lunedì 30 maggio 2011

Attacco kamikaze ad Herat in Afghanistan

Un altro attacco di kamikaze in Afghanistan. Obiettivo una base italiana ad Herat che ospita i teams impegnati nella ricostruzione del Paese (PRT). Bin Laden e' morto, forse anche il Mullah Omar innescando falsi ottimismi sulla prossima disgregazione di Al Qaeda e delle cellule terroristiche ad essa legate, ma il terrorismo - anche forse solo malavitoso - seguita a colpire. La NATO, in Afghanistan e nelle aree tribali pakistane continua con attacchi aerei impiegando Drone con elevato rischio di danni collaterali e che ormai hanno stancato la popolazione afgana. L’attentato in Afghanistan segue quello al contingente militare in Libano ad un veicolo per il trasporto truppa (VM) simile, a parte il colore e modeste modifiche strutturali, a quelli che transitano sulle strade italiane. Oggi, ad Herat, l’attacco ad una base che le notizie di stampa che si stanno accavallando, dicono essere dislocata al centro della cittadina, fra molte case adibite a civili abitazioni di cui talune in posizione dominante rispetto all’insediamento internazionale. Tutto accade, mentre il Presidente siriano Assad vicino agli estremisti libanesi Hezbollah ha probabilmente voluto mandare un segnale al contingente multinazionale che presidia i confini del sud del Libano con Israele, nel tentativo di allontanare da se stesso la pressione europea ed un prossimo auspicabile interesse internazionale dopo la fine dell'intervento in Libia. In Afghanistan quattro kamikaze si fanno esplodere subito dopo che Karzai ha chiesto alla Nato di non continuare con attacchi militari che comportino elevati rischi per la popolazione civile. L’evento di oggi dimostra che le milizie afgane che fra poco dovrebbero assumere il controllo autonomo della sicurezza nel Paese, forse non sono poi ancora in grado di gestire efficacemente la sicurezza e concorrere al contrasto del commercio della droga che proprio attraverso la Provincia di Herat segue una delle vie privilegiate per raggiunge l'Iran e l'Occidente. In Iraq, a Nassirja, per evitare di coinvolgere civili iracheni i militari italiani hanno avuto problemi nel contrastare l’attacco dei terroristi che nascosti fra la gente, dai ponti sull’Eufrate, hanno attaccato il presidio dei Carabinieri subito dopo l’attentato. Anche oggi ad Herat sembra che l’attacco kamikaze sia stato seguito da violento fuoco di fucileria sparato proprio da nuclei eversivi nascosti fra le abitazioni civili e quasi sicuramente anche in questo caso la possibile risposta dei militari, pur nell’assoluto rispetto delle regole di ingaggio, potrebbe essere stata seriamente compromessa dal possibile coinvolgimento dei residenti naturali nelle case intorno alla base. In Somalia, al ceck point Pasta, fu difficile contrastare l'attacco per non coinvolgere anche questa volta donne e bambini. Lessons Learned che dovrebbero suggerire una maggiore cautela nelle scelte e non indurre a facili ottimismi sull’immunità da qualsiasi offesa, peraltro poco giustificati dall’attuale impegno nazionale nelle missioni internazionali di Peace Keeping e Peace Enforcing.
30 maggio 2011 - ore 11.30

sabato 28 maggio 2011

L’INFLUENZA TERRORISTICA NELL’EQUILIBRIO DELLE RELAZIONI INTERNAZIONALI



PREAMBOLO

Dall’11 settembre del 2001 è esploso l’interesse generalizzato sul fenomeno terrorismo che presto si è trasformato in una curiosità talvolta ossessiva. Improvvisa per moltissimi la scoperta dell’esistenza di organizzazioni come Al Qaeda operative invece da tempo, di personaggi come Bin Laden noti fin dalla metà degli anni ’80 o come i fondamentalisti Ceceni, attivi clandestinamente già prima dalla caduta del muro di Berllino.

Da quel momento, si sono accavallate quasi quotidianamente analisi ed ipotesi diverse, spesso contrastanti e fuorvianti. In taluni casi condivise anche da strutture ufficiali di Intellicence fino a quel momento troppo disattente ai segnali che vicende, anche lontane, potevano trasmettere.

Questa convinzione ed altre personali valutazioni dettate da pregresse esperienze specifiche di natura professionale, spingono a pubblicare uno studio per proporre un tavolo di discussione sul fenomeno terrorismo e come esso potrebbe incidere nel futuro internazionale, anche alla luce dei recenti accadimenti sulle sponde del Mediterraneo.

Il lavoro, per esigenze redazionali, verrà prodotto per steps successivi, con una cadenza non preordinata e cercando di cogliere ed approfondire aspetti dell’area mediterranea e del Golfo di Aden, essenziale per il futuro energetico occidentale.

A lavoro ultimato di raccogliere i posts in un’unica pubblicazione, che sarà messa a disposizione di chiunque ne abbia interesse.


