La minaccia del rapimento di personale
occidentale da parte di gruppi eversivi islamici ha sempre rappresentato un
elemento di forza per i gruppi terroristici internazionali per esercitare un’azione
ricattatoria sul piano politico nei confronti dei Paesi di origine del rapito e
soprattutto per garantirsi le risorse economiche per portare avanti la jihad.
La storia recente ci riporta che l’obiettivo
privilegiato del “rapimento per scopi eversivi” sono gli operatori volontari
delle ONG ed i giovani giornalisti freelance che percorrono i territori di
guerra. Giovani motivati da scopi umanitari i primi ed i secondi dall’aspirazione di poter fare lo scoop della
propria vita che rappresenti il trampolino di lancio per le future attività
professionali.
Peraltro, costoro, nella quasi totalità
dei casi, arrivano sul campo privi di
una preparazione specifica sul concetto di sicurezza e su come “leggere” gli
indicatori di situazione per ridurre al minimo il rischio di rapimento.
Ma non solo i giovani rappresentano
l’obiettivo, ma anche “firme del mondo dei media” che azzardano senza tener
conto degli avvertimenti che possono giungere dalle varie fonti locali come
avvenuto, anche recentemente, in Afghanistan,
in Iraq ed in Siria.
L’ISIS, nonostante possa fare riferimento
su enormi risorse economiche ricavate dalla vendita e raffinazione di
contrabbando del petrolio, sta dimostrando di prediligere il ricorso al
rapimento come termine di ricatto nei confronti dell’Occidente e di alcuni
Paesi anche islamici. Nell’ultima settimana vari episodi lo confermano.
Il 20 settembre ha rilasciato 49 diplomatici turchi che aveva rapito a Mosul
in Iraq in cambio di prigionieri appartenenti
alle forze dei militanti islamici.
Il 22 settembre Jund al-Khilifah, un
gruppo che si è distaccato da al Qaeda
nel Maghreb islamico per unirsi allo Stato islamico ha rapito nella regione
della Cabilia algerina il cittadino francese Herve Gourdel. Due giorni dopo il
24 settembre l’ostaggio è stato decapitato ed il video dell’esecuzione diffuso
su Internet .
Sempre il 22, l’ISIS ha costretto un
altro ostaggio, il britannico John Cantlie, a criticare in un video messaggio la politica USA nei
confronti dello Stato islamico.
L’uccisione degli ostaggi sta dilagando.
Non soltanto l’ISIS ma anche altri
gruppi estremisti stanno dimostrando di non voler scegliere la strada del
compromesso ed uccidono i loro ostaggi qualora non vengano pagati i riscatti. Il
23, il governo tedesco ha confermato la
morte di due operatori umanitari cristiani e del loro giovane figlio che erano
stati rapiti nel 2009 nel nord dello Yemen.
Nello stesso giorno è stato rilasciato
dopo il pagamento di un riscatto, il
giornalista tedesco-americano Michael Scott Moore che era stato rapito in Somalia mentre sviluppava un’indagine
giornalistica sul fenomeno della pirateria marittima.
Sempre il 23 settembre il gruppo jihadista filippino Abu Sayyaf ha comunicato
che due ostaggi tedeschi nelle loro mani saranno giustiziati entro 2 settimane
se la Germania non pagherà un riscatto di 5,6 milioni di dollari e non interromperà
l’appoggio agli USA nella lotta contro l’ISIS.
In soli tre giorni, quindi, si è avuta la
conferma che la tecnica del rapimento è”pagante” per i gruppi jihadisti e che
per questo non si fermeranno. Il sequestro, invece, sarà destinato a crescere con
una scelta di obiettivi sempre più remunerativi,
privilegiando, comunque, gli operatori
delle ONG, i giornalisti o i semplici turisti.
Un fenomeno che dura almeno da due
decenni, da quando nel 1991 furono rapiti due ingegneri da Jihadisti del
Kashmir, atto che segnò l’inizio di una lunga serie di rapimenti. In Algeria,
Niger, Libia, Mauritania, Mali, Kenya, Nigeria, Camerun, Somalia, Siria, Iraq,
Arabia Saudita, Yemen, Pakistan, Afghanistan, Malesia e Filippine i sequestri
di persona diventarono ricorrenti, assicurando ai gruppi terroristici risorse
economiche per milioni di dollari da utilizzare per finanziare le loro attività
eversive.
