giovedì 26 febbraio 2015

Libia ed il ruolo dell'Italia nel Mediterraneo

 In un recente articolo del 23 febbraio ci siamo posti interrogativi sulla importanza  geopolitica della Libia, area geografica critica sulle sponde meridionali del Mediterraneo.

Un'analisi attenta ed approfondita sviluppata dal  dott.  Alessandro Vivaldi (www.cronachegeoculturali.eu), che attraverso valutazioni incrociate sulla situazione geopolitica dell'area mediterranea e globale, ha affrontato  il problema su chi manderemo in Libia con lo scopo di stabilizzare una Nazione ormai alla  deriva.

Un'interrogativo che ancora una volta nella storia ha una sola e ripetitiva conclusione : saranno i nostri militari, cittadini che hanno scelto di indossare la divisa per garantire la sicurezza nazionale e concorrere a quella globale e non per "soldi" come molti "italioti" sono usi ripetere nelle più svariate occasioni.

Vivaldi scrive "non possiamo esimerci dal mandare i nostri ragazzi in Libia: è un nostro dovere, è una nostra chance, è una nostra storica vocazione geopolitica" . Ma se proprio dobbiamo farlo, facciamolo con la cultura giusta. Non vedremo Scud dello Stato Islamico su Lampedusa. Questo però non toglie che il nemico è alle porte, e il tempo delle missioni di pace è finito. Ora si tratta di fare la guerra, quella vera, quella in cui chi conosciamo va a morire. Se dobbiamo mandare i nostri ragazzi laggiù, allora dobbiamo cambiare la nostra cultura ed inviarli li con il giusto supporto: con il supporto degli italiani, con lamore delle proprie famiglie e non ultimo con le giuste regole dingaggio".

Oggi, il dott Vivaldi completa il proprio pensiero affrontando  quello che da sempre ha rappresentato il "nodo gordiano",  quando si è chiamati ad operare in un altro Paese ed in contesti sociali assolutamente differenti dai nostri. Un problema di intricatissima soluzione, che potrebbe  essere risolto alla maniera di Alessandro Magno a cui si richiama l'espressione,  con un brutale taglio.

Soluzione drastica che la cultura moderna non può accettare come unica e risolutiva ma che deve accettare in particolari momenti quando la situazione lo impone. In Libia forse è giunto il momento e l'evidenza non può essere ignorata restituendo all'Italia il fondamentale ruolo geopolitico che ha sempre avuto nel Mediterraneo. Una realtà difficile che non può essere affrontata con l'intendimento di esportare democrazia o, peggio, rendendo preminenti gli interessi economici sopra ogni cosa. Piuttosto, impegnando  la tradizionale capacità che l'Italia ha sempre avuto "di stabilizzare unarea socio politicamente parlando, arginando de facto quella che si preannuncia la peggior catastrofe umanitaria sui confini europei dalle guerre balcaniche in poi", come sapientemente evidenzia il dott. Alessandro Vivaldi.

Fernando Termentini, 26 febbraio 2015 - ore 11,30

 
 

Andiamo in Libia. Con quale cultura?

  dott. Alessandro Vivaldi.

Lintervento in Libia è oramai una certezza, si tratta solo di deciderne i tempi: la soluzione diplomatica non ci esenterà dal mandare in futuro addestratori, truppe sul terreno e quantaltro Lo hanno capito Gentiloni, Pinotti e perfino Renzi, checché ne dica. Lo hanno capito tardi, tuttavia. Chi davvero ha qualche idea di geopolitica, in Italia, lo ha capito sin dal 2011, quando ha ritenuto fin troppo avventato lintervento franco americano, e lo ha ribadito negli ultimi mesi. Tra questi, sicuramente, anche gli analisti dei nostri Servizi, sempre troppo poco ascoltati. Non lo ha capito una classe politica che tratta tanto la politica estera quanto le Forze Armate come meri terreni di conquista elettorale, dimostrando una incompetenza bipartisan in entrambi i campi, che spiega bene lassenza italiana al summit di Minsk.

Chi ha un minimo di competenza geopolitica sa che la Libia è una questione da Mare Nostrum, dove tale locuzione latina non è da associarsi alloperazione per la salvaguardia degli immigrati, ma al suo originario significato in cui Roma, oggi lItalia, assurge a potenza geopolitica dellarea mediterranea. Duplice è la vocazione geopolitica nostrana e duplice è la situazione di difficoltà in cui ci troviamo: da una parte, i nostri storici legami con Mosca e i suoi alleati balcanici (Serbia in primis, ma anche Albania prima e dopo la storica rottura di epoca sovietica), ora inficiati economicamente dalle sanzioni che gli statunitensi ci hanno imposto nei confronti di Putin. Dallaltra, i nostri legami anchessi storici con i partner mediterranei, che da sempre includono zone come la Siria, il Libano, lEgitto, la Libia, la Tunisia. Tutti paesi in cui la pesante mano statunitense è arrivata in maniera distruttiva, inficiando le possibilità geopolitiche del nostro paese, anche e soprattutto come hub energetico europeo. Russia e Libia sono ad oggi tra i maggiori (se non I maggiori) fornitori energetici nostrani, e sono fornitori che rischiamo di perdere. Questo è bene spiegarlo agli italiani, che ancora soffrono troppo di soft power hollywoodiano e che pensano ad Obama e ai diritti umani come unico valore importante. Le sanzioni alla Russia e lanarchia in Libia ci danneggiano economicamente: questo agli italiani deve essere chiaro. Come deve essere chiaro che la politica italiana nellarea mediterranea è un perno fondamentale per far girare la ripresa economica: significa sviluppare nuovi mercati, nuovi scambi, nuove possibilità per le nostre imprese (grandi, medie e piccole).