Fernando Termentini – 27 maggio 2011

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L’INFLUENZA TERRORISTICA NELL’EQUILIBRIO
DELLE RELAZIONI INTERNAZIONALI

PRMESSA
Il vocabolo terrorismo ha un'origine moderna, derivata almeno inizialmente, dal comportamento di particolari regimi e/o governi impegnati ad esercitare il loro potere minacciando la popolazione attraverso l’esercizio di una violenza coercitiva. Fra le possibili forme di terrorismo, la matrice del fondamentalismo religioso è quella che nel tempo e fino ai giorni nostri si è concretizzata con maggiore frequenza attraverso atti cruenti, di vasta risonanza e tali da costringere le collettività a convivere con una continua ed estrema insicurezza. Nel tempo, le tecniche, le procedure e le modalità operative delle organizzazioni terroristiche sono evolute di pari passo alla crescita tecnologica, in particolare nel settore informatici e delle comunicazioni telematiche, consentendo ai gruppi eversivi di esercitare un costante ricatto del terrore sulla comunità internazionale. Sta ormai pressocchè scomparendo la classica automobile imbottita di esplosivo, sostituita da azioni meno cruente sul piano pratico, ma di fatto più devastanti. Sabotaggio degli investimenti finanziari, intrusioni informatiche, immissione di fondi sovrani sui mercati azionari per destabilizzare l’economica internazionale, fino ad arrivare alla gestione di massicci flussi migratori di clandestini tra cui celare cellule eversive. Il terrorismo nasce ed evolve in Asia Centrale negli anni ‘80, con la rivoluzione islamica in Iran e la jihad afgana contro l’invasore sovietico, questa ultima attivata ed ampiamente supportata dalle maggiori potenze occidentali che oggi maggiormente subiscono la minaccia terroristica. Una situazione successivamente evoluta con la radicalizzazione del fondamentalismo religioso dei Talebani che nei 5 anni successivi all’abbattimento del muro di Berlino si sono definitivamente insediati a Kabul. Dalla fine degli anni ’90 si è assistito ad un proliferare di diverse organizzazioni eversive, molto spesso collegate fra loro, con un incremento numerico quasi esponenziale. Quasi tutte di origine islamica, propugnatrici del più estremo fondamentalismo, in costante collegamento e coordinamento attraverso i diversi network con punti nodali rappresentati dai luoghi di aggregazione religiosa e culturale, come le moschee e/o pseudo centri culturali. L’emergente terrorismo non ha risparmiato nemmeno importanti democrazie occidentali di religione cattolica, con effetti anche in questo caso assolutamente estremistici. Molti i cristiani che si sono contrapposti nel tempo ai cattolici ortodossi e/o protestanti, come avvenuto ad esempio in Irlanda o nei multietnici Balcani dove l’intransigenza religiosa fra bosniaci musulmani, ortodossi serbi e croati cristiani, è stata protagonista di una pluriennale e feroce guerra civile, esasperata da forme di genocidio ed epurazione etnica. Ma è nel mondo islamico che si assiste al consolidarsi di un progetto più articolato e globale dell’eversione radicale consentendo alla jihad terroristica di consolidarsi, anche perché in quegli anni quasi ignorata dal mondo. Solo nel 1972, quando gli atti terroristici hanno iniziato a colpire e/o a minacciare concretamente gli interessi economici globali. Dirottamenti ed attentati con lo scopo di rendere insicuri i trasporti commerciali, fino ad arrivare all’assassinio degli atleti israeliani a Monaco di Baviera durante le Olimpiadi. L’Organizzazione delle Nazioni Unite attraverso l'Assemblea Generale iniziò ad elaborare l’ipotesi di Convenzione, che rappresentasse un impegno condiviso contro il terrorismo internazionale. La Convenzione promuoveva azioni comuni per la prevenzione e la repressione del terrorismo e per impedire che Stati sovrani potessero diventare basi e/o rifugi di terroristi. In questo contesto l’ONU individuò l’esigenza di dover definire il concetto di “terrorismo di Stato”, inteso come l’esercizio del terrore di un governo anche attraverso il finanziamento, l’addestramento o, solo, il fiancheggiamento dei terroristi. Dopo sette anni di lavori, UN presentò, però, solo un documento di mero contenuto “politichese”, non in grado di proporre una definizione universale del terrorismo né tantomeno individuare, a livello internazionale, le necessarie contromisure. Sulla scia di questo insuccesso il Consiglio d’Europa, autonomamente, avviò iniziative per tutelare i propri cittadini ed in pochi anni fu elaborata una Convenzione europea per la repressione del terrorismo, sottoscritta a Strasburgo il 27 Gennaio 1977. Dopo la fine della Guerra Fredda e la dissoluzione dell’Unione Sovietica, il tema del terrorismo ha iniziato a sollecitare un interesse globale sul piano politico e giuridico. Fra