mercoledì 29 febbraio 2012

L’Italia a rischio di riorganizzazione della lotta armata. Un pericolo esaltato dall’informazione strumentale

Il Capo della Polizia ed altre fonti accreditate ripropongono continuamente il rischio che in Italia sia in corso una progressiva infiltrazione di gruppi eversivi nelle grandi manifestazioni di piazza.

Antonio Manganelli ribadisce l’allarme che l’area anarchico insurrezionalista “è pronta a fare un salto di qualità, è pronta all’assassinio”. Una dichiarazione ufficializzata in occasione di un’audizione alla camera dei Deputati in cui il Capo della Polizia ammette anche che “se fino ad oggi non è accaduto è perché abbiamo avuto fortuna che non accadesse”.

Parole forti in un momento in cui la tensione sociale indotta dalla crisi economica coinvolge tutto il mondo occidentale e non solo l’Italia. Rischio ingigantito dalla possibilità di divulgare gli avvenimenti in tempo reale, attraverso un network capillare in grado di raggiungere chiunque e con messaggi che se opportunamente pilotati possono condizionare i comportamenti della gente .

Una valutazione quella del responsabile nazionale dell’ordine pubblico che trova immediato riscontro in ciò che sta avvenendo in questi giorni in Piemonte durante le manifestazioni dei “NO TAV”. Sul sito Indymedia Italia, autodefinito di “informazione indipendente”, ribalzano minuto dopo minuto incitamenti alla rivolta contro le istituzioni, con un tam tam crescente attraverso il quale i teppisti infiltrati incitano alla “guerra”.

Messaggi destinati a far leva sulle caratteristiche emozionali degli individui ed in grado di incrementare il numero dei possibili adepti, in particolare fra i giovani preoccupati per il loro futuro.

Una serie di informazioni in cui spesso le menzogne sono più accattivanti della realtà perché inventate per incidere sulle aspettative di chi è colpito da un disagio sociale. Un sovrapporsi di notizie calibrate e coordinate, che evidenza un’azione di coordinamento a monte ben progettata, destinata a gestire la piazza in tempo reale con un messaggio verbale o video.

Un processo che purtroppo sta coinvolgendo anche alcuni politici di appartenenza estrema, con effetti che potrebbero essere devastanti per la sicurezza nazionale . “Opinion Leaders” che non tengono conto dell’avvertimento lanciato al parlamento dal Capo della Polizia che non demordono di approfittare di ogni episodio per lanciare messaggi destinati a “caricare” la gente.

Insieme a costoro i “tuttologhi” che ormai ogni giorno invadono gli schermi televisivi. Esperti in qualsiasi settore che esprimono opinioni prive di contenuto sostanziale, ma in grado di indurre nel pubblico emozioni estreme.

Una realtà sempre più emergente che rafforza la minaccia prospettata dal Vertice della Polizia di Stato, destinata a crescere dalla dilagante convinzione che ormai è più protetto giuridicamente chi manifesta rispetto a chi è invece è impegnato a tutelare lo Stato democratico.

Un’evidenza confermata da un episodio di ieri, quando un “protagonista della piazza” si è rivolto ad un carabiniere immobile insultandolo con la frase “Ehi pecorella vuoi sparare !”. Insulti alle Forze dell’Ordine ed anche ai manifestanti che volessero tentare di spezzare una lancia a favore di poliziotti, carabinieri e finanzieri.

Sintomi di un malessere destinato a favorire il pericolo di infiltrazioni di gruppi estremistici e del loro consolidamento nel substrato nazionale, in un momento peraltro favorevole per la scarsa credibilità dell’attuale classe politica.

Le conseguenze sarebbero gravi per la sicurezza interna, forse con conseguenze molto superiori a quelle degli anni ’70.

29 febbraio 2012, 12,45

mercoledì 22 febbraio 2012

Riportiamo a casa i due militari prigionieri

I quotidiani di oggi e varie agenzie di stampa riportano notizie poco rassicuranti su una rapida definizione del problema dei due nostri militari imprigionati in India. Peraltro le Autorità indiane imputano loro un reato che secondo la legge locale è punibile con la pena di morte.

In ogni caso, permettendo che i due marò fossero fermati per essere, come sembra, imprigionati e giudicati da un Tribunale indiano, è avvenuta una forzatura a quanto stabilito dalla Corte Costituzionale che ha negato che si possa estradare / consegnare chi sia imputato o sospetto di reati puniti con la pena di morte nel paese richiedente.

Le notizie che arrivano inducono a temere che l’India non intende fare marcia indietro e voglia processare i nostri militari e sembra che le Autorità locali si accingano a perquisire la nave neanche fosse un cargo di malfattori.

Credo che dobbiamo spingere sull’acceleratore per sollecitare interventi istituzionali incisivi con prese di posizione italiane che non lascino dubbi. Si è pensato quindi di raccogliere adesioni di cittadini che intendano partecipare a questa forma di sensibilizzazione istituzionale inscrivendosi al gruppo aperto su Facebook “Riportiamo a casa i due militari prigionieri”, raggiungibile all’indirizzo : http://www.facebook.com/#!/groups/337996802910475/.

