sabato 27 febbraio 2010

Morte a Kabul, un'altra azione militare, non solo terroristica

L’8 gennaio 2010 a Kabul la prima azione tattica con scopi terroristici. Un vero e proprio atto bellico, non un evento isolato come l’esplosione di un’autobomba o di una bicicletta imbottita di esplosivo. Ieri 26 febbraio, a distanza di poco più un mese, un altro episodio quasi analogo a quello di gennaio, Procedure simili, stessi obiettivi: un centro commerciale, alberghi frequentati da occidentali, l’esplosione di un’autobomba seguita da un attacco coordinato. Analogie che concettualmente richiamano alla memoria anche l’azione terroristica del 28 novembre 2008, condotta a Mumbai, in India. I consueti obiettivi umani, oltre agli inermi civili afgani, un francese, 10 indiani ed un italiano. Scampati altri quattro italiani e sembra un inglese. L’italiano ucciso era una figura istituzionale. Il numero due in Afghanistan dell’Agenzia Informazioni e Sicurezza Esterna (AISE), ufficialmente a Kabul come Consigliere Diplomatico. A Kabul non avviene mai nulla per caso. Le agenzie giornalistiche riferiscono che l’agente italiano è stato ucciso non perché si trovasse fra altre persone e qualcuno ha sparato nel mucchio, ma mentre era al telefono nella propria stanza. Lo stesso capo della polizia afgana, Abdul Rahman ha riferito alla stampa che con ogni evidenza gli attaccanti cercavano di individuare gli stranieri ospitati negli hotel, essendo sicuramente a conoscenza delle loro nazionalità. Fra i 10 cittadini indiani morti, uno apparteneva quasi sicuramente all’Ambasciata dell'India, distante poche centinaia di metri, vittime dei Talebani considerati dal Pakistan uno strumento per contrastare la crescente influenza dell'antica rivale. Le operazioni sono state svolte attraverso un’azione tattica ben orchestrata, coordinata, non improvvisata e sicuramente non casuale. L’attacco del 18 gennaio è avvenuto in coincidenza delle azioni di “rastrellamento” che l’Esercito pakistano stava facendo nelle Aree Tribali a ridosso del confine con il Pakistan. Oggi, tutto avviene durante la battaglia di Helmand e mentre il Contingente Internazionale della NATO si accinge ad incrementare il numero dei propri uomini e l’Italia si impegna ad inviare altri 1000 soldati. Il 18 gennaio un primo segnale di un dispositivo terroristico non più affidato solamente ad attentatori suicidi ma ben addestrato e coordinato sul terreno. Oggi lo stesso dispositivo si presenta migliorato dimostrando di disporre anche di una struttura di intelligence capace di individuare uno specifico avversario ed eliminarlo. Un’altra tessera di un mosaico che conferma l’evoluzione della struttura operativa dei talebani. Non più solo eredi dei Mujaheddin bravissimi nell’agguato, ma personale forse anche straniero, ben addestrato e capace di non colpire più nella massa ma di saper scegliere obiettivi puntiformi, discriminandoli a priori. Una crescita operativa che sembra sia stata sottovalutata dalle forze internazionali in Afghanistan avendo subito a distanza di 40 giorni due attacchi molto simili. Un’evolvere di situazione che con ogni probabilità un’attività di intelligence avulsa da schemi preconcetti e più attenta alle realtà locali, avrebbe potuto prevenire. A Kabul, qualsiasi operatore non afgano, poco dopo il suo arrivo in città, è immediatamente individuato e noto a tutti. Sicuramente non passa inosservato chi per lungo tempo ha particolari frequentazioni e chi nel tempo può rappresentare merce di scambio anche solo per pochi dollari.