tutti i possibili settori, la distinzione tra reati di natura terroristica e quelli che poi sarebbero diventati i “processi di liberazione nazionale”, che, pur caratterizzati dal ricorso alla violenza, si proponevano di rovesciare regimi non garanti dei diritti umani. In sintesi, si concordò sul piano globale di riconoscere come terroristica qualsiasi azione compiuta da singoli o gruppi che con il ricorso alla violenza od ad atti subdoli minacciassero uno Stato sovrano o solo semplici cittadini, con lo scopo di creare e mantenere alta una situazione di paura e di continua insicurezza. Nel dicembre del 1999, attraverso un sempre più crescente e significativo impegno internazionale, le Nazioni Unite hanno ratificato la “The Convention for the Suppression of the Financing of Terrorism”, documento che prevedeva una serie di iniziative che, mutuando quanto già in essere per la lotta contro la criminalità organizzata, esercitavano un controllo sui flussi finanziari che potevano essere gestiti per finanziare atti di terrorismo internazionale. Dopo l’attacco terroristico dell’11 settembre 2001 alle Twin Towers ed al Pentagono USA, le iniziative internazionali nello specifico sono evolute dalle semplici dichiarazioni politiche e giuridiche del passato, a veri e propri atti concreti. Primo fra tutti, fondamentale la dichiarazione degli alleati europei e canadesi degli Stati Uniti che invocando l’Articolo V della Carta della NATO, dichiararono di considerare l’aggressione terroristica a NY come “un’azione contro loro stessi”. Immediata la reazione militare di autodifesa con l’avvio delle operazioni militari contro il regime dei Talebani in Afghanistan e, poi, contro l’Iraq di Saddam Hussein che, però, hanno dimostrato fin dall’inizio di non essere in grado di ottenere i risultati sperati per abbassare incisivamente ed immediatamente la minaccia terroristica. Infatti, mentre si combatteva nel Centro Asia, gravissimi attacchi terroristici a Madrid e Londra seguirono quello dell’11 settembre, tali da costringere l’Unione Europea ad un impegno più concreto non solo politico, per lottare contro l'eversione. Alla fine del mese di marzo 2004, dunque, la Commissione Europea presentò un articolato progetto affinchè fosse garantito a livello globale uno scambio di informazioni e fosse avviata una concreta cooperazione per il contrasto del terrorismo. Nel Giugno 2004, prese corpo lo “European Plan of Action on Combating Terrorism” nel quale furono esattamente configurate le priorità da seguire per garantire le necessarie azioni di prevenzione e per gestire possibili attacchi terroristici. Nel febbraio 2007, il Consiglio Europeo ha, infine, introdotto un programma particolare per la valutazione del rischio delle infrastrutture di importanza strategica, per l’elaborazione di metodologie per la protezione delle stesse e per garantire la sicurezza dei rifornimenti internazionali nel settore energetico. Per contro a partire dal 2001, sono emersi diversi orientamenti politici e giuridici che hanno portato a considerare il fenomeno terroristico in maniera diversa ed anche discordante. Paradigmi giuridici e di pragmatismo politico che hanno generato sofismi interpretativi, attraverso i quali non sempre era ed è possibile distinguere il terrorista dal legittimo combattente impegnato a combattere per garantire i propri diritti minacciati da altri sul piano militare. Tutto questo, ha comportato che anche semplici manifestazioni di piazza o rivendicazioni di diritti, apparentemente leciti, potevano ricondursi a situazioni ed a forme di lotta che alla fine degli anni ’90 agevolarono le organizzazioni eversive. Oggi, in contrasto al terrorismo sta, di fatto, subendo un’inversione di tendenza in cui le azioni globali vengono sostituite da interventi mirati per cercare di annientare i capi storici e le figure carismatiche del terrorismo internazionale. Una “caccia all’uomo” simile a quella attuata in Iraq contro Saddam Hussein, senza, però, prevedere il “dopo Saddam” e che spesso non agevola la necessaria visione globale del problema. Un errore che in passato ha favorito il consolidamento di Al Qaeda su base internazionale e che, oggi, potrebbe portare a sottovalutare le ragione a monte della "rivolta araba" e le conseguenze di un post Mubarak piuttosto che di un Bel Alì. Interessi troppo focalizzati che, almeno apparentemente, potrebbero allontanare l’attenzione sul possibile ruolo dell'Iran sugli avvenimenti che stanno toccando le sponde de Golfo Persico e gli spazi marittimi del Golfo di Aden e che non è azzardato pensare che possano essere "in sistema" con quello che sta avvenendo dall’inizio dell’anno sulle sponde del Mediterraneo. Tutti segnali che non devono far dimenticare quanto avvenuto nel passato e che ha portato all’11 settembre.