Più saremo e più la nostra azione potrà avere dei risultati per i nostri militari.

Infine l’indirizzo dell’Ambasciata indiana a Roma : gen.email@indianembassy.it per chi volesse rappresentare il proprio sdegno personale.

22 febbraio 2012 – ore 10.00

lunedì 20 febbraio 2012

I due militari italiani arrestati in India rischiano la pena di morte

3 febbraio 1998, i tempi della guerra in Bosnia. Dalla base Nato di Aviano parte in volo di addestramento un aereo dei marines americani alle 15,12 minuti trancia due cavi della funivia che da Cavalese porta al monte Cermis.. Muoiono diciannove turisti e il manovratore della funivia. Nessuno e' stato condannato per quei morti, nonostante le accertate pesanti di responsabilità. Gli USA nonostante che il fatto si fosse verificato in territorio italiano non hanno consegnato all'Italia i responsabili richiamandosi ad una tutela nazionale dei propri militari impiegati all'estero. Ciò nonostante la garanzia che sarebbero stati sottoposti ad un processo di un Tribunale di un Paese sicuramente democratico e che nel rispetto dei diritti umani non prevede nel suo Codice Penale la pena di morto. L'Italia in quel momento non oppose condizioni. L'Italia oggi lascia che due militari italiani per fatti avvenuti in acque internazionali siano lasciati al giudizio di un Paese - sicuramente democratico come asserito formalmente dal nostro Ministro degli Esteri - in cui però è in vigore la pena di morte. La stessa Italia che giustamente, in altre occasioni, non concede l'estradizione ad eventuali cittadini stranieri ricercati o condannati nei loro Paesi di origine, qualora questi prevedano la pena di morte. Lancio questo post nella speranza che qualcuno ci aiuti a capire e spieghi al Paese e quindi in Parlamento cosa sta accadendo rispondendo magari a queste poche domande :

1. Perché la nave è stata fatta entrare nelle acque territoriali indiane ed attraccare ad un porto indiano consegnandosi di fatto alle Autorità di quel Paese.
2. La nostra Ambasciata a Nuova Delhi ha chiesto con nota formale l’acquisizione delle prove dell’evento contestato, dei possibili reperti e dell’esito dell’autopsia.
3. Il Console Italiano e l’Addetto Militare sul posto dove la nave è attraccata quali azioni hanno compiuto a difesa dei nostri concittadini, tutelando i loro diritti internazionali o piuttosto si sono limitati a “dar loro appoggio morale” accompagnandoli in gattabuia.
4. Chi sta controllando come vengono trattati i nostri militari e quali garanzie vengono loro assicurate nel rispetto del diritto internazionale ?
5. Perché non si da un segnale all’India “richiamando in Italia l’Ambasciatore per consultazioni”?
6. Quale è lo scopo di inviare una commissione interministeriale italiana che non credo possa fare di più che turismo non essendo accompagnata da accordi bilaterali che ne consentano l’operatività ?

