giovedì 1 dicembre 2011

Le elezioni libere dopo la primavera araba

E’ trascorso quasi un anno da quando dalla Tunisia è partita la prima ventata di democrazia che avrebbe provocato un radicale cambiamento politico nei principali Paesi islamici africani che si affacciano sul Mediterraneo. Tiranni sono stati cacciati, altri come Gheddafi sono stati combattuti, catturati e passati per le armi nel nome di una democrazia laica e liberale che assicurasse al popolo i diritti fondamentali negati per decenni da governi dittatoriali e nepotistici. Una volontà popolare che sembrava impegnata ad uscire dall’oscurantismo del radicalismo religioso ed avvicinarsi ai modelli delle democrazie occidentali più evolute. Fiumi di inchiostro sono stati versati per evidenziare questo desiderio della gente che sembrava inarrestabile e che finalmente cancellava insieme alle dittature decenni di soprusi e di negazione dei diritti umani. Analisi ottimistiche ma in taluni casi troppo affrettate e sviluppate con un approccio semplicistico che non teneva conto delle realta' socio culturali coinvolte nelle vicende. Intere generazioni cresciute nel rispetto della legge coranica ed annientate dal radicalismo religioso. Retaggi che non possono essere cancellati con un colpo di spugna, ma destinati ad esercitare il loro influsso per decenni. La volontà popolare espressa in occasione di libere elezioni svolte nei Paesi islamici dell'Africa mediterranea conferma questa valutazione. I rappresentanti politici vicini agli Iman sono preferiti ai loro colleghi impegnati in una politica laica. In Tunisia hanno vinto gli An-Nahada sicuramente non laici. Ennehdha il “partito della rinascita” ha ottenuto un numero considerevole di seggi, maggioranza che sicuramente si fara' valere quando inizieranno i lavori di redazione della nuova Costituzione. Un risultato che potrebbe contagiare l’Egitto e la stessa Libia, dove l’attuale Presidente ad Interim ha gia' espresso la volontà di riaffermare i valori della sharia, che dovranno rappresentare le linee guida da applicare nella " nuova Libia". Nel vicino Marocco, pur non coinvolto nelle vicende della primavera araba, i recenti risultati elettorali hanno evidenziato una larga maggioranza della volonta' popolare favorevole ad uno Stato che si richiami ai valori dell'Islam, piuttosto che laico. Ha vinto, infatti, la corrente politica “Giustizia e Sviluppo” (PJD) vicina all’interpretazione radicale dell'Islam e che guarda con favore ai Fratelli Mussulmani ed al partito tunisino degli Ennahda. Una sorpresa per il re Mohammed VI da sempre impegnato a realizzare riforme laiche e fautore di un'apertura verso l'Occidente, in particolare nei confronti della confinante Unione Europea. In Egitto i Fratelli Mussulmani stanno vincendo con largo margine anche se ci vorra' del tempo prima di avere risultati definitivi (sembra non meno di quattro mesi). La “mezzaluna islamica” si affaccia , dunque, nei cieli dell'Africa mediterranea, preannunciando un futuro in cui l’influenza della religione ritornera' ad interferire sulla laicità dello Stato, rendendo difficile qualsiasi affermazione di democrazia liberale. I primi segnali arrivano. In Tunisia è stata attaccata un’emittente televisiva solo perché aveva osato proporre un confronto pubblico