venerdì 13 maggio 2011

Il Pakistan nel mirino di Al Qaeda

Il dopo Bin Laden è iniziato. Aij TV emittente pakistana riferisce di un attentato terroristico a Charsadda nel Pakistan nord occidentale che ha provocato 87 morti e più di 100 feriti. L’attacco è stato rivendicato dalla più importante organizzazione fondamentalista pakistana, la Tehrik-i-Taliban Pakistan (TTP) guidata da Baitullah Mehsud e molto vicina ad Al Qaeda. E’ stata provocata una strage fra le reclute delle Guardie di Frontiera pakistane per lo più impegnate nelle Aree Tribali ai confini con l’Afghanistan per la caccia ai terroristi e per frenare il traffico di droga gestito dai Signori della Guerra afgani. Il Pakistan è quindi entrato nel mirino di Al Qaeda come preannunciato subito dopo l’azione statunitense a Abbottabad e con elevata probabilità la strage è stata compiuta con la complicità dei Talebani pakistani colpendo un simbolo delle istituzioni di Islamabad piuttosto che, come in passato, inermi civili ammassati in un mercato. Un modello già applicato in Iraq nell’immediato dopo Saddam Hussein. Un attacco terroristico che rappresenta anche un messaggio allo Stato ed alla popolazione nel momento che è stato realizzato proprio nel venerdì della preghiera e contemporaneamente all’aumento del fermento in tutte le più importanze piazze del mondo islamico. I terroristi hanno colpito per vendicare la morte del leader storico di Al Qaeda dimostrando che in Pakistan sono ben strutturati ed operativamente pronti ad agire quasi in tempo reale. Un evento che deve essere attentamente valutato ed analizzato perché dimostra che i Talebani pakistani nonostante gli sforzi del Governo di Islamabad sono cresciuti ed hanno migliorato la loro organizzazione esprimendo una potenzialità di tutto rispetto. L’attacco ha colpito, peraltro, una Repubblica islamica che dispone del nucleare ed in cui esistono depositi di scorie radioattive che potrebbero essere di interesse per chi voglia compiere anche attentati “sporchi”. Una minaccia, più volte espressa in passato dallo stesso Bin Laden e che non può né deve essere sottovalutata.
13 maggio 2011, 0re 13.00

Il dopo Bin Laden

Il Presidente degli Stati Uniti ha comunicato al mondo che Osama Bin Laden è stato ucciso in Pakistan ma si rifiuta di pubblicare le foto del cadavere. Evidentemente il Presidente USA non vuole seguire il “Che Guevara stile” quando il corpo del rivoluzionario fu esposto a lungo alla venerazione della gente, ma non può nemmeno negare il diritto al mondo di essere informato sulla base di riscontri oggettivi piuttosto che di parole. Un diritto che non può essere negato a coloro che, civili e militari, hanno sacrificato la propria vita per contrastare l’eversione di Al Qaeda. Sicuramente il falso pudore di Osama di voler rispettare la sensibilità della gente non pubblicando immagini cruente, può alimentare ben altre reazioni del mondo islamico fondamentalista rispetto a quanto potrebbero provocare le immagini del corpo dello Sceicco che, invece, seguita a vivere attraverso i suoi messaggi postumi. Proclami in cui, secondo fonti ben informate, Osama inneggia contro Israele, rivendica l’incondizionato riconoscimento della Palestina e rende omaggio a chi come il nigeriano Umar Faruk Andulmutallab ha tentato di attuare attentati contro gli USA e ricorda gli “eroi dell’11 settembre”. Le immagini dell’ucciso non vengono mostrate ma iniziavano a trapelare informazioni sui contenuti dei documenti sequestrati ad Abbottabad che confermerebbero una consistente presenza di Al Qaeda in Palestina che, peraltro, potrebbe aver realizzato l’azione suicida ad Alessandria di Egitto nel Natale del 2010 con la morte di 24 cristiani accelerando il processo di rivolta contro Mubarak e giocando con Al Qaeda del Magreb un ruolo attivo nelle rivolte del mondo arabo. Al Qaeda significa “Data Base”, nome scelto dagli USA quando l’organizzazione nacque per contrastare l’invasione sovietica in Afghanistan. Una lista composta da un numero non quantificato di guerriglieri pronti ad immolare la propria vita per la liberazione di Kabul. Dopo l’11 settembre alcuni componenti dell’organizzazione hanno iniziato a lasciare la “casa madre” ed a ramificarsi nel mondo, creando un network del terrore in cui ciascun nucleo nel tempo si è organizzato e strutturato. Ora, dopo la morte di Bin Laden, ciascuna cellula potrebbe originare azioni autonome anche rilevanti. Fuori dell’Afghanistan esistono ormai importanti strutture come Al Qaeda nel Maghreb Islamico (AQMI), storicamente sempre la più autonoma rispetto a Bin Laden. L’AQMI comprende anche il Gruppo Salafita per la Predicazione ed il Combattimento molto attivo in Somalia e vicino ai pirati somali che operano nel Golfo di Aden ed è formata da jihadisti algerini, marocchini, tunisini, mauritani e libici. L’AQMI è da tempo economicamente indipendente da Bin Laden e si auto finanzia con i rapimenti ed il commercio della droga. Oggi è, anche, rinvigorita militarmente dalla crisi libica che favorisce il flusso continuo di materiale militare proveniente dai deserti di Tripoli. La cellula magrebina potrebbe approfittare della morte di Osama per aprire un nuovo scenario di terrore internazionale diverso dai vecchi schemi asiatici stringendo alleanze con i salafiti residenti in Somalia e con le cellule yemenite capeggiate da Nasser al-Wahishi che proprio in questi giorni si è proposto su Internet annunciando agli americani che “il peggio deve ancora venire”. Un messaggio che indirettamente confermerebbe la morte dello Sceicco saudita, ma che potrebbe essere anche una comunicazione convenzionale per risvegliare atti di terrorismo pianificati ed al momento “dormienti”. Lo stato di incertezza che sta emergendo dopo l’annunciata e non dimostrata morte di Osama aumenta il livello della minaccia e la scomparsa del figlio minore di Bin Laden avvenuta durante il blitz del 2 maggio scorso concorre ad incrementare lo stato di insicurezza. Hazma bin Laden dato inizialmente per morto a seguito dell’azione delle forse speciali USA, notizia poi smentita, è, infatti, da tempo destinato dal padre a continuare la jihad e già si era affermato nel mondo del terrorismo internazionale avendo partecipato con elevata probabilità all’uccisione di Benazir Bhutto. Lo spettro di Bin Laden, quindi, è destinato ad incombere ancora sulla scena internazionale mentre la Cina e l’India stanno osservando attentamente l’evolvere della situazione post Osama ed attendono una sicura dimostrazione della morte del terrorista prima di uscire allo scoperto. La Cina, impegnata ad assicurarsi le risorse energetiche afgane ed il controllo di importanti rotte energetiche verso l’estremo Oriente, come la postazione strategica di Gwadar nel Baluchistan pakistano ubicata a ridosso delle principali rotte petrolifere dell’Oceano Indiano. L’India, unica potenza nucleare dell’Asia Centrale insieme al Pakistan, che approfittando della situazione potrebbe assumere un ruolo attivo in Afghanistan sostituendosi ad Islamabad e risolvendo anche l’eterno contenzioso con il Pakistan per il controllo del Kashimir. Un aspetto non è comunque chiaro. Il silenzio dell’Iran che continua ad essere distante dagli eventi, mentre il fronte libico è ancora caldo e quello siriano si infiamma sempre di più nell’assoluta indifferenza dell’Occidente.