20 febbraio 2012 – ore 15.00

mercoledì 15 febbraio 2012

La jihiad in Siria, un altro pericolo per l'Occidente

Il 12 febbraio Ayman al Zawahiri, l'erede di Bin Laden, ha diffuso un video su Internet incitando i mussulmani turchi, iracheni, libanesi e giordani a sostenere la ribellione contro Damasco. Una conferma che Al Qaeda, ancora una volta, cerca di approfittare delle rivolte locali per raggiungere il proprio obiettivo principale, il ritorno ad un califfato transnazionale. La situazione siriana potrebbe offrire un momento favorevole in quanto sicuramente destinata ad avviarsi verso un’ulteriore escalation dopo il veto cinese e russo alla risoluzione dell’ONU che intendeva porre fine al massacro dei manifestanti siriani. Un aumento delle tensioni che potrebbe sfociare in una vera e propria guerra civile con una ricaduta negativa sulla stabilità di tutta l’area e tale da richiamare l’attenzione ed interventi diretti della comunità internazionale. Al momento è già palese l’interesse di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia che insieme a Paesi del Golfo come il Qatar e l’Arabia Saudita, hanno promosso la risoluzione dell’ONU poi respinta dalla Russia e dalla Cina. Significativa la partecipazione attiva dei Paesi arabi, un tempo alleati di Damasco, ora preoccupati per i problemi palestinesi e per l’appoggio siriano ed iraniano agli Hezbollah libanesi, da sempre nemici di Riyad. Anche la Turchia sta dimostrando un certo interesse per quanto accade nella confinante Siria. Asmara ha iniziato a garantire sostegno alla formazione di un’organizzazione armata fondata da disertori dell’Esercito siriano, che inquadra moltissimi dei ribelli contro il regime di damasco (Free Syrian Army – FSA). Sicuramente l’Occidente ha interesse che Assad lasci la guida del Paese per interrompere definitivamente il link Damasco – Teheran e per accelerare l’uscita della Siria dall’alleanza islamica che sta coinvolgendo sempre di più Afghanistan, Pakistan ed Iran. Una realtà che probabilmente inizierà ad ufficializzare le proprie intenzioni in occasione della riunione programmata il 16 e 17 febbraio p.v. ad Islamabd , e che potrebbe condizionare in maniera determinante il futuro di tutta l’area mussulmana del Centro Asia e rappresentare, anche, una minaccia per l’Arabia Saudita e tutti i Paesi del Golfo. Una situazione complessa che va affrontata con provvedimenti mirati e dopo attenta analisi, per evitare che il crollo del regime di Assad dia inizio ad un conflitto regionale, che potrebbe favorire, ancora una volta, l’espansione di forze jihadiste vicine ad Al Qaeda come avvenuto in Libia. Una preoccupazione che sta già coinvolgendo sul piano politico l’Occidente. In particolare gli USA e la Gran Bretagna che, come riferiscono fonti attendibili, stanno affiancando ai ribelli siriani esperti militari, ripetendo l’esperienza libica. Alla stessa stregua, anche, di quanto avvenuto in Afghanistan alla fine degli anni '80 quando l’Occidente appoggiò gli afgani contro l’invasore sovietico con mujahideen inquadrati in "Brigate islamiche" di combattenti arabi. Situazione di cui potrebbe approfittare Al Qaeda perché esperienza già vissuta in Afghanistan dagli attuali capi dell’organizzazione ed origine del consolidamento del movimento guidato da Bin Laden. Iniziative militari che sono accompagnate anche da progetti politici come la nomina nel 2011 dell’Ambasciatore USA a Damasco, Robert S. Ford, già numero due dell'Ambasciata americana a Bagdad dal 2003 al 2005. Diplomatico di grandi capacità che, insieme a Negroponte, ha giocato un ruolo fondamentale nell'operazione "salviamo l'Iraq", interfacciandosi con le forze paramilitari irachene, decisive nella vittoria contro Saddam, e modellate sull'esperienza precedentemente maturata da Robert nel Centro America. Una rappresentanza diplomatica in Siria, perfettamente interfacciata con il Generale David Petraeus, neo Direttore della CIA che, come Comandante del "Multi National Security Transitin Command (MNSTC)" impegnato nel programma "Counterinsurgency" in Iraq, nel 2004 fu il naturale riferimento militare di Robert S. Ford. Anche in Siria, dunque, si stanno imponendo modelli politico / militari già noti e sperimentati in altri Paesi e si continua come in altre occasioni a lasciare spazio ad entità non meglio connotate, ma vicine alle forze quadiste. Unità attestate a ridosso del confine siriano con l’Iraq e la Giordania, che garantiscono alle forze ribelli i rifornimenti che arrivano da Ankara e Ryad. Elementi che se sfuggiranno al controllo, come avvenuto a Kabul all’inizio degli anni ’90, potrebbero rappresentare nel medio termine una nuova minaccia eversiva. Un eventuale intervento militare di una Coalizione internazionale occidentale con lo scopo di stabilizzare l’area che, seppure accettata dalla Lega Araba come avvenuto per la Libia, sarebbe destinata ad incidere negativamente sulla situazione generale, ampliando l'area di conflittualità con il coinvolgimento di tutto il Medio Oriente e dell'Asia Centrale, fino al Mediterraneo. E’ inequivocabile che Assad se ne debba andare, ma è altrettanto vero che è assolutamente necessario evitare gli errori del passato, quando per appoggiare la resistenza afgana contro l'invasore sovietico ed accelerare la caduta del Muro di Berlino, fu lasciato spazio a Bin Laden, che, approfittando della situazione, ebbe vita facile nel consolidare la sua rete terroristica contro l'Occidente. Un processo che probabilmente si è ripetuto in parte in Libia lasciando spazio ad ex esponenti di spicco di Al Qaeda e che se si estendesse anche in Siria potrebbe rappresentare una nuova ed importante minaccia globale. Perché ciò non avvenga devono essere evitate le “alleanze parallele” tipo quella della Gran Bretagna – Francia per la crisi libica e Francia – Turchia che, nel caso specifico della Siria, hanno proposto autonomamente di creare un gruppo di opposizione vicino al popolo siriano, pronto a sostenere l’opposizione sul piano finanziario e umanitario Realtà tipiche del periodo della “Guerra Fredda”, con USA, Francia, Gran Bretagna, Arabia Saudita, Qatar e Turchia pronti a sostenere politicamente e materialmente i ribelli e un’altra parte - l’Iran, gli Hezbollah libanesi, la Russia e forse anche la Cina - impegnata a sostenere il regime di Damasco. Condizioni di estrema labilità che non contribuiscono a creare stabilità nel Medio Oriente, ma che agevolerebbero l’inserimento di forze radicali islamiche, favorite anche dall’insorgenza di vecchi rancori fra i sunniti che in Libano appoggiano il partito al Mustaqbal di Sadd Hariri vicini ai ribelli e gli sciiti Hezbollah fedeli ad Assad. Un terreno fertile perché la jihad radicale ed eversiva si rinvigorisca in un’area strategica, con conseguenze difficilmente prevedibili in particolare per Israele..
Roma 15 febbraio 2012, ore 13.00