Come tutte le crisi, quella libica rappresenta per lItalia anche una chance. Innanzi tutto, la chance di dimostrarsi una nazione responsabile che aiuta gli altri paesi, con i quali ha un legame storico. È dovere dellItalia far sì che nella sua area di influenza si creino le condizioni per la crescita degli stati partner, crescita che sia compatibile con la cultura autoctona (concetto questo che era ampiamente chiaro al lungimirante Enrico Mattei e che non sarà mai chiaro agli americani). È una chance italiana ed europea per dimostrare per la prima volta sul campo la capacità di controllo dei confini e stabilizzazione delle aree attigue, attività che denoterebbe finalmente la capacità della UE di agire come reale soggetto politico, oltre che meramente economico. Ed è una chance italiana per dimostrare che non è solo leconomia a rendere uno stato globalmente importante, ma anche e soprattutto la sua capacità di stabilizzare unarea socio politicamente parlando, arginando de facto quella che si preannuncia la peggior catastrofe umanitaria sui confini europei dalle guerre balcaniche in poi.

Queste sono le idee con cui dobbiamo preparare politicamente un intervento in Libia. Un intervento che però sul terreno verrà fatto dai nostri ragazzi in divisa, questo è e rimane un dato di fatto.

Alessandro Vivaldi

 

Postato da Fernando Termentini, il 26 febbraio 2015. L'articolo del dott. Vivaldi è stato pubblicato ieri su "Difesaonline" (http://www.difesaonline.it/index.php/it/28-notizie/lettere-al-direttore/2652-andiamo-in-libia-con-quale-cultura)

lunedì 23 febbraio 2015

LIBIA : un’area geografica critica sulle sponde meridionali del Mediterraneo


Tutti tornano a parlare di Libia fornendo le più disparate analisi e valutazioni su un  problema ancora una volta rappresentato come qualcosa di imprevedibile e che, invece, è l’espressione finale di un “prodotto” della Primavera Araba,  gestito male dall’Occidente preoccupato a cacciare i dittatori ma non preparato a sostituirli.

Alessandro Vivaldi laureato in Antropologia Culturale e laureato magistrale in Studi storico, religiosi ed antropologici  si pone e ci propone un interrogativo su quale potrebbe essere e se ci sia una possibile soluzione politica del dramma Libia, approccio che necessariamente dovrà essere accompagnato da un intervento militare sul terreno che sicuramente non sarà né semplice né breve.

Un’analisi che merita di essere letta forse per comprendere una volta per tutte  quali impegni potrebbero aspettare i nostri militari troppo spesso e troppo affrettatamente dipinti come qualcosa di avulso dalla realtà sociale della Nazione, ottusi e crudeli esecutori di ordini. Dimenticando invece cosa i nostri soldati, marinai ed avieri abbiano garantito nel corso degli anni, dal dopo guerra ad oggi,  la sicurezza globale necessaria perché nel mondo la democrazia sia espressione convinta delle società e non qualcosa di esportato da altri.

Il  dott. Vivaldi è consulente di Coreporate Securitry & Intelliugence per il gruppo Agatos Syntagma  cura anche un interessante blog :

www.cronachegeoculturali.eu

Fernando Termentini 23 feb 2015

 
Chi manderemo in Libia?

 
Dott. Alessandro Vivaldi

L’eventuale soluzione politica del dramma chiamato Libia non ci esenterà dall’inviare in un futuro (neanche troppo remoto) delle truppe sul terreno, indifferentemente che siano allineate sul modello UNIFIL/KFOR o sul modello ISAF. Sorge quindi un interrogativo: con quale faccia andiamo a chiedere ai nostri ragazzi di andare in Libia ad arginare una situazione di totale anarchia, che favoreggia il radicalismo islamico, pronto a tagliare teste di ogni prigioniero fatto, e quindi ben più feroce dei talebani afghani?

Con la faccia di un paese che nell’ultimo mezzo secolo ha visto buona parte della cultura denigrare ogni tipo di divisa, in particolar modo quella dell’Esercito. Un paese che vede di buon occhio i Gino Strada che si vergonano di essere italiani, un paese che è pronto a scaricare ogni colpa sulle divise (dalle problematiche di ordine pubblico alle più becere accuse politiche), che ha snobbato ogni tentativo culturale di avvicinare il grande pubblico alle divise (penso a El Alamein, la linea del fuoco, a Torneranno i prati, ma anche alla produzione Sky Reduci), che ha sempre dipinto i nostri militari come ottusi cani da guardia del potere, assassini che meritano la condanna prima ancora del processo (non mi interessa qui discutere del caso dei fucilieri di Marina, in quanto è dominio di diritto internazionale: mi preme solo sottolineare come esso sia diventato un mero campo di propaganda politica in cui le sinistre, parlamentari e non, insieme alle classi intellettuali attigue, si sono impegnate costantemente in un processo di demonizzazione contrario ai principi del diritto italiano, in cui si è innocenti fino a prova contraria), mercenari incapaci di vivere nella vita civile, padri incompetenti e tiranni, raccomandati e quant’altro.