12 maggio 2011, ore 13.00

mercoledì 11 maggio 2011

Gheddafi è fuggito

Moltissimi media internazionali si interrogano sulla possibilità che Gheddafi non sia rimasto ucciso dalle bombe della NATO insieme a suo figlio minore ed ai tre nipotini. Probabilmente, invece, è fuggito nel deserto confermando la sua antica paura di rimanere sepolto sotto le macerie a seguito di un bombardamento. Un timore che risale al 1986, quando gli USA nella notte tra il 14 ed il 15 aprile colpirono con bombe la residenza del Rais a Tripoli ed uccisero la figlia adottiva Hana. Allora Gheddafi fuggì e si nascose per lungo tempo nel deserto ricomparendo successivamente completamente frastornato tanto da indurre il sospetto sull’esistenza di un sosia. Fonti affidabili riferiscono che da quei giorni dell’attacco statunitense, Gheddafi non abbia più dormito per due notti consecutive nello stesso posto, preferendo la famosa tenda alle strutture fisse. Il rituale si ripete e dal 30 aprile 2011 il rais non compare più in pubblico, forse scappato in un luogo sicuro lontano dalle città, probabilmente nella zona desertica di Ash Shurayf che ospita strutture riconducibili a quando la Libia era impegnata nella produzione di “agenti chimici” e situata a ridosso dei confini con il Tchiad dove il rais potrebbe trovare rifugio. La NATO, prosegue a bombardare mentre l’ONU chiede l’immediato cessate il fuoco. I responsabili dell’Alleanza continuano ad assicurare che fra gli obiettivi degli attacchi non c’è la persona di Gheddafi, ammettono di non sapere se il Rais è ancora vivo e non confermano le vittime civili da più parti denunciate a seguito dei bombardamenti. I molti “non so” che caratterizzano i giornalieri briefing dell’Alleanza lasciano perplessi in quanto tutto il territorio libico dovrebbe essere costantemente monitorato dai satelliti per garantire il rispetto della “no fly zone” prevista dalla risoluzione n. 1973 dell’ONU. Invece si susseguono le azioni di attacco al suolo utilizzando le cosiddette “bombe intelligenti” contro i bunker che potrebbero ospitare Gheddafi e viene meno quella sorveglianza attiva che permetterebbe, invece, attacchi mirati su bersagli ben definiti e di sicura valenza militare. Crescono, quindi, i dubbi sull’affidabilità del controllo internazionale degli spazi aerei e marittimi nel momento che l’aviazione libica è in grado ancora di bombardare, come avvenuto giorni orsono su Misurata, e le navi della NATO non riescono ad intercettare i barconi con a bordo i migranti che continuano a passare. Non è azzardato, quindi, chiedersi se non sia possibile che arrivino ancora rifornimenti alle truppe governative, vanificando i contenuti della risoluzione delle Nazioni Unite, tenuto conto che le carrette del mare riescono ad eludere il blocco navale ed i MIG libici continuano a volare.