domenica 12 febbraio 2012

La neve, l'Esercito e la cattiva informazione

La neve sommerge L'Italia, il paese è di fronte ad una vera e propria calamità naturale e mentre le Istituzioni sono impegnate a soccorrere la popolazione in difficoltà, un manipolo di disinformati disquisiscono in maniera distorta ed artificiosa sugli interventi dell’Esercito e delle Forze Armate chiamate a soccorrere le popolazioni. I militari avrebbero, infatti, anteposto richieste economiche nell’assicurare gli interventi a favore della gente sommersa dalla neve. Cattiva informazione che rasenta una maldicenza che non può essere accettata in quanto offende tutti coloro che in Patria e nei Teatri operativi si sono sempre impegnati e si adoperano a favore degli altri, spesso sacrificando la loro vita. Molti amministratori locali, invece, dimenticando artatamente cosa prevede la contabilità dello Stato e le norme che regolano i concorsi tra le varie Amministrazioni pubbliche, hanno dato in pasto agli organi di informazione notizie distorte e falsate, probabilmente con il fine recondito di gettare le premesse per chiedere successivamente fondi straordinari alle Province. Affermazioni proposte al pubblico da vari organi di informazione senza essere spiegate e che nessuna Prefettura, almeno per quanto noto, ha chiarito né smentito pur essendo l’organo istituzionale deputato a chiedere il concorso con un atto " quasi percettivo". Da quando le Forze Armate esistono, sono sempre intervenute spesso di iniziativa di fronte a pericoli incombenti e comunque immediatamente quando attivate dalle Prefetture che si coordinano con i competenti Comandi Militari. Lo hanno fatto sempre con un minimo di preavviso, applicando procedure consolidate e pianificate prima dell'emergenza per garantire interventi affidabili e con il massimo rapporto di costo / efficacia. Sicuramente senza sottoscrivere contratti preventivi né tantomeno anteponendo richieste economiche. Costi logistici, indennità per il personale, non rappresentano priorità per chi è abituato ad abbandonare il tavolo dove sta cenando con i propri cari per correre in soccorso dei connazionali, in qualsiasi circostanza, sia essa una giornata qualsiasi od un ricorrenza tradizionale o famigliare. Alla stessa stregua di tutti coloro che in circostanze di pericolo operano sul territorio con le Forze Armate, anteponendo gli interessi della collettività a quelli personali. Le Forze dell'Ordine, gli altri Corpi Armati dello Stato, i Vigili del Fuoco, gli operatori di macchine operatrici, tutti i volontari ed i dipendenti pubblici e privati destinati ad impegnarsi per la collettività. Chi ha lamentato di dover sostenere oneri economici per retribuire i militari lo ha fatto in estrema malafede. Non ha chiarito, infatti, il motivo dei costi che non rappresentano la paga di "mercenari" , come qualcuno ha anche lasciato intendere, ma una diaria del tutto simile a quella di un Sindaco o di un funzionario di Prefettura impegnato oltre l'orario di lavoro, in condizioni estreme e fuori dalla sede abituale. Oneri che peraltro sono stabiliti da precisi disposti di legge e regolati nel rispetto di accordi fra i vari Dicasteri e le varie Amministrazioni. A costoro vorrei ricordare che in occasione della tragedia del Vajont, dell'alluvione di Firenze e del Polesine, dei terremoti in Friuli ed in Irpinia, dell'eruzione dell'Etna, della catastrofe di Sarno ed in mille altre situazioni di calamità naturali che hanno colpito il territorio nazionale, i militari sono intervenuti immediatamente, con professionalità ed affidabilità. In molte circostanze, peraltro, le stesse Autorità Locali hanno sentito l’esigenza di affidare ai Comandanti ai vari livelli la gestione ed il coordinamento dei soccorsi al posto di Amministratori locali più preoccupati del ritorno politico piuttosto che dell’efficacia dell’intervento. E’ avvenuto in Friuli, in Irpinia, durante l’eruzione dell’Etna ed in mille altre occasioni forse troppo volte co9nsapevolmente sottaciute da chi doveva invece informare. Uomini con le stellette come quelli che da tre settimane sono impegnati ad agevolare la ricerca dei dispersi della Costa Concordia e che la notte del naufragio della nave sono intervenuti per salvare i naufraghi. Anche per costoro sono previste indennità e rimborsi di costi alle Amministrazioni di appartenenza, ma nessuno, giustamente, ha gridato allo scandalo. Ancora una volta, invece in occasione di un’emergenza, si preferisce scaricare le proprie responsabilità e mascherare le proprie carenze richiamando problemi che non esistono. Una ulteriore dimostrazione di scarso senso dello Stato che sicuramente non ci fa onore. Sarebbe auspicabile, invece, una maggiore riconoscenza per tutti i servitori dello Stato che sono sempre pronti ad impegnarsi per aiutare gli altri, spesso oltre le loro normali attribuzioni. Chi ha il delicato compito di informare ha l’obbligo deontologico di fornire notizie complete proponendo qualsiasi problema ma chiarendone i contenuti e non limitandosi “a lanciare il sasso e nascondere la mano”, parlando o scrivendo ”solo per dire". Alla stessa stregua sarebbe più dignitoso che si avesse rispetto delle persone e delle Istituzioni nel fare facile ironia da avanspettacolo. In particolare chi è convinto di essere l’erede dell’ironia di Petrolini e, modesto menestrello, ironizza sul nulla. Sicuramente nell'emergenza che sta coinvolgendo il Paese l'intervento dei militari è stato chiesto in ritardo rispetto ad eventi simili accaduti nel passato, non perchè si stesse discutendo di costi o retribuzioni, ma, forse, perchè chi doveva decidere ha esitato per errata valutazione. Forse, questo è l’aspetto che potrebbe essere un motivo di approfondimento e discussione, non la sterile polemica su una diaria giornaliera o rimborsi di costo, previsti per legge e non vincolanti l’intervento stesso.