Certo, le nostre FF.AA. non sono esenti da problematiche e difetti, come tutto l’apparato o meglio il Sistema Paese. Ciò non toglie che buona parte dello stesso paese che fino a ieri li ha snobbati, domani chiederà ai nostri ragazzi di andare a proteggere gli interessi di ogni famiglia italiana in un posto dove c’è chi non vede l’ora di tagliargli la testa o peggio, di bruciarli vivi. Si, perché checché ne dicano i Gino Strada, è bene spiegare agli italiani che l’anarchia in Libia equivale a ulteriori salassi in bolletta e una crisi economica peggiore di quella attuale. Ovviamente questa è una visione semplicistica, ma agli italiani interessa sapere solo cosa costerà loro un avvenimento estero. Agli italiani interessa sapere – a causa della cultura che un’inetta classe politica ha diffuso nell’ultimo ventennio – quanti aperitivi in meno a Ponte Milvio costerà loro l’anarchia in un paese a 200 miglia marine da noi.

Per salvaguardare ben più che la pancia degli italiani, manderemo i nostri ragazzi in Libia. Non ci costerà soltanto soldi aiutare i nostri vicini mediterranei. Ci costerà vite umane. Non ci costerà solo il sacrificio e l’abnegazione di chi manderemo (numero che va moltiplicato per le turnazioni in teatro, particolare spesso omesso).. All’abnegazione e al sacrificio di questi uomini e donne si aggiungono il sacrificio e l’abnegazione delle famiglie che includono madri, mogli, figli, fratelli. Un sacrificio che il 95% degli italiani non conosce ma che conosce fin troppo bene chi nelle FF.AA. ci ha vissuto e convissuto.

Una nazione civile si vede innanzi tutto dalla capacità di sacralizzare il sacrificio di chi la rende tale ogni giorno, al di fuori sia della vuota retorica patriottarda che della demonizzazione sinistrorsa da centro sociale o da fanatici dei diritti umani.

Domani manderemo sicuramente i nostri ragazzi a morire in Libia. Perché è loro dovere, e non mancheranno di servire lo Stato come ognuno di loro ha giurato. Qualcuno dirà che vanno per soldi. Quel qualcuno però non è partito volontario giurando fedeltà. Quel qualcuno non vive nella costante consapevolezza che un proprio caro può tornare in una bara avvolta in un tricolore che assicura che il resto del paese si dimenticherà del sacrificio fatto in due giorni circa. Quel qualcuno non è andato in Namibia, in Albania, in Mozambico, ad Haiti, in Kuwait, in Kosovo e altrove a portare aiuti umanitari o a sminare campi dove saltavano in aria i civili, morendo per questo. Ma si parte comunque, attaccandosi alla propria piastrina, scacciando dalla mente l’idea che il proprio paese, spinto da una cultura sbagliata, spesso si dimenticherà del sacrificio fatto, o addirittura lo condannerà.

Domani chiederemo a migliaia di famiglie di spaccarsi per l’ennesima volta, e di vivere un’ansia che a volte a fatica si tiene fuori dalla propria quotidianità. Lo faremo nel nome della Res Publica, cioè di un bene comune. A questo bene comune, i nostri ragazzi in divisa partecipano con il sacrificio e l’abnegazione. Il 98% dei loro coetanei, partecipa bevendo aperitivi a Ponte Milvio o scrivendo 140 caratteri di disprezzo su Twitter nei confronti di quei loro coetanei che proteggono il loro diritto e la loro possibilità economica di bere aperitivi a Ponte Milvio.

La colpa di tale disprezzo non è però solo loro. È in primis di una classe politica e di una classe intellettuale che ha riversato disprezzo sulle nostre FF.AA. finché gli è tornato comodo e finché non si è accorta che comunque avevano un voto da esprimere alle elezioni.

Non possiamo esimerci dal mandare i nostri ragazzi in Libia: è un nostro dovere, è una nostra chance, è una nostra storica vocazione geopolitica.

Ma se proprio dobbiamo farlo, facciamolo con la cultura giusta. Non vedremo Scud dello Stato Islamico su Lampedusa. Questo però non toglie che il nemico è alle porte, e il tempo delle missioni di pace è finito. Ora si tratta di fare la guerra, quella vera, quella in cui chi conosciamo va a morire. Se dobbiamo mandare i nostri ragazzi laggiù, allora dobbiamo cambiare la nostra cultura ed inviarli li con il giusto supporto: con il supporto degli italiani, con l’amore delle proprie famiglie e non ultimo con le giuste regole d’ingaggio.

Alessandro Vivaldi

LIBIA, allarme per possibili armi chimiche

Sulla scia emotiva della minaccia dellISIS si  ritorna a parlare di possibili aggressivi chimici sottratti dai depositi di Gheddafi sparsi nel deserto della Libia e parte integrante dell'arsenale di Gheddafi.

Una minaccia di cui già parlammo in precedenti analisi fin dal 2011 (http://fernandotermentini.blogspot.it/2011/09/allarme-in-libia-per-possibili-armi.html e http://fernandotermentini.blogspot.it/2011/10/residui-nucleari-e-gas-letali-in-libia.html) quando  fonti affidabili riportavano che durante la guerra civile libica, armi chimiche erano  state trafugate da arsenali del regime di Muammar Gheddafi, che erano dislocati nelle  province centrali e meridionali della Libia.

In quel momento se ne appropriarono le "milizie" avversarie dell'esercito regolare libico come riportato sul sito di Asharq Al-Awsat, autorevole quotidiano panarabo con Sede a Londra. Il quantitativo trafugato in  quel momento non era quantificato , ma fonti  militari libiche già da allora riferivano al quotidiano filo-saudita che in Libia esistevano  armi chimiche nascoste  in luoghi noti alle milizie lealiste ed anche ai ribelli vicini ai nuclei di Al Qaeda insediati in Cirenaica che, durante la guerra civile,  se ne erano impossessate insieme a tonnellate di armamento convenzionale rivenduto poi a ribelli siriani.