sul fondamentalismo islamico. In Libia il Comandante militare della città di Tripoli è un certo Abu Hakim Belhadj, già combattente in Afghanistan ed ex ospite delle carceri della CIA, sicuramente non un laico moderato. Uno tsunami che ormai coinvolge anche Paesi rivieraschi del Golfo Persico, doveemergono movimenti caratterizzati da un accentuato fanatismo religioso. In Iran viene minacciata la presenza di occidentali le Sedi diplomatiche occidentali, come ieri quando un gruppo di studenti iraniani filo-regime ha assaltato l'Ambasciata britannica. Un gesto disperato della componente oltranzista della Repubblica islamica che si sente con le spalle al muro per le sanzioni occidentali contro il nucleare iraniano e che si sovrappongono a quelle decise dalla Lega Araba contro l'alleato siriano di Teheran. Quattro razzi sono stati lanciati dal Libano contro Israele. Tel Aviv ha risposto con dei colpi di artiglieria contro il villaggio di Aita Shaab da dove e' partito l'attacco, a circa due chilometri dal confine. Il bombardamento è stato rivendicato dalle Brigate Sheikh Abdullah Azzam, cellula terrorista vicino ad Al Qaeda.(Aki). I servizi segreti algerini prevedono a breve nuovi sequestri di cittadini stranieri nei paesi del Sahel africano, dove sono particolarmente attivi gruppi di al-Qaeda guidati da un algerino, Bin Wahi Abdel Baqi di 44 anni, originario delle province orientali del paese. Vicende che si sovrappongono e che si concentrano in aree geografiche prossime ai confini europei o colpiscono, come in Iran, direttamente Stati membri dell' Unione Europea. Un Europa che continua, come in passato, ad osservare senza proporsi come realta' politica, ma solo come holding economica peraltro non in grado di gestire nemmeno le sorti di una moneta unica inventata e non regolata dalle regole fondamentali dell’economia. Una UE dove seguitano a prevalere interessi di singoli Paesi membri. La Francia che sospende il trattato di Schengel con l'Italia, pur di evitare che disperati in fuga dalla guerra in Libia potessero entrare sul territorio francese. La Germania che pur facendo parte dell'ONU e della Nato non partecipa con i patner europei alle operazioni militari decise dalle NU garantire la sicurezza della popolazione libica. Ancora una volta si ripropone,quindi, l'incertezza di queste aree del mondo islamico, vicine per collocazione e tradizione all’Occidente da cui si stanno allontanando per l'interferenza di gruppi fanatici e radicali. Una situazione di cui potrebbe approfittare Al Qaeda per il Maghreb islamico (AQMI) con lo scopo di consolidare il proprio ruolo politico, dopo essersi garantita considerevoli risorse militari approfittando delle vicende libiche. Un fatto è certo, la Primavera Araba, da troppi affrettatamente definita foriera di democrazia e libertà, sta dimostrando i suoi limiti e comincia ad essere un’onda anomala che trascina con se' l’integralismo radicale pronto a prevaricare qualsiasi credo religioso diverso dall'Islam e ad imporsi anche attraverso azioni eversive. Sottovalutare ancora una volta questo rischio limitandosi ad osservare l'evoluzione degli eventi e ad esplicitare unicamente il proprio dissenso come avviene per l'Europa, potrebbe favorire ancora una volta situazioni difficilmente gestibili.