27 febbraio 2010

giovedì 25 febbraio 2010

La droga, minaccia terroristica

La minaccia terroristica è sempre stata vissuta come un atto cruento realizzato impiegando ordigni esplosivi per provocare nell’immediato morte e distruzioni. Una visione riduttiva che potrebbe favorire l’escalation di nuove forme di terrorismo planetario attuate attraverso una minaccia transnazionale. Lo stesso Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite in varie occasioni ha riconosciuto che il problema del terrorismo internazionale non è solo quello rappresentato dall’esplosione di uno IED o da attacchi tipo quello dell’11 settembre e che analizzarlo solo con questa ottica sarebbe limitativo e fuorviante. Altri aspetti vanno invece attentamente valutati e monitorati, come il traffico di droga, l’alleanza di gruppi terroristici con la criminalità organizzata, il riciclaggio di denaro, l’esistenza di gruppi armati substatuali. Il commercio della droga rappresenta la principale forma di terrorismo moderno; un’azione silenziosa, destinata a penetrare le società progredite con effetti tali da auto incrementarsi nel tempo. Una specie di “reazione a catena” destinata a produrre conseguenze gravissime, di gran lunga superiori ai danni che potrebbero essere provocati da un attentato realizzato impiegando ordigni esplosivi. Un mercato agevolato dall’evoluzione tecnologica, che ormai semplifica le transazioni commerciali oltre le frontiere, sistemi ben noti e sfruttati dai gruppi criminali. Un fiume ininterrotto di eroina parte quotidianamente dall’Afghanistan, attraversa l’Asia centrale, la Russia ed i Balcani, per arrivare fino al ricco mercato occidentale. Un processo che la Coalizione internazionale militare della NATO impegnata in Afghanistan fino ad ora non sembra essere stata in grado di contrastare. Dall’Afghanistan, buco nero dell’instabilità dell’Asia centrale, proviene circa il 92% dell’eroina mondiale. Un commercio che invade l’Occidente ed i Paesi confinanti provocando una silente azione di disgregazione delle società locali con un incidenza di morti e di condannati all’oblio molto superiore a quelli conseguenti anche ad attentati importanti come quello dell’11 settembre 2001. Un esempio fra tutti. Nella vicina Russia sono stimati circa 30mila morti ogni anno per tossicodipendenza, con un danno per l’economia stimato in 54 miliardi di dollari. A questi si aggiungono i milioni di consumatori che non muoiono ma che sicuramente non possono rappresentare per il futuro un punto di riferimento per lo sviluppo socio economico del Paese. L’eroina afgana non invade, però, solo la Russia, ma dilaga in tutto il mondo percorrendo tre strade. Una attraverso i Balcani che dopo aver attraversato l’Iran e la Turchia raggiunge l’Italia ed il Centro Europa. Una seconda a nord, conosciuta anche come “la Via della Seta” ed infine il percorso meridionale, che passa attraverso il Pakistan, l’India e poi, via mare, raggiunge tutto il mondo. Un flusso di sostanze stupefacenti immenso cui si aggiunge il narcotraffico proveniente dalla Colombia, dalla Repubblica Dominicana, dalla Guinea-Bissau e dalla regione subsariana africana. Un fenomeno in costante crescita che fortunatamente, anche se in ritardo, ha però iniziato ad attirare l’interesse dei “Grandi del mondo”. Il capo dell’Ufficio per le politiche antidroga di Washington Gil Kerlikowske recentemente ha dichiarato la volontà USA di avviare un immediato e significativo impegno nella lotta al narcotraffico, riconoscendo di fatto che fino ad ora le forze militari in Afghanistan hanno fatto poco. Kabul, infatti, è sempre stata e rimane tuttora la ‘capitale’ mondiale per la produzione di oppiacei. 7.500 tonnellate nel 2009 che si stima raggiungano 8.200 tonnellate nel 2010. Un vero e proprio potenziale con effetti terroristici spalmati nel tempo, in grado di minare l’integrità psitica e fisica delle società progredite e nello stesso tempo di garantire ingenti risorse economiche per sostenere i terroristi non solo afgani e per assicurarsi la connivenza della criminalità organizzata, indispensabile riferimento logistico per le cellule terroristiche sparse nel mondo. La coscienza internazionale sembra che si sia accorta di questa minaccia e per primi Russia ed USA hanno sottoscritto un protocollo bilaterale per avviare un impegno congiunto nel contrasto del narcotraffico e per creare legittime alternative alle economiche locali oggi basate sulla produzione e commercio di droga. Negli ultimi mesi, anche il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sta dimostrando un precipuo interesse al problema con un’attenzione più evidente rispetto al passato, impegnando la propria Agenzia UNDOC (United Nations Office o Drugs and Crime) non solo sul piano operativo ma anche su quello politico. Un primo atto significativo alla fine dello scorso anno. L'8 dicembre 2009, in occasione del dibattito tematico sul tema "Pace e sicurezza in Africa: traffico di stupefacenti come una minaccia alla sicurezza internazionale", organizzato dal Burkina Faso, i membri del Consiglio hanno sottolineato l'importanza di rafforzare la cooperazione transnazionale per arginare il problema globale del traffico di droga, riconoscendo il pericolo che rappresenta per le democrazie mondiali. Una minaccia silenziosa che deve essere affrontata attivando una cooperazione multilaterale che sia in grado di debellare questo macro fenomeno in continua crescita e destinato ad annullare lo sviluppo planetario e quindi la pace e la sicurezza globale.

25 febbraio 2010

lunedì 22 febbraio 2010

I danni collaterali in Afghanistan

La battaglia di Helmand continua. Non sarà sicuramente breve come peraltro confermato anche ieri dai vertici militari del Contingente NATO in Afghanistan, ma i “danni collaterali” continuano. Provocano vittime civili cagionate da bombardamenti aerei che sicuramente non favoriscono il consolidamento del consenso della popolazione per la coalizione NATO impegnata contro i Talebani. Un’agenzia ANSA oggi riferisce di un attacco aereo che ha provocato la morte di 33 persone fra cui moltissime donne e bambini. La Forza internazionale di assistenza alla sicurezza (ISAF) conferma in un proprio comunicato che il bombardamento ha avuto per obiettivo "un gruppo di sospetti insorti che si riteneva fossero in marcia per attaccare una unità congiunta di militari afgani e dell'ISAF". Un’azione sferrata ieri contro autoveicoli che sembrava trasportassero insorti Talebani. I passeggeri, invece erano semplici civili. Il generale Stanley McChrystal comandante delle forse USA in Afghanistan ha espresso il suo personale rammarico e cordoglio al Presidente afgano Hamid Karzai sottolineando che l’impegno delle forze NATO è concentrato a proteggere gli afgani. L'uccisione o il ferimento, seppure fortuito, di civili non concorre, però, a confermare la volontà espressa dal generale ma vanifica i risultati dello sforzo militare e favorisce la propaganda degli insorti talebani. L’episodio non è isolato, ma è l’ultimo di avvenimenti analoghi ormai ricorrenti nell’ultimo periodo e che dovrebbero spingere a rivedere alcune ipotesi di battaglia. E’ pur vero che gli insorti vivono fra la gente, nascondono le armi nei villaggi, usano spesso i civili come scudi umani, ma i “danni collaterali” inducono a pensare che le truppe dell’alleanza internazionale sono ancora lontane dal controllo del territorio, almeno per quanto attiene alla struttura di intelligence. Decidere di attaccare un obiettivo solo perché “suggerito da supposizioni” non è accettabile sul piano militare e va contro il diritto umanitario, in particolare, quando le azioni militari sono svolte in presenza di popolazione civile. Una gestione sapiente dello strumento militare dovrebbe piuttosto spingere a non “supporre ma a tendere con una certa affidabilità alla certezza delle analisi” prima di attaccare un obiettivo. Nel dubbio, ricorrendo all’utilizzo di aeromobili ”a vista” al posto dei bombardamenti dall’alto, anche se ciò comportasse un incremento del rischio per il proprio personale. Provocare vittime civili abbatte il consenso della “Nazione Ospite” e vanifica qualsiasi iniziativa che vuole raggiungere la stabilità attraverso l’annientamento dell’avversario. In sintesi, non dovrebbero essere mai dimenticate le “lessons learned” che la storia ci tramanda. Le Legioni Romane proiettate verso Oriente preferivano non combattere una battaglia pur di non correre il rischio di coinvolgere la popolazione civile. In Vietnam il numero di civili morti sotto i bombardamenti ha rappresentato forse una delle principali cause della sconfitta americana sul piano politico ed anche sul terreno. Gli italiani a Mogadiscio il 2 luglio del 1993 pur di non coinvolgere nella battaglia i civili fra cui si nascondevano i ribelli somali, pagarono un pesante prezzo in termini di militari morti e feriti.
22 febbraio 2010