Arsenali segreti, sepolti nel deserto libico, che potrebbero ora diventare preda dellISIS come, peraltro, sembra già stia avvenendo secondo fonti di stampa accreditate. Materiale che potrebbe essere utilizzato sia per attacchi su larga scala sia in attentati convenzionali utilizzando IED (Improvised Explosive Device) sporchi.

Aggressivi a suo tempo realizzati nelle fabbriche farmaceutiche opportunamente dislocate da Gheddafi immediatamente a ridosso con il Tchiad e che producevano, in particolare, iprite e gas nervino Sarin.

Parte di questo materiale  (Iprite)  è già entrato nelle disponibilità dellISIS sempre come riferisce  il molto informato quotidiano Asharq Al-Awsat, trafugato da un deposito situato nel deserto del distretto di Jufra a circa 600 chilometri a sud di Tripoli ed, ora,  probabilmente  trasferito a Misurata.

L'ISIS minaccia e si avvicina a Tripoli mentre lOccidente continua a prendere tempo discutendo sulle possibili iniziative da prendere ed in Libia la situazione lievita consentendo alle truppe del Califfato di appropriarsi del pingue arsenale di Gheddafi ancora presente nel Paese, compresi gli aggressivi chimici ancora nascosti nel deserto libico e sicuramente noti ai beduini  delle tribù della Cirenaica da sempre vicine all'estremismo eversivo di Al Qaeda. 

Un pericolo reale come lo stesso Consiglio Nazionale di transizione della Libia denunciava fin dai primi giorni della rivolta. E certo, infatti, che Gheddafi abbia fatto produrre e nascondere tonnellate di gas tossici in una fabbrica a Rabat, a sud ovest di Tripoli, confermando un'ipotesi che gli USA avevano formulato fin dal 1988 .

Quantitativi in parte distrutti da Gheddafi, ma di cui dovrebbe ancora esistere una certa disponibilità nascosta probabilmente in depositi affidati alla custodia di Tribù una volta vicine al regime, come i Khadafa ed i Magarha,  alleati dei Tuareg e concentrati nellarea nord occidentale della Libia.

Con altrettanta buona certezza, quindi,  nel deserto libico ci sono ancora decine di  depositi militari abbandonati, nei quali potrebbero essere conservati agenti tossici non distrutti dal regime libico entro il  2010, come previsto dagli accordi internazionali. Materiale che potrebbe essere già nelle disponibilità delle cellule di Al Qaeda presenti nel Mali e collegate a quelle operative nel Magreb, ormai sicuramente entrate a far parte dell'Esercito combattente dellISIS che avanza verso il nord del Paese verso i confini della Tunisia. 

Non soltanto sostanze chimiche, ma anche materiale radioattivo già segnalato il 23  settembre del 2011 da forze rivoluzionare libiche che lo avevano rinvenuto a Sabha, a circa 750 chilometri da Tripoli. Centinaia di fusti con sostanze radioattive e sacchi di plastica gialla. Notizia che riscontrava quanto già noto all'Agenzia Atomica (AIEA) sullesistenza in Libia di depositi di materiale  nucleare,  anche se non ne era  conosciuta l'esatta natura e consistenza rispetto a quanto dichiarato a suo tempo da Gheddafi.

A Sabha, inoltre, furono trovati immagazzinati centinaia di proiettili contenenti iprite fabbricati in Corea insieme   a bidoni e sacchi sigillati con nastro adesivo con riportate scritte solo in inglese e senza nessuna notazione in arabo. Nelle sacche di plastica una polvere gialla come pubblicato in un sito di Internet (http://www.vip.it/libia-trovate-tonnellate-di-scorie-nucleari-a-sehba-tripoli-e-sirte-video). Materiale che con ogni probabilità potrebbe essere "yeollowcake" (torta gialla), scoria dei processi di purificazione dei  minerali che contengono uranio. In sintesi, ossidi di uranio (biossido e triossido) con scarsa valenza radioattiva, ma molto tossici se ingeriti o inalati.

Durante la guerra vennero  individuati  oltre al deposito di Sabha, anche altri  nascondigli come confermato dall'Istituto di Studi Strategici di Londra. Scorie radioattive provenienti dalla vecchia centrale di Tajoura ubicata nella periferia di  Tripoli e materiale chimico altamente letale, che, come denunciato da Lynn Pascoe, Capo ufficio politico dell'ONU, rappresentava la rimanenza di quanto non distrutto da  Gheddafi nonostante che nel 2003 avesse aderito agli accordi internazionali sulluso di armi chimiche.

Gheddafi è  stato frettolosamente trucidato. Con la sua morte è diventato tombale il segreto su dove poteva essere nascosto il materiale nucleare e chimico e, soprattutto, chi nel tempo aveva fornito alla Libia le necessarie materie prime e le tecnologie per trattare luranio e fabbricare gas letali. Anche l'archivio del Rais trovato nel bunker di Tripoli sicuramente non potrà fornire notizie utili nello specifico, in quanto ormai abbondantemente epurato nei molteplici passaggi di mano dal momento del ritrovamento. 