1 dicembre 2011 - ore 13.00

lunedì 28 novembre 2011

Trilaterale e Bildberg, due interessanti realtà

Da anni, con un’alternanza ciclica tipicamente italiana, siamo stati impegnati a leggere ed a disquisire di Massoneria, di Logge massoniche deviate (P2 – P4 ecc), di Gladio, di organizzazioni segrete e di lobby più o meno potenti. Molte definite anche “occulte”, sulla base dei contenuti della “Legge Anselmi”, la n. 17 del 25 gennaio 1982. Disposto normativo promulgato nell’assoluto rispetto dell’articolo 18 della Costituzione, per fare chiarezza, sulle associazioni segrete “….quelle che anche all’interno di organizzazioni palesi occultano la propria esistenza……”. Poco o nulla, invece, è stato approfondito nel tempo su due interessanti strutture associative, la Trilaterale e la Bildberg. Organizzazioni che si occupano principalmente di finanza a livello globale e di cui fanno parte intellettuali, studiosi e politici di fama internazionale. Lobby strutturate che in qualche modo hanno avuto ed avranno influenza sui problemi della macro economia planetaria. La Trilaterale ed in particolare la Bildberg, sono organizzate sotto forma di associazionismo culturale e no profit, con frequentazioni eccellenti. Potentati su cui è possibile approfondire consultando la dovizia di informazioni pubblicate in Internet. La "Trilateral Commission" (Trilaterale) e la "Bielderberg" sono associazioni chiuse, nate per iniziativa privata, autoreferenziate come apolitiche. Una sorta di ONG (Organizzazioni non Governative) senza scopo di lucro destinate a favorire il confronto delle idee in materia economica. La Trilaterale rappresenta un gruppo di discussione fondato il 23 giugno 1973 (fonte Wikipedia), su iniziativa del magnate dell'economia americana, David Rochefeller Presidente della Chase Manattan Bank e di altri alti dirigenti e notabili fra cui Herry Kissinger. Ha la propria Sede a New York, i suoi associati sono più di trecento, tutti notabili, uomini di affari, politici, ed intellettuali europei, giapponesi, statunitensi, in contatto costante fra loro e che periodicamente si riuniscono per promuovere la cooperazione fra le aree geografiche di appartenenza. Il numero dei rappresentanti di ciascun Paese è fissato percentualmente e ciascun membro non può nello stesso tempo appartenere alla Trilaterale e ricoprire cariche politiche e/o istituzionali. Vincolo che però spesso non è applicato, come è possibile evincere scorrendo gli elenchi dei membri. Il Gruppo Bilderberg, così chiamato dal nome dell'albergo in cui si riunirono nel 1954 i fondatori dell'associazione (hotel de Bilderberg - Oosterbeek, Paesi Bassi, è nato con lo scopo di contrastare l’emergente anti americanismo, in quegli anni diventato dilagante in tutta l’Europa occidentale, e per favorire una maggiore collaborazione sul piano politico e finanziario fra gli Stati Uniti e Paesi europei. Ne fanno parte dirigenti a livello istituzionale, manager delle aziende e delle organizzazioni più importanti a livello globale. Il gruppo si riunisce una volta all'anno a "porte chiuse" con l'assoluta interdizione dei giornalisti, che non possono nemmeno avvicinarsi alle Sedi che ospitano le riunioni. I meeting del Bilderberg sono organizzati nel rispetto di regole ben precise, svolti in piccole cittadine, quanto più possibile lontane dalle Sedi delle maggiori strutture di comunicazione (nel 2004 la riunione ha avuto luogo a Stresa, un piccolo comune sul Lago Maggiore). La partecipazione è rigorosamente regolata da inviti destinati ad ospiti di eccellenza, scelti in base all’influenza ed alla loro posizione in importanti settori dell’economia mondiale. Segretezza degli argomenti e controllo dei partecipanti sono i parametri chiave del gruppo Bilderberg, che hanno consentito il suo consolidamento e la sua influenza. Non è semplice individuare il ruolo che Trilaterale e Bildberg possono avere avuto nel corso degli anni sull’andamento dell’economia mondiale. Altrettanto non facile è capire quale influenza possono avere i temi trattati nel tempo nell’ambito delle due organizzazioni e che in qualche modo possano essere collegabili all’attuale crisi finanziaria mondiale. Scorrendo gli elenchi dei membri che ne fanno parte, le loro esperienze professionali e le loro posizioni dirigenziali nell’ambito di importantissime strutture dell’economia mondiale, si è portati a pensare che Trilaterale e Bildberg non si occupino solo di “filosofia dell’economia” come alcuni contenuti dei loro statuti lascerebbero intendere, ma di strategie economiche direttamente collegate all’economia reale. Germania, Francia, Gran Bretagna e Giappone hanno un nutrito numero di rappresentati di rilievo nelle due strutture, come peraltro l’Italia con suoi esponenti di spiccata caratterizzazione politica, scientifica ed economica. Ma a differenza dell’Italia, da tempo obiettivo di speculazioni, i nostri partner europei fanno parte del Consiglio di Amministrazione del Fondo Monetario Internazionale ed impongono un continuo pressing sulla nostra economia, arrivando ad ipotizzare prestiti a favore dell’Italia con fondi altrimenti destinati a Paesi del Terzo Mondo ed in via di sviluppo. Forse, sulla base di precedenti analisi economiche sviluppate in sedi diverse dalla UE, i nostri partner europei ci considerano un bene economico “interessante” e quindi da comperare.