giovedì 18 febbraio 2010

Segnali di una possibile evoluzione della situazione nel Centro Asia

Varie agenzie di stampa riferiscono una successione di eventi che interessano le aree “calde” del Centro Asia e che potrebbero dimostrare come da parte di Al Qaida sia in atto un coordinamento operativo in risposta all’improvviso riavvicinamento dell’Intelligence pakistana (ISI) alla CIA, segnato dal recente arresto a Karachi del Mullah Baradar, numero due della struttura terroristica ed alle azioni militari in corso in Afghanistan. Oggi si ha, anche, notizia che in Pakistan almeno 10 giorni orsono sono stati arrestati dalle autorità pakistane altri due alti esponenti del movimento dei talebani, quasi contemporaneamente a quando i servizi di intelligence di Islamabad e la Cia catturavano Baradar. Altri due arresti eccellenti se si conferma che potrebbero essere "i governatori ombra" dei Talebani nelle province afgane di Kunduz e Baghlan, il Mullah Abdul Salam (Kunduz) e il Mullah Mohammad (Baghlan). La risposta terroristica è stata immediata e contemporanea alla notizia dell’arresto. Due attentati nelle Aree Tribali pakistane confinanti con l’Afghanistan. Una prima esplosione vicino ad una moschea ad Aka Khel nella Khyber Agency ed una seconda in un mercato di bestiame nella Orakzai Agency. Entrambe le località notoriamente ospitano Talebani e strutture per la fabbricazione di eroina ricavata dal papavero da oppio coltivato in Afghanistan e poi commercializzata verso i mercati occidentali e dell’estremo Oriente. Gli attentati sono peraltro avvenuti mentre è in visita ad Islamabad l'inviato statunitense Richard Holbrooke. Sempre oggi arriva anche la notizia dell’arresto a Karachi di tre affiliati ad Al Qaida, Kifayatullah e Abu Reyan Al Zarkazi (fonte agenzia di stampa indiana Pti). Questo ultimo, meglio conosciuto come Abu Musa già comandante di gruppi terroristici stranieri che hanno operato nel Waziristan pakistano contro gli americani e che prima dell'11 settembre avrebbe accompagnato Bin Laden in Sudan. Costoro sembrano fossero a Karachi per l'acquisto di parti meccaniche, fra cui timer per lavatrici spesso utilizzati come attivatori degli IED (Improvised Explosive Device) utilizzati negli attacchi terroristici. Contemporaneamente si ha notizia che l’attentato di due giorni orsono avvenuto a Pune nell’India centro-occidentale è in qualche modo legato al rifiuto dell'India di discutere il futuro fra il Kashmir ed il Pakistan e contro la recente alleanza dell’India con gli Stati Uniti. Una rivendicazione in questi termini fatta da Abu Jindal portavoce di un gruppo finora sconosciuto “LeT Al Alami”, quasi sicuramente emanazione della scissione del Laskher-e-Taiba notoriamente vicino ai servizi segreti pakistani. Questa mattina ancora un grave attentato in Iraq, a nord-ovest di Baghdad come riferito dalla polizia di Ramadi, capoluogo della provincia occidentale di al Anbar. L'attacco è stato compiuto con un'autobomba guidata da un attentatore suicida, che si è lanciato con la vettura contro l'ingresso fortificato del compound che ospita importanti organi istituzionali del governatorato iracheno. Una convergenza di eventi che potrebbe dimostrare il consolidamento di un network di “terrorismo transnazionale” al quale la comunità internazionale sta rispondendo con azioni multilaterali e bilaterali, dalla battaglia di Helmand alle operazioni congiunte ISI e CIA. Ipotesi peraltro coerente a quanto delineato in recenti dichiarazioni dal Segretario di Stato USA, Hillary Clinton quando ha parlato di una minaccia incombente determinata dalla connessione fra le varie entità terroristiche che potrebbe coinvolgere “i fondamentalisti islamici nella Penisola Arabica legati al Qaida o al Qaida in Afghanistan e in Pakistan o al Qaida nel Maghreb” e che se sommata alle vicende sul nucleare in corso in Iran ed in Corea del Nord, potrebbe creare una condizione di rilevante minaccia per il mondo occidentale.