LISIS sta dilagando nel Paese sicuramente aiutato da ex combattenti di  Al Qaeda che  conoscono bene il territorio e sanno esattamente dove attingere per appropriarsi di materiale non convenzionale sia chimico sia nucleare. Gas e scorie nucleari che rappresentano un'appetibile risorsa  per scopi eversivi qualora qualcuno intendesse effettuare attentati terroristici "sporchi" e, nello stesso tempo,  rappresentare una consistente risorsa economica, se immessi sul mercato clandestino degli armamenti.

Una minaccia che non può essere né sottaciuta né sottovalutata, ma deve rappresentare oggetto di attenta analisi da parte nelle Nazioni Unite che si accingono a prendere decisioni per affrontare e debellare la minaccia dellISIS.

Fernando Termentini, 23 febbraio 2015, ore 08,00

lunedì 16 febbraio 2015

URANIO IMPOVERITO: VEDIAMO DI FARE UN PO’ DI CHIAREZZA

Da anni, anche recentemente, in molti si parla di Uranio Impoverito affrontando le tematiche più diverse,  spesso estremizzando i concetti e proponendo realtà non congrue con l’effettiva natura e pericolosità del materiale. La Comunità internazionale da tempo si interessa del problema approcciandolo  su larga scala (http://www.fernandotermentini.it/DOCUMENTI%20SITO%20DU/Indice%20documenti.htm, http://www.fernandotermentini.it/VSD2013.PDF)   e cercando di fornire ogni possibile informazione che aiuti a capire su basi reali l’effettiva natura di quella che potremmo chiamare uno dei pericoli di una guerra moderna. .

Il  Dott. Stefano Montanari, dal 2004 alla direzione scientifica del laboratorio Nanodiagnostics di Modena, esperto e preparato ricercatore apprezzato in campo internazionale e nazionale, ci propone il suo pensiero “scientifico” sull’argomento,  affrontandolo con l’ottica di uno scienziato profondo conoscitore delle nanopatologie, soprattutto per quanto attiene alle fonti inquinanti da polveri ultrafini e si occupa da un decennio insieme alla moglie la dott.ssa Antonietta Gatti di ricerche nel campo napatologico ed ambientale.  
 Ospito in questo blog il Suo articolo con estremo piacere (il Dott.  Montanari gestisce comunque un proprio blog che merita di essere visitato www.stefanomontanari.net) con la speranza di poter amplificare il più possibile l'informazione su una tematica della massima importanza e per offrire spunti di meditazione che aiutino a fugare qualsiasi dubbio che ancora sussiste sulla pericolosità del materiale. Un’iniziativa intesa anche per tenere alta l’attenzione su una realtà troppe volte oscurata da interessi non meglio definiti ed in qualche modo concorrere ad aiutare anche  coloro - militari e civili - vittime degli effetti del DU ma che ancora devono lottare perché il danno subito sia riconosciuto dallo Stato.

Un pensiero quello espresso in maniera semplice e chiara dal dott. Montanari,  che si va ad aggiungere alle iniziative in corso portate avanti dalla Campagna Internazionale per la messa a bando delle armi all’Uranio Impoverito. (http://www.bandepleteduranium.org/).

Fernando Termentini, 16 feb. 2015, ore 09,00


URANIO IMPOVERITO: VEDIAMO DI FARE UN PO’ DI CHIAREZZA

dott. Stefano Montanari – Laboratorio Nanodiagnostics – Modena
Sull’uranio impoverito io sono impegnato insieme con mia moglie, la dott.ssa Antonietta Gatti, da oltre dieci anni. Tutto sommato, per chi non debba lavorarci in maniera specialistica, l’argomento non presenta particolari difficoltà di comprensione. Eppure pare si faccia di tutto per rendere nebuloso un tema che nebuloso non è affatto.