11 febbraio 2012, ore 12.00

venerdì 10 febbraio 2012

Nuove alleanze islamiche emergono sulla scena internazionale

In mie precedenti valutazioni avevo accennato alla nascita di una possibile “Alleanza islamica” in procinto di affacciarsi sulla scena internazionale in seguito alle iniziative del Presidente siriano Assad e della sua intensa attività diplomatica sviluppata nel secondo semestre del 2010 coinvolgendo altri importanti Stati islamici. Qualcosa sta avvenendo e conferma le ipotesi formulate. La Siria sta spostando truppe corazzate nel Golan avvicinandosi pericolosamente ad Israele. “Free Siria Army”, il più importante ed organizzato gruppo di opposizione al Governo di Damasco, di cui fanno parte molti dei militari che hanno disertato in questi 11 mesi di rivolta, riferisce che una componente dell’esercito siriano dislocata normalmente lungo il confine con la Giordania è stata spostata avvicinandosi pericolosamente alle posizioni presidiate da Israele. Manovre militari che preoccupano Tel Aviv che teme che Bashar al-Assad, tenti di oscurare la rivolta siriana attaccando il Paese ebraico. A tale riguardo, come riferiscono varie fonti locali e libanesi, l’esercito israeliano sta incrementando la difesa nell’area aumentando il posizionamento di mine a ridosso del confine con la Siria e sta consolidando la presenza di truppe nell’area. Mentre tutto questo avviene in una delle aree geografiche più a rischio, giunge notizia (Velino/AGV) che il 16 e 17 febbraio siederanno intorno allo stesso tavolo Iran, Afghanistan e Pakistan per il primo “Summit” congiunto dopo gli accordi di cooperazione sottoscritti nel 2010 in occasione degli incontri bilaterali. La notizia è riportata dal quotidiano pachistano Dawn che riferisce un preciso comunicato del ministro degli Esteri pakistano, Abdul Basit. Parteciperanno i presidenti afgano Hamid Karzai, quello iraniano Mahmoud Ahmadinejad e pakistano Asif Ali Zardari, con lo scopo di individuare una linea comune di contrasto alla “lotta al terrorismo ed alla criminalità organizzata, incluso il traffico di droga”. Un meeting improvviso, destinato ad affrontare un’esigenza condivisibile dall’Occidente ma che si svolge inopinatamente ed in un momento particolare e delicato per gli equilibri e la stabilità internazionale. Il Governo di Kabul sta subendo uno stallo nelle trattative con i Talebani e guarda con preoccupazione al ritiro dei Contingenti internazionali dall’Afghanistan. L’Iran non demorde ed accelera lo sviluppo del nucleare. Israele minaccia ritorsioni. La Siria preme sul confine con Tel Aviv, mentre l’Occidente esita nel prendere iniziative contro il massacro della popolazione siriana. Alla riunione non risulta, almeno al momento, che parteciperà Assad troppo impegnato a coordinare la guerra civile. Saranno, però, presenti tutti gli attori principali dello scacchiere Medio Orientale che insieme ad Assad hanno stretto accordi per garantirsi la reciproca assistenza militare contro l’antico nemico ebraico e per fronteggiare le minacce dell’Occidente impegnato a difendere i diritti umani delle popolazioni vessate da tirannie decennali. Un altro messaggio pericoloso per la lotta al terrorismo e la stabilità del mondo e che potrebbe incoraggiare l’azione eversiva delle organizzazioni islamiche radicali insediate nell’Africa subsariana e lungo la fascia mediterranea del Continente.