18 febbraio 2010

martedì 16 febbraio 2010

Al Qaeda e le prossime elezioni politiche in Iraq

Le imminenti elezioni politiche in Iraq avrebbero potuto rappresentare l’inizio di una vera stabilizzazione di tutto il Centro Asia ma le premesse affievoliscono per vari motivi questo ottimistico auspicio. La nuova legge elettorale ricalca le tradizioni centro asiatiche ed a somiglianza di quanto avvenuto in Afghanistan propone una situazione tuttaltro che favorevole per il consolidamento di una pace duratura e l’inizio di uno sviluppo reale del Paese. Molti anche i nodi cruciali in sospeso; primo fra tutti la soluzione politica di Kirku, città in area petrolifera contesa fra arabi curdi e turcomanni. Il suo controllo assicurerebbe ai possibili gestori sostanziali ricadute economiche, importanza strategica in tutto il Paese e nell’intera area del Centro Asia. L’attuale esecutivo in Iraq è debole, non riesce a controllare come dovuto la continua crescita di movimenti insurrezionali di origine confessionale che è in atto da tempo e deve fare riferimento a una Costituzione che, seppure concordata appena nel 2005, ancora divide la classe politica. Le nuove elezioni politiche di marzo non si presentano, dunque, sotto migliori auspici e le tensioni interne sicuramente sono destinate a coinvolgere soprattutto i pro-sunniti, gruppi laici guidati dall’ex premier Allawi. Qualcosa oggettivamente sta già avvenendo, come gli attentati del 16 gennaio che hanno provocato 37 morti e quelli successivi del 25 gennaio rivendicati da Al Qaeda, seguiti dalle bombe che hanno colpito Najaf il 17 gennaio. Il Governo ha risposto con l’arresto di 25 terroristi ed il sequestro di grosse quantità di esplosivi ma è poca cosa e l’esecutivo sicuramente non è riuscito a convincere gli iracheni sulla efficacia delle sue azioni. Per alcuni osservatori bene informati, dietro questa serie di attentati ci sarebbe la volontà di delegittimare il governo di al Maliki proprio in vista della prossima tornata elettorale di marzo e tra gli avversari politici spicca lo stesso ministro degli Interni Jawad al-Bulani, membro del National Iraqi Alliance. Fra gli “scontenti” ci sono anche il gruppo sciita di Moqtada al Sadr ed i gruppi tribali sunniti che risiedono nelle aree di Mossul, di Wassit e vicino a Baghdad, i quali non condividono assolutamente l’attuale politica. Alla tensione interna si aggiungono avvisaglie di contrasti con l’avversario di sempre, l’Iran, riaprendo vecchie dispute sul confine fra i due Paesi e le minacce di Al Qaeda, come riferito recentemente dal “Site” struttura statunitense che monitorizza i siti islamici. Una fonte riporta, infatti, che Abu Omar al-Baghdadi, leader dell’Organizzazione terroristica in Iraq, ha minacciato attraverso un comunicato audio di voler fermare con "ogni mezzo di natura militare" le elezioni politiche del 7 marzo prossimo. Una minaccia che Amatzia Baram, direttore del Centro Studi per l'Iraq dell'Università di Haifa, in Israele, legge positivamente affermando che dietro gli attentati di Baghdad c'e' sicuramente Al Qaeda ma che il punto cruciale da capire è chi stia aiutando l'organizzazione terroristica di Osama Bin Laden. A tale riguardo, la tesi sostenuta da più fonti di analisi accreditate è che dietro gli ultimi attentati ci sia lo zampino dell’Iran forse anche aiutato dalla Siria, a conferma dei molteplici e differenti interessi attuali per l’Iraq e l’Afghanistan. Un’egemonia, quella di Al Qaeda che però, oggi, è messa in difficoltà, forse per la prima volta, da una serie di azioni convergenti. L’offensiva di Helmand in Afghanistan, prima azione militare sistematica contro i Talebani vicini all’organizzazione terroristica. I terroristi presenti in Yemen, fino ad ora silenti ora alla ricerca di un ruolo ben configurato. Minacciano, infatti, insieme ai “fratelli somali”possibili azioni per il controllo del Golfo di Aden, quasi a volersi distinguere dalla “casa madre”, sconfessando anche gli sforzi dello stesso Governo yemenita che nonostante sia impegnato a gestire il conflitto confessionale fra sciiti Zaydi e Shafei sunniti tenta di dimostrare alla comunità internazionale di voler contrastare le cellule terroristiche presenti sul proprio territorio. Infine, la notizia che proprio oggi riferisce della cattura di Abdul Ghani Baradar a Karachi in Pakistan, a seguito di un’operazione congiunta Cia / ISI (intelligence pakistana). Un inaspettato cambiamento dell’approccio di Islamabad verso l’alleato americano ed il mondo occidentale in generale perché Abdul, figura di spicco dei Talebani e vero registra delle più importanti azioni militari di Al Qaeda, catturato una prima volta in Afghanistan, è stato a suo tempo rilasciato, sembra proprio per un interessamento dell’ISI pakistano. Una serie di avvenimenti che potrebbero indurre Al Qaeda stretta all’angolo ad attuare un “colpo di coda” rilevante proprio in occasione delle prossime elezioni irachene arrivando a rimettere in discussione la “exit strategy” americana dal Paese e facendo forse, anche, un favore a Teheran impegnata a soffocare i disordini interni e ad affermare la propria scelta nucleare.

16 febbraio 2009

lunedì 15 febbraio 2010

La battaglia di Helmand in Afghanistan. Un segnale di cambiamento ?