Roma 28 novembre 2011, ore 09.00

mercoledì 23 novembre 2011

L’Islam radicale in Bosnia Herzegovina

L’estremismo islamico si affaccia sull’Adriatico. Il 28 ottobre scorso Mevlid Jasarevic ha esploso più di 100 colpi d’arma da fuoco contro l’Ambasciata USA a Sarajevo. Ha ferito in modo grave due persone per poi essere fermato da un addetto alla sicurezza. Un episodio che segue quello di Mostar, quando nel luglio scorso un gruppo di islamici di ritorno dalla preghiera si sono ferocemente scontrati con cittadini di etnia croata. Agenzie di stampa locali hanno immediatamente informato che l’attentatore era un fanatico già noto alla polizia ed ha motivato il proprio gesto per “diventare un martire ed andare in paradiso”. Altre versioni, invece, sospettano che dietro Mevlid ci siano realtà bosniache eredi del passato e vicine all’estremismo islamico. Gruppi che negli anni ’90 contribuirono alla formazione dell’esercito bosniaco, sponsorizzati e finanziati da Bin Laden. Le indagini sono in atto, ma un certo nervosismo trapela nelle Autorità bosniache che temono una possibile minaccia conseguente al risveglio di simpatizzanti dell’organizzazione wahabita, presente in varie regioni dei Balcani, vicina all’estremismo islamico e propugnatrice di regole religiose radicali. I Wahabiti sono arrivati in Bosnia all’inizio delle ostilità degli anni ’90, inquadrati in un’unità militare mussulmana, la Brigata El Mudzahid che entrò a far parte del nascente esercito della Bosnia Herzegovina. Combattenti ben addestrati di origine araba ed afgana, ben equipaggiati e continuamente riforniti di armi e munizioni assicurate dai “fratelli” afgani, iraniani e sauditi. La Brigata islamica con i suoi 2000 uomini si attestò nell’area della città di Zenica, regione dove ancora oggi vive una consistente rappresentanza di militanti wahabiti. I combattenti mussulmani parteciparono attivamente a tutte le operazioni contro i serbi ed i croati affiancando i gruppi paramilitari bosniaci della “Legione Verde” e dei “Cervi Neri”. La loro azione militare fu spesso caratterizzata da episodi prossimi a crimini di guerra, tali da suscitare l’interesse della Corte del’AIA che dopo Dayton aprì una lunga serie di indagini anche nei confronti dell’ex Presidente bosniaco. Dopo Dayton una parte dei militari della Brigata islamica è rimasta in zona stabilendosi in molti villaggi della Bosnia centrale ed acquisendo la cittadinanza bosniaca dopo aver sposato donne locali. Costoro hanno sempre manifestato propensione per un approccio radicale all’Islam, promuovendo iniziative dettate dalla dottrina wahabita. Non si conosce esattamente il numero dei wahabiti naturalizzati bosniaci, ma sicuramente rappresentano una apprezzabile componente della popolazione della Bosnia. Un’Agenzia di stampa locale ha recentemente divulgato i risultati di un sondaggio che indicano come la componente mussulmana radicale rappresenti il 3% della popolazione, numero non rilevante ma significativo in una realtà socio culturale come quella bosniaca. L’azione dell’attentatore del 28 ottobre potrebbe, quindi, rappresentare il risveglio di forme di estremismo islamico in un’area di importanza strategica per l’Europa e l’intero Occidente. Un segnale, che segue altre indicazioni premonitrici iniziate a partire dal 2005, quando improvvisamente aumentò la pressione iraniana a Sarajevo ed in tutta la Bosnia Herzegovina mussulmana. In quel periodo iniziò una capillare gestione ed organizzazione delle madrasse che venivano mano a mano costruite ed accompagnate da una capillare collocazione sul territorio di centri culturali islamici e dalla concessione di un appannaggio economico mensile a tutti i giovani che manifestavano la volontà di riappropriarsi dell’identità islamica wahabita, anche solo curando aspetti esteriori come l’abbigliamento. Uomini con barbe lunghe e pantaloni corti sotto il ginocchio, donne che indossano una tunica nera che lascia scoperti solo gli occhi. Obbligo di rispettare il Ramadam, di pregare 5 volte al giorno e di frequentare le moschee nel venerdì di preghiera. L’attentatore che ha sparato contro l’Ambasciata americana ha 23 anni ed appartiene proprio alla generazione cresciuta sotto l’azione diretta o indiretta dei condizionamenti derivati dall’emergente estremismo religioso. Ventenni istruiti ed addestrati da ex mujaheddin, arrivati in Bosnia all’inizio degli anni ’90 per aiutare i fratelli mussulmani a combattere i serbi ed i croati. Giovani che in questi anni hanno avuto anche la possibilità di stringere rapporti di lavoro o anche di semplice amicizia con coetanei appartenenti ad Organizzazioni Non Governative saudite e kuwaitiane, presenti nel Paese per scopi umanitari e che, dopo l’11 settembre sono oggetto di stretto controllo delle Autorità e delle Forze di sicurezza nazionali. Jasarevic, il giovane che ha sparato è nato a Novi Pazar, città che nel 2007 è stata oggetto di un’importante azione di polizia per stanare militanti wahabiti che operavano in una campo di addestramento per la formazione di militanti islamici. E’ ancora presto per identificare con certezza il vero movente che ha spinto l’attentatore a compiere il gesto eversivo. Potrebbe trattarsi di un momento di esaltazione di un “lupo solitario” o rappresentare l’inizio di una nuova minaccia terroristica che si affaccia sulle rive orientali dell’Adriatico. Un segnale comunque da non sottovalutare, in quanto evidenzia un certo fermento che coinvolge le nuove generazioni bosniache, in un momento in cui la Bosnia è impegnata ad accelerare la sua ammissione in Europa e la popolazione è costretta ad accettare i vincoli connessi alla possibile transizione. Una inquietudine di cui potrebbero approfittare le realtà islamiche radicali come i wahabiti, presenti in molte aree dei Balcani oltre che in Bosnia e vicine all’Arabia Saudita ed all’Iran.