Dopo averne detto e scritto innumerevoli volte, evidentemente senza risultato apprezzabile, vedrò di essere quanto più semplice possibile, sperando di fare breccia anche nei cervelli più impervi.
Nel corso delle guerre combattute nei Balcani e in quelle intorno ai pozzi di petrolio del Medio Oriente non era affatto insolito assistere al ritorno di militari che presentavano una collezione di sintomi che, allo stato della Medicina di allora, in associazione reciproca risultavano ben poco comprensibili quando non del tutto misteriosi. Spesso nello stesso soggetto si presentavano insieme irritabilità fino all’aggressività, insonnia, perdita di memoria a breve termine, dolori nella minzione e nell’eiaculazione, sudorazione profusa soprattutto di notte, spossatezza e, dulcis in fundo, cancri. Cancri al plurale perché di quelli ne compariva una varietà ragguardevole, anche se i casi a carico del sistema linfatico e del sangue erano i più frequenti. Ora vediamo anche cancri tripli, cioè tre tipi diversi di tumori presenti contemporaneamente nello stesso soggetto. Il tutto iniziava  e inizia quasi di regola con un po’ di febbre e, magari, un po’ di diarrea che vengono catalogate come segni di un’influenza ed non vengono presi in considerazione nemmeno dal paziente.
Nessuna meraviglia essendo la cosa “normale”: all’inizio, del fatto non si diede notizia pubblica. Poi le cose cominciarono a trapelare e, come da copione, le si negò. Questo fino a che negarle non fu più possibile e, allora, ecco scatenarsi le ipotesi. Lasciando da un canto le più bizzarre, furono tirate in ballo le tende in cui i militari dormivano, per varie ragioni tende irrorate da farmaci. Poi furono i medicinali che ai militari venivano somministrati, a volte senza alcuna indicazione, a volte totalmente al di fuori di quanto sta scritto nella più elementare prudenza (es. la piridostigmina). Poi, in maniera più specifica, furono i vaccini da cui i soldati sono bersagliati in modo tutt’altro che scientifico e senza le più ovvie precauzioni. Di tutto questo pandemonio di accuse quasi sempre sostenute da perfetti incompetenti tra cui giornalisti e membri laici di comitati, tutti, comunque, senza esperienza in proposito, qualcosa resta ancora in piedi, e questo anche al cospetto di un’evidenza che dovrebbe essere decisiva: delle stesse sindromi (una sindrome è un insieme di sintomi) soffrono pure tanti civili che non hanno mai dormito nelle tende, non hanno mai preso i farmaci dei militari e meno che mai si sono vaccinati.
Ecco, allora, comparire sul banco degl’imputati un accusato molto più credibile: l’uranio impoverito.
Mi si permetta ora una digressione, peraltro doverosa, visto che tanti, soprattutto tanti giornalisti, ne dissertano ma pochi sanno di che cosa stanno parlando: che cos’è l’uranio impoverito che d’ora in avanti sigleremo come si fa abitualmente DU (Depleted Uranium)?
L’uranio è un elemento metallico niente affatto raro nella crosta terrestre dove è presente per circa 1,3 parti per milione ed è molto più comune di altri metalli come, ad esempio, l’argento (0,055 parti per milione). In natura esistono tre isotopi di uranio (lo stesso elemento chimico può esistere con masse diverse perché nel suo nucleo ci sono più o meno neutroni; le proprietà chimiche sono le stesse, mentre variano quelle fisiche). Nell’uranio naturale gl’isotopi sono il 238, il 235 e il 234, con il primo presente per il 99,3%, il secondo per lo 0,7 e il terzo è estremamente raro.
È il 235 ad avere interesse perché trova applicazione per scopi nucleari, dalle bombe alle centrali di energia. Se si vuole ottenerlo per questi usi si mette in atto un’operazione piuttosto complessa con cui si arricchisce il 238 con il 235 prelevato da grandi quantità di altro uranio naturale. Quello che si ottiene è da una parte uranio arricchito del prezioso 235 e dall’altra ciò che resta, cioè tanto 238 quasi privo di 235, e questo è il famoso DU: di fatto un rifiuto.
A questo punto sorge il problema di che cosa fare di questo DU che risulta imbarazzante un po’ per il suo altissimo peso specifico (otre 19 volte quello dell’acqua) e molto perché è radioattivo. Al di là dei nascondigli più o meno efficaci in cui si cerca di sottrarlo alla percezione comune, qualche impiego gli si è trovato nei contrappesi per ascensori, nelle chiglie delle barche da competizione, nei bilanciamenti degli aerei, nelle punte delle sonde petrolifere e negli schermi che si usano come ripari per i raggi X, ma di quella roba da sistemare da qualche parte ne resta ancora tanta perché, per produrre uranio arricchito, in particolare quello per uso bellico dove è necessario moltissimo 235, occorrono quantità enormi di uranio naturale. Il colpo di genio degli Anni Settanta fu di accorgersi che il rifiuto DU può essere usato nei proiettili grazie al suo essere un ottimo penetratore e alla sua piroforicità, vale a dire alla sua proprietà di sviluppare una temperatura di un po’ più di 3.000 °C quando, in ambiente di aria, subisce uno shock. Così gli scienziati militari statunitensi cominciarono a studiare proiettili all’uranio impoverito, strumenti bellici quanto mai efficaci che avevano il vantaggio collaterale di liberarsi di un po’ di uranio ormai inutilizzabile trasformandolo in particelle visibili solo al microscopio elettronico. Di fatto la Legge di Conservazione della Massa ci assicura che, qualunque cosa si faccia, non va perduto un solo atomo, ma occhio non vede…
A fine Anni Settanta il centro militare USA di Eglin approntò un documento che restò per lungo tempo segreto, per poi comparire quatto quatto, senza la minima pubblicità, parecchio più tardi. In quelle poche pagine s’illustrano gli esperimenti compiuti e si sottolinea come pochi chilogrammi di DU, un piccolo volume a causa dell’altissimo peso specifico di quel metallo, potessero di fatto vaporizzare il bersaglio producendo poi particelle sferiche di piccolissime dimensioni. Allora di nanopatologie, cioè di malattie da micro- e nanoparticelle, non si parlava ancora, ma già chi compilò il rapporto sollevò il problema sanitario: quelle polveri così sottili potevano essere inalate provocando danni alla salute. Esattamente quali non era ancora nell’esperienza medica, ma che i danni ci fossero era già ovvio quasi quarant’anni fa.
Il 1° marzo 1991, a distanza di oltre una dozzina d’anni dal documento di Eglin, il Laboratorio Nazionale di Los Alamos nel New Mexico scrisse un breve memorandum in cui diceva che, salvo obiezioni dovute all’efficacia del DU, queste armi potrebbero diventare “politicamente inaccettabili ed essere cancellate dall’arsenale.” Il problema era l’impatto pesantissimo dell’armamento sull’ambiente, cosa di cui gli americani, ancora ignari degli effetti reali sugli organismi viventi, erano comunque già ben consci.
Ma il DU era troppo bello per essere accantonato e il suo uso s’intensificò, con le zone di cui ho detto sopra, Balcani e Medio Oriente, diventati teatri consueti del suo uso, ma è del tutto plausibile che il DU sia stato usato anche in qualcuna delle tante guerre, magari poco note, che si combattono sul Pianeta . Non so se sia il caso di sorprendersi se gli americani che tra ex Jugoslavia e Iraq combattevano presero delle vistose anche se un po’ rozze precauzioni mentre altri eserciti, non saprei dire se per mancata informazione o per superficialità, di precauzioni non presero altra se non quella di negare che il DU fosse utilizzato.