E’ iniziata una delle più grandi offensive contro le roccaforti talebane in Afghanistan, la battaglia di Helmand. Sono coinvolte truppe della NATO affiancate da una consistente aliquota del nuovo esercito afgano da cui il nome dell’offensiva: “Insieme”. 15.000 uomini stanno attaccando da ormai quasi tre giorni la cittadina di Marjah nella provincia di Helmand, roccaforte dei Talebani vicini ad Al Qaida ed area, dove è fiorente la coltivazione del papavero da oppio. Qui negli ultimi tempi è stata prodotta più della metà delle 9000 tonnellate di papavero raccolte nel 2009 in tutto l’Afghanistan ed in questa zona, è vivo uno stretto legame fra Talebani e “la mafia della droga” come più volte dichiarato da Daoud Ahmadi, portavoce del governo afghano. Per i poveri contadini afgani e mezzadri che vivono ad Helmand, la coltivazione del papavero rappresenta una strategia di sopravvivenza poiché le culture sono altamente resistenti alla siccità ed ai parassiti e garantiscono una redditività che supera di almeno 10 volte qualsiasi altro tipo di produzione agricola. Abdul Ahad Masumi, un leader tribale di Helmand, ha più volte affermato che gli agricoltori coltivano il papavero per disperazione e perché "la comunità internazionale ha fatto poco per risolvere i problemi di questa collettività costretta a piantare papaveri per sopravvivere". Mohammad Daud, un ex governatore di Helmand a sua volta ha sempre lamentato la mancata azione contro la droga da parte del Governo centrale e della comunità internazionale con un conseguente ostacolo al progresso di tutti gli altri possibili settori produttivi, e non solo ad Helmand. Quella della coltivazione di oppiacei rappresenta, infatti, in tutto l’Afghanistan, una risorsa economica rilevante e prevalente come confermato anche dall’Ufficio delle Nazioni Unite contro la Droga e il Crimine (UNDOC) che riferisce: “La coltivazione dell'oppio in Afghanistan è quantificata in circa un miliardo di dollari l'anno di cui 100 milioni finiscono nelle tasche dei ribelli talebani". Una realtà preoccupante anche perchè negli ultimi anni la domanda mondiale media di oppiacei come l’eroina è stata di circa 4mila tonnellate e quindi esiste un surplus immagazzinato e protetto dalle organizzazioni criminali in attesa di poter essere in seguito rovesciato sui mercati occidentali abbassando i prezzi ed incrementando, conseguentemente, i consumi. Qualcosa di simile di quanto avvenuto immediatamente prima dell’11 settembre 2001 dopo che i Talebani avevano fatto distruggere tutte le coltivazioni di papavero da oppio. La Regione di Helmand, peraltro, è importante anche dal punto di vista strategico poiché confinante con le aree tribali del Pakistan, dove molto probabilmente potrebbero essere rifugiati e ben protetti i maggiori rappresentanti della nomenclatura talebana. Un Pakistan che pur essendo alleato degli Usa è riluttante a colpire pesantemente i Talebani considerati come una risorsa politica per contrastare le ingerenze indiane nel Kashmir e quindi ogni possibile influenza dell'India in Afghanistan. Il generale Nick Carter, Comandante delle forze Nato nel sud dell'Afghanistan, dopo il primo giorno di combattimenti ha dichiarato alla Bbc online “undici obiettivi sono già stati conquistati e l'attacco si sta rivelando di grande successo”. Una conclusione forse però affrettata e che potrebbe essere poi smentita dai fatti. I Talebani, infatti, seppure in ripiegamento, applicano tecniche di guerriglia consolidate che vedono i combattenti ripiegare di fronte all’attacco per riorganizzarsi, immediatamente dopo, in nuclei di guerriglia pronti a colpire con azioni “a macchia di leopardo”, utilizzando principalmente IED (Improvised Explosive Device) e mine. Strumenti relativamente poco complicati che però hanno sempre dimostrato in Afghanistan un’elevata valenza sul terreno, come avvenne per il successo dei mujaheddin contro l’invasore sovietico. Moltissimi organi di stampa americani stanno quotidianamente informando in tal senso parlando di azioni di guerriglia attuate per rallentare ed ostacolare le Truppe della NATO obbligate a muoversi su un territorio morfologicamente difficile e disponendo di una rete di strette strade sterrate che collegano i vari villaggi e che portano al fondo valle verso l’omonimo fiume. In queste situazioni l’agguato terroristico è molto facile da realizzare e la minaccia è sentita dalle forze USA che, infatti, per la prima volta in teatro, stanno utilizzando i nuovi mezzi corazzati “Assault Breacher Vehicle (ABV) ”, veicoli protetti con tre uomini di equipaggio, dotati di un sistema anteriore di aratri e catene in grado di far esplodere le mine e di aprire varchi sicuri alle Truppe ed ai convogli militari. Un pericolo contingente confermato da uno dei portavoce dei Talebani, Yusuf Ahmadi, che, come riferito da una fonte Reuters, ha dichiarato che “gli insorti sono pronti a ricorrere ad attacchi a sorpresa utilizzando ordigni esplosivi predisposti”. Lo scontro, quindi, non è destinato ad esaurirsi nell’immediato ed ogni fretta dovrebbe essere abbandonata per garantire la sconfitta definitiva dei ribelli sul piano militare e soprattutto distruggendo tutte le piantagioni di papavero da oppio. L’Operazione “Insieme” per la prima volta dal gennaio del 2002 è sviluppata dopo aver avvertito la popolazione con congruo anticipo ed è condotta con un’azione sistematica per annullare il potenziale operativo dei Talebani e dei loro complici malavitosi. Al seguito delle Truppe, poi, un’organizzazione di esperti civili con il compito di fornire alla popolazione un tempestivo supporto per avviare un’immediata ripresa economica non rappresentata dalla produzione di droga e per confermare la volontà della comunità internazionale di voler mantenere finalmente le promesse fatte fino dai primi mesi del 2002 dal mondo occidentale e mai rispettate.