11 maggio 2011, ore 16.00

giovedì 5 maggio 2011

Osama Bin Laden, da mujaheddin a terrorista internazionale

Nel 1972 Richard Nixon in un’intervista affermò “Dobbiamo ricordare che gli unici periodi della storia del mondo in cui abbiamo avuto lunghe fasi di pace sono stati quelli segnati dall’equilibrio della potenza. Quando una Nazione diventa infinitamente più potente rispetto ad un suo potenziale avversario cresce il pericolo di una guerra”. Una potere che non è solo forza militare, ma soprattutto capacità di intelligence e credibilità internazionale. Un monito diretto verso l’allora Seconda Potenza Militare del mondo, l’Unione sovietica e che alla fine degli anni ’80 si concretizzò. Sulla base di questi presupposti, nel 1979 gli USA tenendo conto di queste valutazioni iniziarono ad occuparsi delle sorti di un paese fino ad allora sconosciuto ai più, governato da gruppi tribali vicini ideologicamente al comunismo post Secondo Conflitto Mondiale e che improvvisamente era stato invaso dall’Unione Sovietica. Proprio in quegli anni Osama Bin Laden fu reclutato dalla CIA, scelto per giocare un ruolo determinante nella resistenza afgana contro l’Esercito sovietico. L’Intelligence USA, alleata con l’ISI pakistano, intendeva in questo modo trasformare la jihad afgana in una guerra combattuta da tutti gli Stati mussulmani contro l’Unione Sovietica e che avrebbe portato alla caduta del regime comunista, come di fatto avvenne a partire dalla fine del 1989. Dal 1982 al 1992, circa 35.000 radicali mussulmani di 40 Paesi islamici entrarono a far parte delle brigate di mujaheddin e molti altri raggiunsero il Pakistan per frequentare la più importante Università islamica dell’Asia, quella di Peshawar. Negli anni della resistenza Osama contribuì alla causa afgana sul piano operativo ed assicurando attraverso l’Arabia Saudita finanziamenti ed aiuti militari ai combattenti della jihad. La figura di Bin Laden rappresentava sempre di più un punto di riferimento per l’Intelligence degli Stati Uniti molto attiva anche nell’assicurare personale per la formazione dei guerriglieri afgani. Iniziative sviluppate con l’aiuto dell’ISI, intermediario operativo presso la base militare di Rawalpindi vicino a Peshawar, in Pakistan. Contemporaneamente si andò ad affermare e consolidare il traffico della droga raffinata nelle terre di confine fra l’Afghanistan ed il Pakistan e che avrebbero ospitato dopo l’11 settembre la prima latitanza di Osama e di tutta la leadership di Al Qaeda. Una risorsa economica per Bin Laden e che a partire dall’inizio degli anni ’90 contribuì a favorire il consolidamento dei Talebani a Kabul. Un commercio che fu favorito, come affermò nel 1985 Charles Cogan l’ex Direttore della CIA nelle operazioni afgane, per creare le alleanze necessarie e vincere la Guerra Fredda. Dopo il ritiro delle Truppe Sovietiche dall’Afghanistan la guerra civile non cessò. Gli emergenti Talebani erano sempre di più sostenuti dal Pakistan con il partito Jamiat - ul - Ulema - e - Islam (JUI) che nel 1993 entrò a far parte della coalizione di governo filo americano di Benazzir Bhutto molto legato all’ISI ed alle Forze Armate pakistane. Nel frattempo, Osama Bin Laden approfittando della contingenza del momento, aumentava la sua credibilità assicurando il reclutamento e l’addestramento di appartenenti al movimento Wahhabita saudita, destinati ad operare di lì a poco come volontari nei Balcani e nell’ex Unione Sovietica. Lo Sceicco in questo modo superava ogni possibile sospetto degli alleati occidentali e poteva creare le premesse all’azione terroristica globale. Un vecchio combattente, ricco e potente in quanto imparentato con la monarchia saudita, che si assicurava alleanze planetarie aiutando il costituendo esercito musulmano bosniaco, l’Esercito di Liberazione del Kosovo (UCK) ed i terroristi dell’UCK - NLA che operavano in Macedonia. Non casualmente, come ormai accertato, arrivò a stringere legami anche in Cecenia addestrando in campi di Al Qaeda in Afghanistan i principali leader della resistenza cecena, come Samil Basayev e Al Khattab. Basayev ed i suoi luogotenenti continuarono i loro cicli di formazione anche a Kost nel campo afgano di Amir Muawia istituito agli inizi degli anni ’80 con la collaborazione di Bin Laden e gestito dal famoso signore della guerra afgana, Gulbuddin Hekmatyar. Non è possibile che tutto ciò avvenisse senza che la CIA e l’alleato ISI non ne fossero a conoscenza e non ne agevolassero in qualche modo l’evoluzione. Sicuramente, quindi, durante la Guerra Fredda e nel decennio a seguire gli USA hanno consapevolmente usato ed appoggiato Osama Bin Laden considerato affidabile tanto da essere sottoposto a dialisi in un ospedale militare americano a Dubai due mesi prima dell’11 settembre. Lo Sceicco è poi sfuggito al controllo ed è riuscito a completare il suo disegno eversivo su un piano globale per colpire e minacciare tutto il mondo non islamico. Dopo l’11 settembre è diventato un nemico da abbattere anche perché proseguendo la sua opera di destabilizzazione le cellule di Al Qaeda nascevano e si radicavano nell’Africa subsahariana e nel Corno d’Africa e potrebbe anche essere stato coinvolte anche nelle attuali rivolte in Africa settentrionale, in Siria e nello Yemen. E’ stato ucciso e non catturato, probabilmente perchè custode di segreti scomodi. Da morto potrebbe diventare un simbolo ed un martire per la causa islamica contribuendo a polarizzare lo scontro fra civiltà. Probabilmente per questi motivi gli USA non vogliono ostentare “il macabro trofeo di guerra”, con una decisione che però potrebbe risultare affrettata ed errata ed innescare reazioni violente di estremisti islamici, anche se il killer Osama ha ucciso nel mondo più musulmani che non musulmani. La dichiarazione del portavoce della Casa Bianca non è comunque accettabile quando riferisce che l’immagine del morto è “una foto atroce”, mentre in altri casi ben altre atrocità sono state divulgate al mondo. Intanto i Talebani iniziano a sollevare il dubbio che Bin Laden non sia morto ed attraverso il loro portavoce Zabiullah Mujahid sollecitano gli americani “a mostrare le prove di quello che dicono”. Un messaggio che attraverso Internet è destinato a raggiungere tutti i mussulmani, dal Medio Oriente all’Indonesia. Se sarà in grado di accendere gli animi lo dirà domani la folla che si recherà nelle Moschee nel giorno della preghiera.
5 maggio 2011 - ore 16.00