Il rapimento di ostaggi rappresenta una
delle maggiori fonti di guadagno per
queste organizzazioni e garantisce consistenti risorse economiche che nel tempo
ripianano il diminuito flusso di denaro
proveniente da enti di beneficenza islamici e ricchi donatori dell’Arabia
Saudita, dello Yemen e del Kuwait. Donazioni ridotte quasi a zero dopo la morte
di Bin Laden ed il più attento controllo dei movimenti di denaro da parte dell’Intelligence
occidentale.
La risorsa del riscatto è quindi
attualmente la principale fonte di sostentamento in particolare per i gruppi
minori in procinto di allearsi con l’ISIS. Lo ha confermato recentemente il
leader di al Qaeda nel Maghreb islamico, al-Wahayshi, che ha ammesso di aver speso 20 milioni di dollari
in un anno (2011-2012) per sostenere i costi della “lotta”, garantiti dai
bottini di guerra di cui il 50% proveniente dalla gestione di ostaggi.
Gli ostaggi stranieri rappresentano,
quindi, un vero e proprio “tesoro” per i
gruppi jihadisti che si avvalgono per la loro cattura anche di gruppi minori non
strettamente legati all’organizzazione terroristica. In Yemen, nello Sahel ed in Siria, infatti, la
malavita locale è molto attiva nel catturare e poi vendere ostaggi ai gruppi jihadisti
dietro modesti compensi.
Nello Sahel, ad esempio, i gruppi
eversivi di al Qaeda sono in stretto collegamento con i Tuareg e altri banditi che
operano nella regione, così come avviene per i militanti di Ansar Al Sharia in
Tunisia e Libia. La tecnica del rapimento è applicata anche da altri gruppi difficilmente
controllabili come i jihadisti filippini che operano in tutta la regione Sulu. Marinai
esperti e in grado di muoversi agevolmente ed operare con successo in alcune aree
delle Filippine, della Malesia e dell’Indonesia.
La minaccia del rapimento non è, quindi nuova ed è destinata ad estendersi fuori dei
confini delle aree a rischio fino ad oggi conosciute. Un pericolo che forse
rappresenta una delle prossime minacce da affrontare e sconfiggere per
raggiungere risultati certi e rapidi nella lotta al terrorismo internazionale
ed al Califfato.
E’ prioritario, quindi, concordare a livello internazionale
che tutti coloro che intendono raggiungere le aree di contingenza per scopi
umanitari come gli operatori delle ONG, per affari o per raccontare al mondo le
atrocità commesse dai “combattenti nel nome di
Allah”, per essere accreditati o autorizzati ad entrare nelle aree a
rischio dovrebbero essere addestrati prima di partire a riconoscere i segnali
del pericolo e ad adottare le contromisure necessarie a garantire un minimo di
sicurezza personale.
Un corso formativo standardizzato e regolato
dalle Nazioni Unite con procedure operative comuni (Standard Operative
Procedures - SOP), alla stessa stregua di come si procede nel settore
dell’informazione delle popolazioni
locali costrette a convivere con il pericolo di Ordigni Bellici Inesplosi (UXOs) lasciati sul terreno dalla
battaglia.
Addestramento finalizzato in particolare
a riconoscere gli “indicatori” del pericolo e ad applicare risposte adeguate nel
rispetto di procedure standardizzate, in modo da abbassare notevolmente il
rischio di rapimenti.
Troppo spesso, infatti, il pericolo non è
conosciuto o è sottovalutato dagli operatori che di fatto rappresentano “merce di scambio preziosa” per le organizzazioni eversive per
ricattare le Nazioni di appartenenza e di fatto ottenere che si trasformino in “donors”
dell’eversione islamica per ottenere il rilascio degli ostaggi.
Fronti di finanziamento peraltro non
palese e difficilmente rintracciabile e tale da garantire all’ISIS ed alle
varie organizzazioni estremistiche le necessarie risorse per continuare a
minacciare la sicurezza internazionale.
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