15 febbraio 2010



giovedì 11 febbraio 2010

Afghanistan, la Conferenza di Londra

Il 28 gennaio 2010 si è svolta a Londra la Conferenza internazionale per l’Afghanistan con lo scopo di individuare un piano e la relativa “road map” per attribuire in tempi brevi al Governo afgano la responsabilità della gestione della sicurezza nel Paese. Ai lavori, fortemente voluti dal Presidente francese Sarkozy e da quello britannico Brown, hanno partecipato le rappresentanze di oltre 70 Paesi e di Istituzioni internazionali. Il Presidente Karzai ha chiesto alla comunità internazionale il sostegno pieno e unitario nella lotta al terrorismo, ed ha indicato sei aree d'intervento prioritarie.
In particolare :
• La pace, la riconciliazione e la reintegrazione.
• La sicurezza.
• La buona “governance” da perseguire a tutti i livelli di governo.
• La lotta contro la corruzione.
• Lo sviluppo economico nei settori dell’istruzione, della sanità, dell’elettricità e dell’agricoltura.
• La cooperazione regionale soprattutto per quanto attiene al transito delle merci, alla lotta al contrabbando di armi e droga ed alla sicurezza delle frontiere.
Al termine dei lavori la comunità internazionale ha confermato il proprio impegno a favore dell’Afghanistan ed ha affermato la propria determinazione di impedire il ritorno al potere dei Talebani. E’ stata inoltre riaffermata la volontà dei Paesi donatori di prevedere che entro due anni almeno il 50% delle donazioni economiche siano direttamente assegnate al Governo di Kabul o tramite un “Multi donor Trust Funds”. Molti hanno apprezzato i risultati definendoli altamente positivi, ma una maggiore cautela sarebbe d’obbligo perché non è stato nemmeno sfiorato un aspetto che caratterizza il Paese ed è decisivo in materia di sicurezza: la coltivazione del papavero da oppio, la raffinazione dell’eroina e il commercio di droga. Un’omissione che potrebbe vanificare qualsiasi sforzo per raggiungere la pace, anche se i Talebani abbandonassero le azioni terroristiche, deponessero gli armi e lasciassero definitivamente Al Qaida. La storia, infatti, insegna che in Afghanistan è difficile garantire sicurezza interna se i Signori della Guerra ed i commercianti di eroina continuano ad operare indisturbati imponendo le loro regole. L’agricoltura in Afghanistan ha, peraltro, sempre rappresentato la molla trainante di tutta l’economia del Paese la cui ripresa, allo stato attuale, non può sicuramente essere garantita facendo leva su tecnologie progredite asservite ad una produzione industriale credibile. Il contadino afgano ha, però, sempre coltivato il papavero da oppio e come più volte denunciato ripetutamente dall’ONU, si rifiuta di convertire il prodotto dei propri campi sostituendo il papavero con altre produzioni che, invece, potrebbero favorire la ripresa economica ed il benessere della popolazione. Un rifiuto determinato dalla realtà locale, perché se ciò avvenisse, coloro che da sempre gestiscono il controllo del territorio difficilmente garantirebbero il libero movimento delle derrate agricole. Conseguentemente, gli agricoltori ne uscirebbero sicuramente impoveriti e ritornerebbero di buon grado ad occuparsi di papavero come peraltro avvenuto ciclicamente in passato. La storia dell’Afghanistan, infatti, ci riporta che solo i Talebani nell’agosto del 2001 hanno disposto e fatto eseguire la distruzione di tutte le coltivazioni del papavero, apparentemente per dar seguito ad una raccomandazione delle Nazioni Unite ed ottenere, quindi, un sostegno economico per lo sviluppo dell’agricoltura. Lo scopo, però, era forse diverso e finalizzato piuttosto a garantire ai Signori della Guerra e ai Capi Clan delle aree Tribali pakistane l’esclusiva disponibilità di eroina ed oppiacei già stoccati nei magazzini e per garantire alla nomenclatura di Al Qaida la necessaria protezione ed il supporto in previsione di quanto sarebbe accaduto dopo l’11 settembre. I magazzini ormai sono vuoti, serve altro oppio e qualsiasi ostacolo è combattuto sul piano dello scontro armato ricorrendo ad azioni malavitose come i sequestri di persona o peggio attacchi terroristici che sempre più spesso coinvolgono anche la popolazione. Forse proprio per questo Karzai ha proscritto l’uso del nitrato di ammonio, sostanza base per la realizzazione di esplosivi artigianali, ma il provvedimento non basterà se le azioni militari finora svolte dal Contingente della NATO non si trasformeranno in attività di “polizia internazionale” con l’obiettivo di scardinare in modo definitivo la coltivazione del papavero. Una nuova missione che potrebbe rappresentare la giusta maturazione dell’intervento armato fino ad ora svolto e che garantirebbe un serio contrasto anche al terrorismo internazionale che, sicuramente, dal commercio della droga e dalla sua disseminazione sui mercati del mondo occidentale non può che trarre beneficio in termini economici e politici. Se questo obiettivo non sarà raggiunto qualsiasi sforzo potrebbe essere vanificato. Forse termineranno o almeno diminuiranno gli attentati terroristici degli insorti, ma aumenterà l’uso di IED artigianali da parte di chi ha sempre gestito le sorti dell’Afghanistan in stretto collegamento con i clan delle Aree Tribali pakistane, con apparati terroristici esterni all’Afghanistan e con strutture di Al Qaida. La decisione, infine, di coinvolgere direttamente il governo centrale nella gestione dei finanziamenti internazionali potrebbe essere finanche dannosa se prima non si distruggerà l’economia legata al traffico di droga, considerando che tuttora è viva e radicata la connivenza di molti apparati ministeriali proprio con i Clan che gestiscono sul territorio il commercio di sostanze stupefacenti e di armi.



11 febbraio 2010

martedì 9 febbraio 2010

Le ultime minacce di Al Qaida

Said al Sheri il numero due di Al Qaida dichiarato morto dal governo dello Yemen dopo che a dicembre 2009 erano state bombardate basi dell’organizzazione terroristica nel Paese, è invece vivo e vegeto. Con un messaggio audio diramato su Internet ha, infatti, chiamato a raccolta i sui adepti inneggiando alla guerra santa (jihad) contro l’Occidente ed in particolare nei confronti di Israele. Lo ha fatto con un approccio diverso rispetto ai vari proclami del passato, sicuramente più completo non avendo preannunciato solo generici attacchi terroristici ma avendo descritto un preciso obiettivo di rilevanza strategica: il Golfo di Aden. Un target importantissimo in quanto il Golfo è la via marittima di comunicazione con il Mar Rosso e, quindi, con il canale di Suez. Una rotta di primaria importanza la cui interdizione potrebbe avere ricadute pesanti per le economie occidentali ed in particolate per Israele. Con ogni probabilità siamo di fronte all’ennesimo proclama di un irriducibile della guerra terroristica quale è Said al Sheri reduce dalla prigionia di Guantanamo dopo essere stato braccio destro di Bin Laden, ma le dichiarazioni non possono essere semplicisticamente considerate come una “chiamata jihadista” con valenza solo propagandistica. Potrebbe essere, invece, un messaggio ai militanti di Al Qaida che operano e si addestrano in Somalia sull’altra riva del Golfo di Aden proprio di fronte allo Yemen, per sottolineare l’esistenza di un link operativo attivo con una delle fazioni più consistenti dell’organizzazione terroristica. Una risposta alla dichiarata disponibilità di “varcare il tratto di mare” resa pubblica dagli integralisti islamici somali poco dopo il fallito attentato al volo della Delta Airline in cui fu protagonista un terrorista addestrato proprio in Yemen. Una comunicazione di guerra quasi in sovrapposizione a quanto affermato dai Talebani in Afghanistan sulla disponibilità di un IED moderno in grado di aggirare le contromisure delle Forze della NATO ed alle accuse rinnovate in Iran da Khamenei contro il mondo occidentale seguite dagli attacchi odierni di miliziani contro le Ambasciate francese, olandese ed italiana, mentre il Presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad rilancia la sua sfida di produrre uranio arricchito. Solo provocazioni o piuttosto minaccia incombente ?