martedì 3 maggio 2011

Il Pakistan e la morte di Osama Bin Laden

Varie le ipotesi che in queste ore vengono formulate sul coinvolgimento del Pakistan nell’uccisione di Osama Bin Laden. Qualcuna favorisce la tesi che l’Inter Service Intelligence (ISI) pakistano abbia concorso alla cattura, altre escludono qualsiasi coinvolgimento del Pakistan. Un accavallarsi di teorie tutte importanti per cercare di capire quale potrebbe essere la prossima mossa di Al Qaeda per vendicare la morte dello Sceicco saudita e contro chi potrebbe essere diretta. E’ molto improbabile che nelle vicende il Pakistan non abbia avuto un ruolo importante. Un’opinione che deriva da un’esperienza maturata per lungo tempo da chi scrive a stretto contatto con la realtà civile e militare pakistana e che porta ad affermare la quasi certezza di un ruolo fondamentale dell’ISI nell’intera vicenda. Non è possibile, infatti, che in Pakistan passi inosservato chi vive in una struttura che vale un milione di dollari ubicata in un’area frequentata da autorità militari e civili anche straniere e che come Osama abbia esigenze di assistenza medica continua fra cui la dialisi. L’ISI è la più importante e potente delle tre branche dei servizi di Islamabad ed è direttamente dipendente dalle Forze Armate pakistane. L’Agenzia è stata sempre considerata “Stato nello Stato” ed è ramificata ai minimi livelli sociali fino a permeare in alcuni casi anche gli stessi ambiti famigliari. Ne fanno parte pure esponenti del fondamentalismo pakistano come coloro che dirigono la “Moschea Rossa” e coinvolti nei tragici episodi di sangue avvenuti nel 2007 ad Islamabad. Sicuramente in Abbotabain sede di una Scuola Militare pakistana di primaria importanza, città dove è stato catturato Osama, è operativa un’importante cellula dell’ISI ed è molto improbabile che non conoscesse l’identità dello “straniero” che abitava nella mega struttura attaccata dalla forze USA. Peraltro notizie recentissime parlano di un intervento di un’unità militare pakistana che ha cinturato l’area, mentre erano in corso i combattimenti all’interno del compaund. L’ISI, peraltro, ha storicamente favorito l’insediamento di Osama e dei Talebani quando si doveva allontanare la presenza sovietica nel vicino Afghanistan ed ha in talune circostanze agevolato la stessa latitanza di Osama dopo l’11 settembre. Rapporti che risalgono ai primi anni ’80, quando gli agenti pakistani operavano come corrieri per trasferire risorse economiche dall’intelligence saudita al partito Jamaat - e - Islami impegnato a sostenere la jihad anti sovietica. Proprio in virtù di queste amicizie Osama Bin Laden nel 1996 dopo essere stato espulso dal Sudan si recò in Afghanistan ritenuto terra sicura e con l’aiuto dell’intelligence pakistana si insediò nelle aree di confine con il Pakistan. Un ruolo importante quello dell’ISI, talvolta non sempre trasparente come quando ha favorito l’insediamento in Pakistan dei partiti estremisti come l’Alleanza Islamista (MMA), collaborando nello stesso tempo con la CIA in cambio di sostanziosi aiuti economici e per ottenere la revoca delle sanzioni nucleari. Non è quindi possibile escludere a priori l’aiuto di Islamabad nella cattura di Osama avvenuta peraltro a qualche mese di distanza da quando ad ottobre 2010 gli USA hanno concesso all’Esercito pakistano un aiuto di 2,5 miliardi di dollari americani. Islamabad sicuramente in questo momento ha difficoltà di ammettere qualsiasi coinvolgimento nelle vicende che hanno portato alla morte di Bin Laden che potrebbe innescare reazioni terroristiche di Al Qaeda contro il Pakistan all’interno del quale potrebbero anche verificarsi atti inconsulti di una parte dell’opinione pubblica pakistana contraria all’ingerenza USA e più vicina a posizioni di radicalismo religioso. Tre le possibili reazioni di Al Qaeda. Una attuata dalla vecchia guardia attraverso le sue alleanze con cellule residenti al di fuori dall’Asia Centrale e che potrebbe anche accelerare ed estremizzare il processo di rivolta che coinvolge il mondo islamico. Una seconda che potrebbe essere originata dagli alleati di Al Qaeda in grado di colpire immediatamente, come le unità terroristiche residenti nel Kashmir ed i gruppi dislocati nel Mali e nel Maghreb africano. Infine atti sconsiderati di piccoli gruppi autonomi che potrebbero agire autonomamente ed in maniera imprevista. In questo contesto, mentre gli analisti si affannano a valutare la situazione per cercare di intuire le possibili azioni di ritorsione, rimangono molte ombre sull’uccisione dello Sceicco il cui corpo è stato fatto sparire e nessuna fotografia o filmato sull’azione è stato reso pubblico, nonostante la tradizione USA di accompagnare qualsiasi azione militare importante con le riprese di una “Combat videocamera”.
3 maggio 2011 - 17.00