Roma 23 nov. 2011 – ore 10.00

lunedì 21 novembre 2011

Stragi in Egitto

Coloro che a suo tempo hanno utilizzato fiumi di inchiostro per osannare i risultati ottenuti dalla Primavera Araba in Egitto ed in Tunisia, è stato forse affrettato nell’esprimere ottimismo. Oggi si meraviglierà per ciò che sta accadendo in Egitto considerandolo come qualcosa di inaspettato, quando invece, conoscendo le realtà locali, non era difficile prevederlo. Costoro dovrebbero rivedere le loro analisi, come anche suggerito attraverso queste pagine quando ancora nulla si sospettava sull’evoluzione negativa della situazione egiziana. In Egitto e forse presto anche in Tunisia e nella stessa Libia del post Gheddafi, inizia ad emergere la rabbia e l’insoddisfazione di coloro che erano scesi in piazza sfidando la morte nel nome della democrazia e contro i dittatori. Primi fra tutti i giovani egiziani coordinati dalla gestione “illuminata” di facili profeti, come il premio Nobel per la Pace El Barabei o i Fratelli Mussulmani. Aspirazioni la cui realizzazione è stata affrettatamente affidata ai militari egiziani, dimenticando che costoro sono stati sempre molto vicini al deposto Mubarak e sempre fedeli al loro mecenate statunitense. Oltre 1800 i feriti e decine i morti dopo due giorni di manifestazioni. Tutto ad una settimana dalle prime libere elezioni dopo 40 anni di dittatura. Vittime fra la folla che manifesta il proprio dissenso e la propria disillusione, ed anche un arresto, quello di Butaina Kamel, l’unica donna candidato. I partiti che parteciperanno alla competizione elettorale sono 35 ma risulta che abbiano un unico portavoce: Mohamed El-Beltagy esponente di spicco del partito Libertà e giustizia dei Fratelli Musulmani. Le manifestazioni oltre al Cairo hanno catalizzato anche la piazza di Alessandria, nota per il suo approccio laico alle vicende del Paese, provincia egiziana molto vicina per collocazione geografica e per tradizione alle democrazie occidentali. L’Unione Europea, torna ad “essere preoccupata” ed il portavoce Catherine Ashton si limita a rinnovare le consuete dichiarazioni programmatiche. Un’Europa che durante la primavera araba aveva già evidenziato i propri limiti politici e che oggi, dopo aver fallito anche come Holding finanziaria non in grado di difendere la propria moneta, torna a esprimere il proprio cruccio per quanto avviene sulle rive africane del Mediterraneo evitando, però, di promuovere incisive politiche a livello internazionale. Nel frattempo in Tunisia nella prima tornata elettorale si sono affermati gli Ennahdha, un partito islamista tuttaltro che laico e nella Libia del post Gheddafi viene rivalutata la sharia, la Legge di Dio, sicuramente distante dalla cultura delle tradizione liberale e democratica occidentale. La situazione che si delinea ancora una volta sulle rive del Mediterraneo non è sicuramente delle più limpide. Sottovalutarla interpretrando qualsiasi vittoria locale come un traguardo raggiunto sulla strada della democrazia potrebbe avere nell’immediato futuro gravi conseguenze per la stabilità e la sicurezza internazionale. Non bisogna mai dimenticare, infatti, quanto avvenuto in altri Paesi ed in particolare in Afghanistan con la nascita di Bin Laden sponsorizzato dall’Occidente come esempio di democrazia durante la resistenza afgana contro l’invasore sovietico.
21 nov. 2011- ore 18,30