9 febbraio 2010



sabato 6 febbraio 2010

Nuova bomba per i Talebani, la bomba “Omar”

Nuova bomba per i Talebani, la bomba “Omar”

L’ANSA verso le 12.00 ha lanciato la notizia che i Talebani stanno ormai impiegando da tempo una nuovo IED, la “bomba Omar” il cui funzionamento non può essere impedito dai dispositivi (jammers)  in uso alle forze della Coalizione NATO. Una notizia sicuramente allarmante sul piano operativo, che naturalmente dovrà essere verificata dagli specialisti impegnati in Teatro, ma se fosse vera in parte spiegherebbe perché il Mullah Omar non ha inviato suoi rappresentanti alle Maldive per partecipare all’iniziativa di pace voluta da Karzai. Sul piano tecnico, poi, se la notizia trovasse riscontri sul campo verrebbero confermate le ipotesi del supporto ai Talebani assicurato da Paesi “amici” tecnologicamente evoluti. Infatti in Afghanistan non risulta che esistano in questo momento risorse tecnologiche nel settore dell’elettronica sofisticata e della meccanica di precisione, che possano garantire ai terroristi la realizzazione di apparti radio predisposti per aggirare con certezza le contromisure elettroniche degli jammers.
6 febbraio 2010

giovedì 4 febbraio 2010

A Kabul si muore, alle Maldive si tratta


Ieri 3 febbraio 2010 un nuovo attacco contro i militari NATO in Afghanistan. Un blindato italiano “Lince” alle ore 13,20 locali è stato oggetto di un agguato terroristico utilizzando un IED (Improvised Explosive Device) che è esploso al passaggio del mezzo. Per fortuna non risulta che ci siano state conseguenze gravi per i nostri soldati, solo un contuso ricoverato in Ospedale per accertamenti. L’attentato è avvenuto a ridosso dei confini con l’Iran, a pochi chilometri da Shindand dove si trova una base operativa avanzata degli italiani contro una pattuglia che rientrava da una missione di “Key Leaders Engagement” (ndr : fonte Corriere della Sera - Esteri 3 feb. 2010). Attività di “ricognizione operativa” che porta a contattare la popolazione nei villaggi per acquisire utili elementi di conoscenza sull’area in cui operano le forze di sicurezza afghane e i militari della missione Isaf della Nato. Un episodio che ancora una volta conferma la volontà degli insorti afgani di non abbandonare il terrorismo, soprattutto coloro che gestiscono traffici illeciti in particolare verso l’Iran. Scambi di droga, armi e forse anche di sistemi e tecnologie moderne per la realizzazione dei potenti IED di nuova generazione. Oppure, considerando i modestissimi effetti dell’esplosione, solo un avvertimento all’Italia concretizzato poco dopo l’intervento del Presidente del Consiglio al Parlamento israeliano, in occasione del quale sono state rivolte puntuali critiche all’Iran e sono stati auspicate sanzioni internazionali nei confronti del regime iraniano. Ipotesi o certezze è difficile dirlo conoscendo la realtà afgana. Comunque è sicuro che la componente oltranzista che fa riferimento al Mullah Omar, fino ad ora non ha risposto agli inviti di Karzai ma seguita a combattere la guerra occulta del terrorismo ed che il 23 e 24 gennaio u. s. alle Maldive sono stati avviati i primi contatti fra esponenti talebani ed il Governo di Karzai. Lo riferisce alla stampa il deputato afgano Sayed Jamal Fakuri, che vi ha partecipato insieme ad altri ministri del Governo di Karzai.
Dalle intenzioni si è giunti quindi ai fatti convocando al tavolo delle trattative, seppure in via informale, una componente protagonista del conflitto armato quanto meno sicuramente alleata di coloro che sono soliti rivendicare atti terroristici contro le Forze di interposizione della NATO, peraltro con il coinvolgimento della popolazione civile.