10 febbraio 2012 – ore 11.00

mercoledì 8 febbraio 2012

L'ONU ed il veto russo e cinese alla risoluzione contro la Siria

Un anno orsono, il 17 marzo 2010, l'ONU votava la risoluzione 1973 per fermare Gheddafi che iniziava a massacrare la sua gente in piazza a Tripoli, a Bengasi ed a Misurata. La Russia e la Cina con l’astensione permettevano di fatto l’intervento NATO contro la Libia, dando inizio ad una "caccia legalizzata" del Rais. L’Occidente tornava in Africa settentrionale e, con un approccio neocoloniale, tentava di accaparrarsi una quota delle risorse energetiche della Libia e di raccogliere il consenso dei ricchi Stati islamici nemici di Gheddafi che durante la primavera araba avevano giocato un ruolo fondamentale con i loro mezzi di comunicazione; prima fra tutti l’emittente televisiva Al Jazeera. A distanza di 11 mesi Russia e Cina hanno posto il veto all'approvazione di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza voluta dalla lega Araba per fermare il Presidente siriano. Assad continua nella repressione che ad oggi ha provocato far il suo popolo più di 5400 morti, fra cui 400 bambini come denunciato dall’UNICEF. Una guerra civile che dura ormai da quasi un anno sotto gli occhi distratti dell’Europa e degli USA e dei disattenti media mussulmani Gli ambasciatori russo e cinese presso l'ONU hanno motivato il loro "niet" con giustificazioni formali, prive di contenuto politico ma sufficienti per offrire a Bashar El Assad l’opportunità di continuare ad infierire contro il suo popolo. Un veto ripetuto nell’arco di sei mesi e che ha riproposto le limitazioni delle Nazioni Unite di fronte a problemi rilevanti di politica internazionale, derivate da vincoli validi nel 1945, anno di fondazione dell’ONU, ma oggi assolutamente penalizzanti ed ingiustificati. Nazioni Unite costrette ad assistere passivamente alle atrocità di Assad, un Presidente che dimostra quotidianamente "il disprezzo per la vita e la dignità degli uomini", come recentemente dichiarato dallo stesso Presidente Obama. La situazione in Siria incancrenisce, la gente muore ad Homs, Hamas, Idiib e Damasco. Le granate di Assad non risparmiano nemmeno gli ospedali ed hanno costretto la Delegazione di osservatori dell’ONU inviati in Siria su iniziativa della Lega Araba, a non poter espletare il loro mandato. Solo un mese di permanenza limitata a pochissime ispezioni, conclusa il 28 gennaio con un report di missione assolutamente insoddisfacente, privo di contenuti concreti e che non ha dato risposta al mandato dato dall’ONU. Assad resiste e continua a massacrare la sua gente convinto che nessuno oserà contraddire l'appoggio dei suoi amici russi e cinesi e quello delle sue alleanze pregresse che il Presidente si era assicurato con un’intensa attività diplomatica svolta in prima persona nell’estate del 2010, a ridosso dell’inizio della primavera araba. Scambi di visite con Kabul, Islamabad, Teheran e Beirut, per sottoscrivere impegni in ambito commerciale e di reciproco aiuto militare. Una "Alleanza Islamica" per difendersi dalla ingerenza occidentale di altri Stati mussulmani vicini agli USA e dello storico nemico sionista. Accordi guardati con sospetto e preoccupazione da Arabia Saudita, Emirati Arabi, Kuwait, Yemen ed Oman che al loro interno assistono ad una crescente affermazione di realtà politiche caratterizzate da un approccio religioso radicale che potrebbero minacciare la sovranità degli Emiri locali, fino ad ora indiscussa. Una realtà che prende sempre più corpo in un contesto in cui si sta sfaldando la coesione internazionale che aveva appoggiato Bush nel contrasto al terrorismo internazionale e per combattere Bin Laden. Una disgregazione accelerata dalla incapacità che l’Europa e gli USA stanno dimostrando nel "leggere" ed interpretare gli eventi per prevenire forme di insorgenza degli estremismi locali, destinate a minacciare ancora una volta la sicurezza internazionale. L’espressione di un Occidente che vacilla sotto i colpi della situazione economica e che esita di fronte ai fatti siriani, al contrario del decisionismo dimostrato nell’azione contro Gheddafi. Un Occidente impegnato a non pregiudicare il flusso dei rifornimenti energetici di cui ha bisogno, provenienti in massima parte da regioni mussulmane a rischio di stabilità. Una realtà da cui traggono vantaggio varie formazioni politiche islamiche di chiara connotazione radicale. I Fratelli Mussulmani ed i salafiti vincitori indiscussi delle elezioni nell'Egitto del post Mubarak, gli Ennahda in Tunisia e le formazioni di Al Qaeda dello Yemen e della Libia pronte ad uscire allo scoperto per conquistare un ruolo nell’area. Realtà che insieme ad Hamas sono impegnate a riaffermare la sharia ed il "diritto religioso" di difendersi dagli ebrei e dai cristiani, anche ricorrendo alla violenza. Aggregazioni politiche oggi ancora sfumate, ma che potrebbero coagularsi traendo stimolo dal veto russo e cinese al Consiglio di Sicurezza dell'ONU e, nello stesso tempo, rappresentare una cassa di risonanza per il ruolo di Mosca e di Pechino nello scacchiere internazionale. Le conseguenze potrebbero essere gravi in un momento in cui l'Iran scalpita per il nucleare e minaccia di chiudere lo stretto di Hormuz bloccando il flusso energetico verso Occidente ed Israele scalda i muscoli alzando il livello di allerta, confermando l'intenzione di colpire militarmente i siti nucleari iraniani. Obama e l’Europa rimangono a guardare. Il primo preoccupato per la prossima campagna elettorale, la seconda ancora una volta priva di connotazione politica unitaria e caratterizzata tuttora da una prevalenza di interessi nazionali piuttosto che collettivi. Di fronte all’evanescenza di chi finora ha giocato un ruolo determinante nella politica internazionale, Assad si propone spavaldamente sullo scenario mondiale, certo dell’appoggio cinese e russo e di quello degli amici islamici del Centro Asia e del Mediterraneo Orientale. In Siria si continua a morire, mentre chi appoggia Assad denuncia un complotto esterno di matrice sionista ed americana, aiutato dall’Europa e dalla Turchia. Gli avvenimenti siriani si sovrappongono ai risultati elettorali egiziani e tunisini ed alla situazione non chiara della Libia del post Gheddafi. Fatti che non contribuiscono a garantire la sicurezza internazionale reduce dall’11 settembre. Prevederne gli esiti non è semplice, ma è assolutamente certo che la inconsistenza di una politica estera europea univoca e credibile e un’altalenante approccio americano non favoriscono la situazione. L’Occidente sta vivendo una fase di declino dalla quale deve cercare di uscire immediatamente, riproponendosi come una nuova realtà in cui l’Europa, per posizione geografica e culturale, ne rappresenti il “cuore”, con una visione allargata alla Russia ed ad una Turchia più europea che ottomana. Condizioni essenziali per la futura stabilità internazionale, in grado di bilanciare il ruolo della Cina e per rivalutare la geopolitica classica che ancora rappresenta un importantissimo modello, in particolare dell’Asia orientale. Condizioni che se non rapidamente raggiunte potrebbero compromettere la stabilità mondiale mettendo a dura prova le democrazie liberali afflitte dalla crisi economica e che, invece, hanno assoluto bisogno di essere rivitalizzate. Ritardando, potrebbero crearsi momenti non favorevoli per il Vecchio Continente con ricadute negative su tutto il processo di stabilizzazione mondiale. Un’Europa dipendente dalle risorse energetiche prodotte dai Paesi islamici, compressa dall'ex Unione Sovietica, dai Paesi emergenti dell'Africa islamica mediterranea e da un Medio Oriente sempre più orientato ad avvicinarsi alla componente più radicale delle realtà islamiche.
8 febbraio 2012 – ore 13.00

