano. Nel Maghreb la presenza di Al Qaeda è sempre più attiva e sfruttando la guerra in Libia, ha consolidato le proprie posizioni e rinnovato i propri arsenali appropriandosi delle armi abbandonate sul terreno dai lealisti di Gheddafi. Dopo un anno, quindi, sulle ceneri dei vecchi regimi dittatoriali di Ben Alì, Mubarak e dello stesso Gheddafi, come emerge anche da molte analisi pubblicate da siti Internet e vicine all’Intelligence occidentale, probabilmente si sta consolidando una nuova "piova del terrore" che ingloba militanti a livello transnazionale e che considera l'area africana a nord dell'Equatore come una nuova palestra del terrorismo internazionale. I primi segnali arrivano dal Niger, dal Ciad e dal Camerun, dove sono già operativi campi di addestramento che ospitano i nuovi emuli di Al Qaeda, propugnatori del fanatismo religioso. I primi segnali dall’attentato della notte di Natale in Nigeria dove è stata attaccata la chiesa cattolica di Santa Teresa a Madalla, nello stato confederato di Niger, a circa 45 chilometri dalla capitale Abuja. Un'auto bomba è esplosa al termine della messa uccidendo 35 persone e provocando oltre 50 feriti. Le forze salafite in Somalia incoraggiano i pirati a consolidare le loro alleanze con i rappresentanti di Al Qaeda nello Yemen che, sponsorizzati dall'Iran, minacciano i rifornimenti energetici diretti ad Occidente attraverso lo stretto di Hormuz ed il Golfo di Aden. In tutte le aree controllate dalle emergenti componenti eversive, dominano le regole della sharia. Ai ladri vengono tagliate le mani, le adultere sono lapidate ed è ripresa la poligamia. Poco più lontano, in un Iraq ancora non stabilizzato, dove è appena iniziato il ripiegamento delle forze statunitensi, le forze estremiste legate al radicalismo religioso islamico cercano di conquistare terreno e rendono sempre più remota la possibilità di una futura convivenza democratica fra sunniti e sciiti. L'Iran prova le sue armi strategiche lanciando segnali preoccupanti agli Stati del Golfo alleati degli USA, agli Stati Uniti stessi e ad Israele. Contemporaneamente Teheran aiuta il regime di Assad che continua nelle sue feroci repressioni nei confronti della popolazione. Eventi guardati con disinteresse dal mondo occidentale che, invece, è stato pronto a decidere di entrare in guerra per difendere la popolazione libica dai massacri di Gheddafi. I nuovi emuli di Bin Laden per autofinanziarsi ricorrono al commercio della droga, al mercato dei clandestini che tentano di fuggire dalla povertà del Centro Africa ed al rapimento degli occidentali impegnati ad aiutare le popolazioni locali minacciate dalla siccità e dalla carestia. Sicuramente i giovani che hanno immolato la loro vita per dare corso alla primavera araba sono disillusi e guardano spaventati ad un futuro in cui si sta radicando un nuovo emergente terrorismo, forse ben più minaccioso di quello di attuato da Bin Laden perché sponsorizzato anche da Stati sovrani. Situazioni che se non affrontate con immediatezza potrebbe nel breve termine diventare una minaccia ben più seria per le democrazie occidentali, già attaccate dalla crisi economica.
2 gennaio 2012 - ore 12,45