Nel tempo, poi, i documenti americani che provano come le conseguenze dell’uso di quei proiettili fossero sempre più note si sono accumulati.
Molto in breve, vediamo che cosa accade quando si spara uno di quei proiettili.
Come ho detto, a causa della sua piroforicità bersaglio e proiettile vengono di fatto aerosolizzati e trasformati, così, nei loro costituenti di piccolissime molecole o, più spesso, di atomi. Queste sostanze vengono scagliate relativamente lontano dal punto d’impatto e trovano in breve un ambiente di gran lunga più freddo dei 3.036-3063 °C in cui si sono formate. In questo ambiente più freddo atomi e piccole molecole si condensano velocemente in modo del tutto casuale, tanto da avere composizioni chimiche elementari anche molto complesse, formando delle sfere cave con la superficie cristallina ed estremamente fragile, tanto da rompersi al minimo urto in frammenti come è naturale ancora più piccoli. Queste particelle sono talmente minuscole e leggere da comportarsi sotto diversi aspetti come gas e, come tali, galleggiano nell’aria potendo compiere viaggi anche di migliaia di chilometri. Giusto come noterella di attualità, è di questi giorni la scoperta nei ghiacci delle Ande dei residui grossolani (rispetto alle polveri di cui ci stiamo occupando) di piombo e arsenico provenienti da una miniera d’argento sfruttata dagli spagnoli dal 1572 al Settecento. Quei residui uccisero migliaia di persone e sono stati trovati intatti a 5.600 metri d’altitudine, a 800 km dalla miniera. Le nostre polveri pesano anche molte migliaia di volte meno di quelle andine e, dunque, non è difficile immaginare che distanze possano coprire.
Deve essere chiaro che quelle polveri sono molto spesso “eterne”, con ciò intendendo che moltissime di loro non sono degradabili. Dunque, una volta prodotte è per sempre e terra, aria e acqua non se ne libereranno mai. Non ci si illuda che siano possibili bonifiche, e questo non solo per motivi economici. Le quantità, la diffusione, la mobilità, la dimensione con la capacità d’insinuarsi dovunque renderebbero qualunque tentativo appena efficace su una frazione talmente esigua dei materiali in gioco da renderlo velleitario.
Quei piccolissimi frammenti di materia ora così diversi chimicamente da ciò da cui avevano avuto origine vengono inalati e respirati raggiungendo zone molto profonde dell’apparato respiratorio, fino ad entrare almeno in parte negli alveoli polmonari. Da lì, nel volgere di poche decine di secondi, passano nel sangue dove, nei soggetti che non producono nel loro organismo alcune sostanze capaci di contrastare la formazione di trombi (attivatori del plasminogeno) provocano un’ipercoagulazione del sangue con conseguenti tromboembolie polmonari nel comparto venoso oppure, in arteria, ictus e infarto. Negli altri soggetti quelle polveri proseguono il loro viaggio fino ad entrare in qualunque organo, compreso il cervello che non pare essere dotato di alcuna protezione particolare, con la barriera emato-cerebrale, in altre circostanze protettiva, priva di efficacia. Entrate nell’organo o nel tessuto, le particelle vengono catturate come accadrebbe in qualunque filtro meccanico, e non esistono processi fisiologici o farmacologici per liberarsene. Così quei granelli solidi e inorganici restano in loco, venendo percepiti per quello che sono: corpi estranei. La reazione a questa intrusione ineliminabile è la formazione di un tessuto infiammatorio che circonda e isola le particelle. Una condizione simile è all’origine di forme di cancro, come riporta un’enorme letteratura medica.
Ma quelle polveri fanno anche altro. Se entrano nel cervello, vanno a provocare danni nervosi come quelli citati tra i sintomi riferiti alle sindromi contratte nei Balcani e in Medio Oriente; se vanno nel pancreas possono indurre un diabete di tipo 1 bloccando la formazione d’insulina; se passano nello sperma danno sterilità e inducono la formazione di piaghe sanguinanti e dolorose nel canale vaginale della partner sessuale; se ad essere colpita dalle polveri è una donna gravida, si può avere un aborto o il parto di un bambino malformato o di un bambino già malato di cancro.
Ad aggravare la situazione c’è la radioattività del DU. Non si tratta di una radioattività particolarmente marcata, ma è ovvio che, laddove di DU se n’è usato parecchio, la radioattività c’è eccome e questa condizione è una concausa responsabile dell’innesco delle patologie, patologie che, non saprei dire se è anche per questo, nei militari che abbiamo avuto occasione di analizzare (e sono circa 200), osservandone al microscopio elettronico i tessuti patologici e trovandoci le particelle incriminate, si manifestano con una rapidità ragguardevole.
I civili controllabili sono relativamente pochi: principalmente giornalisti e operatori di organizzazioni non governative. La soverchiante maggioranza dei civili ammalati appartiene a zone in cui l’assistenza sanitaria non è certo di prim’ordine né queste persone hanno accesso al nostro laboratorio, purtroppo l’unico in cui si eseguono le indagini nanopatologiche del caso. Ci arrivano, invece, i casi di militari e in qualche occasione questi sono venuti anche dall’estero.
Per ognuno di loro, oltre a dover affrontare la situazione oggettivamente terribile di una malattia gravissima e del lavoro perso, ci sono le condizioni umilianti di dover affrontare gravi difficoltà economiche e un processo contro lo stato datore di lavoro per cercare di far valere i propri diritti di lavoratore. Non dimentichiamo che, ufficialmente, i militari non sono mai andati a fare la guerra ma sono andati in missione di pace. Dunque, lavoratori.
Non è un mistero per nessuno che, dal punto di vista della propria economia, l’Italia corre su un filo sospeso altissimo da terra e non sorprenderà nessuno se lo stato cerca di sottrarsi ai propri obblighi legali e, ancor prima, morali, lasciando i militari ammalati abbandonati e senza un soldo. Per fare questo ogni appiglio pare possibile. Già qualche anno fa la Difesa organizzò una riunione di “scienziati” (inevitabili le virgolette) presso la sede del CNR di Roma e costoro, nessuno dei quali aveva la benché minima esperienza in proposito al di là di qualcuno che aveva eseguito esperimenti del tutto privi di qualunque significato (e sono generoso), conclusero che, in fondo, le particelle come quelle di cui ci stiamo occupando sono innocue. Al dei là della scienza a livello mondiale, è l’Organizzazione Mondiale della Sanità a smentire quei personaggi le cui esternazioni, per quanto grottescamente infondate e basate su un ancora più grottesco “lei non sa chi sono io”, sono sicuramente servite in qualche circostanza per sottrarsi al risarcimento dovuto a qualcuno. Per fortuna esistono giudici che fanno giustizia e per diversi soldati sono già cominciate ad uscire sentenze a favore.
Naturalmente non è questo ciò di cui mi devo occupare io, per mestiere relegato nella freddezza di un laboratorio scientifico, ma di tanto in tanto quei ragazzi li incontro non solo nelle loro biopsie ma per davvero in carne ed ossa. Non sono tanto le loro sofferenze a lasciarmi senza parole: sono la loro delusione e la loro dignità.
Dott. Stefano Montanari- 16 febbraio 2015, ore 09,00