giovedì 2 febbraio 2012

Libia, un dopoguerra incerto come quello afgano degli anni ‘90

La fase iniziale del periodo post bellico della Libia ricorda ciò che è avvenuto in Afghanistan subito dopo la fine dell’invasione sovietica. Immediatamente iniziarono feroci contrasti interni con protagoniste le realtà tribali che avevano partecipato alla resistenza contro i sovietici, aiutate nell’azione militare da tutto l’Occidente ed in particolare dagli USA. Una lotta che coinvolgeva i sette principali clan locali, eredi di antiche tradizioni, che potevano fare affidamento su un consistente numero di armi e materiale bellico abbandonato sul terreno dai sovietici in fuga. Instabilità che avrebbe favorito nel breve periodo l’insediamento dei Talebani a Kabul e quello di Al Qaeda e Bin Laden nelle zone confinarie a ridosso del Pakistan. Complice la CIA americana e l’Intelligence pakistana (ISI) ancora oggi protagonista nel favorire ogni possibile inserimento degli studenti islamici nella politica afgana ed in quella pakistana. A distanza di 20 anni, una realtà culturale e territoriale completamente diversa da quella afgana, si accinge a vivere simili momenti. In Libia, subito dopo l’uccisione di Gheddafi le diverse realtà tribali hanno iniziato, infatti, a rivendicare i loro ruoli ed i loro diritti. Pretese prevedibili in un Paese dove il concetto di tribù è stato sempre un elemento chiave della cultura e delle tradizioni della Nazione. Una situazione favorita dalla inconsistenza dell’autorità politica del Consiglio Nazionale di Transizione (CNT) affidato ad Abdel Rahimel Kib che sempre di più dimostra scarsa affidabilità ed incapacità a garantire condizioni minime di stabilizzazione, essenziali per una Nazione emergente da una lunga guerra e che vuole libere elezioni dopo quaranta anni di dittatura. Qualsiasi ultimatum del CNT viene disatteso. Nessuno consegna le armi e le diverse milizie protagoniste della ribellione continuano a fronteggiarsi per la spartizione del territorio. In particolare gli appartenenti alla tribù dei Warfalla, vicina al deposto Rais, che si sta consolidando a Bani Walid, ultima roccaforte del vecchio regime. Anche i diritti umani sono minacciati. Giorno dopo giorno arrivano notizie di episodi di tortura che stanno dilagando nel Paese, denunciati dalle stesse Nazioni Unite e da tutte le Organizzazioni umanitarie impegnate ad aiutare la popolazione. Preoccupa Abdel Hakim Bellhady, noto ex quaedista molto vicino a Bin Laden, ora Comandante militare della piazza di Tripoli dove sono ammassati 8000 prigionieri ai quali, come denunciano le ONG, viene negato qualsiasi diritto, a partire dall’assistenza legale. Molti esponenti del CNT iniziano a riallacciare relazioni con esponenti di spicco del vecchio regime e sono accusati di episodi di malversazione e di cattiva gestione delle risorse economiche. Una situazione fluida, permeata dall’invasione di una pletora di delegazioni diplomatiche straniere, che giornalmente si sovrappongono per stringere rapporti commerciali con il CNT, confermare i vecchi contratti e sottoscriverne di nuovi. Primi fra tutti gli Emirati Arabi che pretendono di investire in Libia nel rispetto di quanto pattuito con l’Occidente guerra durante. Paesi del Golfo proprietari di importanti organi di comunicazione che hanno esercitato un ruolo primario sulle vicende libiche e durante la primavera araba. Prima fra tutti l’emittente televisiva Al Jazira di proprietà dell’Emiro del Qatar. A Tripoli non cessano gli scontri fra le diverse fazioni armate, segnali preoccupanti di un possibile inizio di guerra civile. I tempi della riconciliazione si allontanano sempre di più, mentre fioriscono nuovi movimenti politici. Gruppi religiosi estremistici, nostalgiche aggregazioni monarchiche, entità tribali e regionali non meglio definite, realtà che potrebbero avere un ruolo politico importantissimo per il futuro del Paese. Gruppi che chiedono il ritorno della monarchia senussita sconfitta dal colpo di Stato di Gheddafi del 1 settembre 1969 ed altri che, invece, auspicano l’indipendenza della Cirenaica. Organizzazioni vicine ai Fratelli Mussulmani ed ai salafiti si stanno