4 Febbraio 2010

martedì 2 febbraio 2010

I talebani al tavolo della pace in Afghanistan

I Talebani al tavolo della pace in Afghanistan

In Afghanistan dilaniato dalla guerra da anni e dove gli attentati terroristici sono ormai fatto quotidiano, cercare di raggiungere la pace ad ogni costo è imperativo e rappresenta un obbligo morale che deve coinvolgere chiunque sia deputato a gestire accordi pur di ottenere questo risultato. Il Presidente afgano Karzai recentemente ha esplicitato la sua intenzione di raggiungere questo obiettivo, anche prevedendo di chiamare “gli insorti” talebani al tavolo della pace. Un approccio significativo nella storia di quel Paese, ma che meriterebbe un’attenta valutazione prima di essere concretizzato. Il coinvolgimento allargato delle parti, infatti, avverrebbe in un momento in cui si assiste ad un’accelerazione ed evoluzione delle azioni terroristiche che hanno luogo nel centro di Kabul coordinate con veri e propri atti tattici e quasi sicuramente supportate dai Signori della Guerra e dai coltivatori del papavero da oppio e commercianti di eroina. L’appello di Hamid Karzai non sembra, peraltro, che sia stato ancora preso in considerazione dai leaders della rivolta talebana che non dimostrano un palese interesse per la pace né, tantomeno di volersi distinguere da Al Qaeda, prediligendo, invece, la guerra asimmetrica accelerare l’uscita delle forze NATO a totale vantaggio dell’antica aspirazione degli studenti talebani: la formazione di un futuro Stato islamico, sicuramente integralista piuttosto che moderato. Anche una parte importante del mondo islamico non risulta condividere il coinvolgimento politico degli insorti talebani che certamente non possono essere considerati avulsi dalla realtà di Al Qaeda. Lo stesso principe Saud al Faisal, Ministro degli esteri saudita, alcuni giorni orsono ha ribadito che il Proprio paese parlerà con i talebani solo dopo che costoro abbiano rescisso i legami con al Qaeda e con Osama Bin Laden. "L'Arabia Saudita non ha nessun legame con i talebani", ha detto. "Abbiamo tagliato le connessioni anni fa, quando hanno cominciato a dare asilo a Bin Laden, e non abbiamo mai rinnovato il nostro consenso". Chiamare, dunque, “gli insorti” al tavolo delle trattative senza porre precise condizioni e senza garantire che le stesse siano applicate potrebbe creare un precedente pericoloso in ambito internazionale ed anche “invogliare” in futuro forme di “ricatto terroristico” per guadagnare diritti politici altrimenti irraggiungibili. Il Diritto Internazionale bellico, infatti, prevede specifici vincoli normativi per il riconoscimento dei “legittimi combattenti” e quindi di possibili interlocutori per accordi di pace. Una validazione che è possibile solo se le milizie, corpi volontari e formazioni armate, sono inquadrate e soggette alla disciplina militare e caratterizzate da 4 requisiti: essere comandati da una persona responsabile per i suoi subordinati; portare un segno distintivo fisso e riconoscibile a distanza; trasportare le armi in maniera palese; condurre operazioni belliche in conformità alle leggi e nell’assoluto rispetto del Diritto Umanitario, in particolare per quanto attiene al coinvolgimento dei civili. In Afghanistan fino ad oggi nessuno di questi parametri può essere attribuito ai Talebani e legittimarli. L’unico distintivo mostrato è il volto coperto da sciarpe che non può garantire quanto previsto dalle Convenzioni che tutelano il combattente. Le più importanti azioni belliche da loro eseguite sono solo ripetuti atti di terrorismo con agguati che coinvolgono anche i civili. Non guerriglia armata, quindi, come espressione di un diritto politico e giuridico per contrastare qualsiasi atto ostile contro il proprio territorio, ma solo imboscate terroristiche con impiego di IED (Improvised Explosive Device). Azioni coordinate da un management operativo e politico di vertice in cui gli afgani hanno un ruolo di sottordine rispetto a sauditi, egiziani, giordani ed anche yemeniti e sudanesi che fanno parte della classe dirigente di Al Qaeda. Mercenari della lotta del terrore che nulla hanno a che fare con azioni di guerriglia sviluppate contro l’invasore come, invece, fecero i mujaheddin afgani contro i sovietici e tutti coloro che nel mondo sono stati impegnati negli anni in forme di insurrezione armata per liberare la propria Nazione. “Gli insorti” come li definisce Karzai, colpiscono, invece, indiscriminatamente e molto spesso scegliendo come target privilegiato proprio i civili. Atti di terrorismo e non di guerriglia ed i terroristi non possono appartenere alla democrazia ed arrogarsi il diritto di essere coinvolti in iniziative di pace per fondare uno Stato di diritto almeno fino a quando la loro azione continua a colpire la popolazione, gente inerme che si reca al mercato o in Moschea per la preghiera del venerdì. Gli ex Talebani, sicuramente in futuro potranno e dovranno essere chiamati a concorrere al processo di democratizzazione della società afgana, ma solo dopo che avranno consegnato la “pistola fumante” oggi ancora nascosta sotto l’abito. A premessa di tutto, quindi, dovrà essere pretesa una resa incondizionata degli insorti e dei loro affiliati che appartengono ai clan locali, da sempre dominanti nella storia dell’Afghanistan, primi fra tutti i commercianti di droga ed armi. Qualcosa di simile a quanto avvenuto, per esempio in Angola quando nel marzo del 2005 parte del management dell’UNITA (Unione Nazionale per l’Indipendenza dell’Angola, ) è stato chiamato a far parte delle Istituzioni dopo decenni di lotta armata contro il Governo Centrale di Luanda e solo dopo che era cessata ogni attività insurrezionale segnata dalla morte nel 2002 del capo indiscusso Savimbi. Un approccio semplicistico e pragmatico in Afghanistan potrebbe, invece, non favorire la sicurezza internazionale ma concedere ai Talebani possibili spazi di manovra per un’eventuale futura riorganizzazione militare. Una realtà già vissuta dopo che a gennaio del 2002, alla fine della guerra, le forze talebane scomparvero dal teatro di Operazioni per poi ricomparire di lì’ a qualche mese ricompattate e pronte allo scontro e quando nel 2003 in Iraq le forze della Guardia Repubblicana di Saddam Hussein si ritirarono senza combattere dalla scena operativa per poi ripresentarsi di lì a poco con significativi atti terroristici. Procedendo in questa direzione la pace se raggiunta non potrà che essere solo formale e vacillante, minacciata in qualsiasi momento da chi da sempre gestisce le sorti dell’Afghanistan legato e connivente con il potere delle Aree Tribali pakistane e con la corruzione all’interno del Paese. Una situazione di equilibrio instabile per la sicurezza globale e che potrebbe favorire l’accelerazione di forme di “terrorismo bianco”, in parte già avviato attraverso il macroscopico incremento del commercio capillare di sostanze stupefacenti dirette ai mercati clandestini dell’ Occidente.
1 febbraio 2010