lunedì 2 maggio 2011

Osama Bin Laden è morto

Il Presidente americano ha annunciato che le Forze Speciali americane hanno scovato ed ucciso Osama Bin Laden, il capo storico di Al Qaeda. Lo Sceicco saudita è stato intercettato in Abbotabain, una zona turistico / militare del Pakistan, in un compaund di lusso a ridosso di residenze di molti militari pakistani di elevato rango e vicino ad un’Accademia Militare pakistana nota per la formazione di Ufficiali destinati ad unità speciali pakistane e di appartenenti anche ad altre Forze Armate alleate. Evidentemente Osama era sicuro della protezione dell’Intelligence del Pakistan (ISI) quando ha abbandonato le impervie gole delle montagne afgane a ridosso del confine pakistano per insediarsi in una residenza di lusso, ubicata in un’area oggetto di attento controllo istituzionale da parte di Islamabad. Una cornice di copertura sicuramente affidabile come è possibile definire sulla base di conoscenza diretta di quella zona e di come opera l’ISI, per cui è lecito supporre che il successo del blitz americano è stato possibile solo perché il Governo di Islamabad ha fatto cadere improvvisamente la rete di protezione, forse perché interessato a riavvicinarsi rapidamente agli USA in un momento in cui l’alleato siriano Assad è sotto osservazione dell’ONU e degli Stati Uniti ed in Afghanistan i Talebani perdono terreno. La morte dello Sceicco segna, dunque, una vittoria importante contro il terrorismo internazionale, ma nell’immediato non deve indurre a facile ottimismo in quanto potrebbero verificarsi azioni violente per opera di cellule terroristiche dormienti o perché schegge impazzite del mondo fondamentalista vogliono vendicare la morte dello Sceicco del terrore. Situazioni di rischio che, peraltro almeno per l’Europa, potrebbero essere favorite dai flussi migratori indotti dalle vicende che sconvolgono il mondo islamico dell’Africa settentrionale. Qualche reazione si è già avuta. I Talebani pakistani attraverso il loro portavoce Tehrik e Taleban Pakistan (TTP) hanno preannunciato immediate ritorsioni contro gli USA e contro Islamabad se la notizia dell’uccisione di Bin Laden fosse confermata.
2 maggio 2011, ore 15,30

Uccisi i tre nipoti di Geddafi

Dopo il bombardamento di un sito di Tripoli arrivano notizie dell’uccisione di tre nipotini del Rais libico Geddafi. Qualora i fatti fossero confermati, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite dovrebbe riunirsi con urgenza e valutare se il rispetto della risoluzione 1973 è coerente con lo spirito che ha spinto l’Assemblea a votarla o piuttosto è interpretata dalla Coalizione Nato. Non sembra, infatti, che nel documento sia dato mandato di dare la caccia all’uomo Geddafi. Piuttosto è disposto di proteggere la popolazione civile dalla repressione governativa ed interdire lo spazio aereo libico. Le prime immagini dell’edificio colpito dal bombardamento fanno pensare, invece, che l’obiettivo distrutto sia un’abitazione civile piuttosto che un centro di Comando e Controllo. Locali dove, peraltro, varie fonti confermano che abbiano ospitato il Rais fino a poco prima dell’attacco, a dimostrazione che la scelta dell’obiettivo è stata fatta per colpire la persona e non contro un apparato militare. Una decisione che potrebbe avere conseguenze negative considerando come il mondo islamico giustamente rispetta la vita dei bambini e che potrebbe indurre la Lega Araba a prendere le distanze dalle operazioni militari in corso. L’ONU dovrebbe, quindi, procedere ad immediate verifiche dei fatti e richiamare in ogni caso il Comando delle Operazioni ad un più attento controllo delle attività militari proscrivendo ufficialmente e senza dare spazio ad interpretazione alcuna qualsiasi attacco che può provocare vittime civili. L’etica suggerirebbe, infatti, che nel dubbio è meglio lasciare indenne un possibile Centro di Comando e Controllo piuttosto che colpire indiscriminatamente fra la gente anche se consanguinea di un tiranno e di un feroce terrorista, in particolare se fanciulli inermi. In Teatro sono utilizzate bombe “intelligenti” che per essere tali devono essere pre programmate come il navigatore di un’autovettura e quindi parlare di danno collaterale è forse azzardato a meno che l’obiettivo sia stato scelto pur non essendo contraddistinto da inequivocabili insegne e caratteristiche militari.
2 maggio 2011, ore 08,30