concentrando in aree orientali del Paese, a Derna, ad Al Bayaala e nelle zone del Gebel Ardan, un tempo fonte di reclutamento di Al Qaeda. L’attuale realtà libica, quindi, ripropone antiche situazioni afgane quando gli USA principali sostenitori dei mujahidin afgani, lasciarono campo libero al giovane Bin Laden protagonista della resistenza contro i sovietici facilitando, di fatto, la nascita della struttura terroristica che avrebbe portato all’11 settembre. Anche in Libia stanno emergendo le conseguenze dei vecchi interessi statunitensi, quando gli USA – come riferito recentemente dal Wall Street Journal – contribuirono al consolidamento fra le montagne della Cirenaica di vecchi combattenti afgani impegnati nella destabilizzazione di Gheddafi e che sarebbero diventati il nocciolo duro della presenza di Al Qaeda nel Paese. Il consolidamento politico di queste forze nella nuova struttura dirigente libica potrebbe contribuire all’affermazione di strutture radicali difficilmente gestibili. Un esempio fra tutti i miliziani Tuareg che hanno combattuto a fianco di Gheddafi e che potrebbero attivare un’eversione sistematica contro chi ha contribuito ad estromettere il Rais. Ribelli che hanno già fondato un “Movimento Nazionale di Liberazione dell’Azawed” (MNLA), regione libica a ridosso dei confini con il Mali, da sempre naturale rifugio dei predoni libici di etnia Tuareg. Lo MNLA potrebbe trasformarsi rapidamente nell’Al Qaeda del terzo millennio, alleandosi con le cellule eversive del Maghreb algerino (AQMI), con l’organizzazione Boko Haram emergente in Nigeria e con i gruppi islamisti appartenenti agli al-Shabaab . Il governo transitorio esita di fronte a queste pericolose realtà emergenti e sopravvive gestendo un fragilissimo equilibrio tra le sue diverse componenti. Una parte consistente e la più forte, rappresentata dai nazionalisti, ex uomini di Gheddafi che hanno abbandonato il Rais all’inizio della rivolta e che, ora, insieme ai fondamentalisti si stanno appropriando della componente laica della Libia islamica. Altre formazioni che aggregano progressisti, monarchici e militari, caratterizzate da una modesta valenza politica. Una realtà post bellica che rispecchia quanto avvenuto durante la rivolta contro Gheddafi che ha visto protagonisti oltre alle milizie organizzate anche bande armate, più esperte in atti di banditismo che in azioni tattiche. Un dopoguerra che vede la prevalenza di estremismi politici che, alla stessa stregua di quanto avvenuto in Afghanistan, potrebbero lasciare spazio a strutture malavitose collegate con le organizzazioni eversive, pronte ad impossessarsi della gestione del commercio della droga e dei disperati che tentano di sfuggire alla povertà ed alle dittature africane. Tripoli e Kabul due realtà culturali, tradizionali, epocali e territoriali assolutamente diverse, ma ambedue terreno fertile per un possibile consolidamento di forze estremistiche che nel futuro potrebbero rappresentare la nuova minaccia per la comunità internazionale. Situazioni molto simili in due Paesi lontani. L’Afghanistan terra di pastori e crocevia di importantissime direttrici strategiche del Centro Asia, essenziali per le economie occidentali. La Libia, fondamentale risorsa energetica per il mondo intero, proiettata sulle rive del Mediterraneo a ridosso dei confini meridionali dell’Europa. Regioni geografiche di importanza cruciale per gli equilibri mondiali, che non possono essere lasciate preda del ricatto dell’eversione terroristica, abbandonando le popolazioni nelle mani di criminali o di propugnatori del fanatismo radicale islamico. E’ essenziale invece, che le diplomazie internazionali si impegnino oltre che a sottoscrivere contratti, a collaborare con il Governo locale perché siano abbandonati gli interessi tribali per favorire l’affermazione delle democrazie liberali a cui quei popoli auspicano, unica garanzia per la stabilità e la crescita economica del mondo. In caso contrario si corre il rischio che in Libia, come avvenuto in Afghanistan, inizi un periodo buio e destabilizzante, quello della guerra civile, con conseguenze difficilmente prevedibili. .
2 febbraio 2012 – ore 09,30