 
 

martedì 10 febbraio 2015

Fucilieri di Marina : tre anni di Odissea


Fra una settimana  i Sottufficiali della Marina Militare, i Fucilieri di Marina Massimiliano Latorre e Salvatore Girone,  inizieranno il loro quarto anno di prigionia in India senza che nei loro confronti sia stato prodotto un atto di accusa comprovato.

Tre anni trascorsi in ostaggio di Delhi che ha prevaricato e continua a farlo   il più elementare diritto dell’uomo, primo fra tutti la limitazione della libertà personale senza che ci sia una sanzione di una Corte di Giustizia.

Un arbitrio accettato dall’Italia, accondiscendente e remissiva in questi tre anni, pronta a cedere sovranità nazionale ed a rinunciare alle prerogative che il Diritto Internazionale concede a tutti gli Stati del mondo.

Fino a qualche settimana fa, seppure sporadicamente, arrivava qualche notizia sulla vicenda, poi improvvisamente il silenzio giustificato, sembra, dall’opera silente che dovrebbe essere  in corso fra le Intelligence dei due Paesi. Un omertoso silenzio per non disturbare le parti quasi si stesse trattando lo scambio di  terroristi o malfattori, piuttosto che pretendere i diritti che tutta la comunità internazionale riconosce all’Italia.

Un silenzio voluto e ribadito dallo stesso Presidente del Consiglio e rispettato dall’ex Presidente della Repubblica Capo delle Forze Armate secondo l’articolo 87 della nostra Costituzione, che non ha nemmeno salutato i due militari ostaggio dell’India pur di non rompere la quiete.

Solo il nuovo Presidente, il Prof. Sergio Mattarella,  non ha osservato le consegne del Premier ed ha ricordato al Parlamento ed all’Italia che il Paese è in debito verso due suoi concittadini militari in servizio, onorando in tal modo  l’alto incarico conferitogli dalla Costituzione.

Noi, pur nel massimo rispetto del Senatore Napolitano,  preferiamo seguire la strada tracciata dal Presidente Mattarella e vogliamo ricordare ancora una volta la serie di omissioni che sono state compiute a danno dei due nostri militari.

Lo abbiamo fatto ripercorrendo questi tre anni e sintetizzandone i punti salienti in alcune pagine a disposizione di chiunque volesse leggerle al link:


ospitate dal blog (http://www.stefanomontanari.net/sito/) che riporta un significativo  pensiero del Leopardi su cui meditare “ Anche sogliono essere odiatissimi i buoni e i generosi perchè ordinariamente sono sinceri, e chiamano le cose coi loro nomi. Colpa non perdonata dal genere umano, il quale non odia mai tanto chi fa male, né il male stesso, quanto chi lo nomina. In modo che più volte, mentre chi fa male ottiene ricchezze, onori e potenza, chi lo nomina è strascinato in sui patiboli, essendo gli uomini prontissimi a sofferire o dagli altri o dal cielo qualunque cosa, purché in parole ne sieno salvi”

Pagine nelle quali si racconta senza commento alcuno, perché ciascuno possa trarne liberamente le proprie conclusioni, anche coloro che non considerano “impertinente ed oltraggioso” il comportamento dell’India nei confronti dell’Italia e di quelli che, invece,  fin dall’inizio hanno gestito la vicenda dando la precedenza ad interessi economici di lobby e privati.

Fernando Termentini, 10 febbraio 2015 - ore 11,00