venerdì 11 novembre 2011

L'atomica iraniana e El Barabei


Gheddafi e' stato eliminato ed i problemi libici, almeno per ora, sono stati accantonati. Insieme al Rais sono ormai sepolte le verità su quali realtà mondiali tecnologicamente evolute, possano avere aiutato il regime a sviluppare il nucleare e gli armamenti non convenzionali. Il siriano Assad è ignorato nonostante che continui a far massacrare il proprio popolo. Saleh, il Presidente yementita, ritornato in patria dopo l’attentato subito, ha ripreso a reprimere con la forza le manifestazioni di piazza. Eventi che sembrano essere ignorati dalle Nazioni Unite che, invece, hanno dimostrato una considerevole capacità reattiva nel ratificare la risoluzione 1973 a difesa della popolazione libica. In questo particolare contesto storico, e' tornato alla ribalta Ammadinejad, il Presidente iraniano, che continua a minacciare l'Occidente ed Israele con i suoi programmi nucleari, in un recente passato giudicati leciti perché finalizzati a scopi civili. Valutazione riportata nella relazione finale di un’ispezione internazionale diretta da El Barabei allora Presidente dell'Agenzia Internazionale per l'Energia nucleare (AEIA) e premio Nobel per la pace. Una figura emblematica, quella di El Barabei, che in passato coordinò anche le ispezioni in Iraq per accertare se Saddam disponesse di armi proibite, sottoscrivendo un documento finale dai contenuti molto vaghi ed interpretabili, tali da contribuire ad accelerare l’intervento militare della coalizione anglo - americana contro l'Iraq. La medesima persona che all'inizio della Primavera araba e' improvvisamente comparsa nelle piazze egiziane, prendendo parte attiva alle contestazioni contro Mubarak. Un "tuttologo", in grado di interpretare i dati tecnici sull’uso del nucleare e, contemporaneamente, di sviluppare importanti iniziative politiche gestendo, in "nome della Pace", masse di manifestanti sicuramente non pacifici. Improvvisamente, El Barabei scomparso dalle scene internazionali dopo la caduta di Mubarak forse perché impegnato a prepararsi a governare l’Egitto, attira di nuovo l’attenzione in seguito alle dichiarazioni del suo successore alla presidenza dell'AEIA, il giapponese Yukiya Amano, che coraggiosamente e senza esitazioni denuncia al mondo che l'Iran sta preparando l'atomica. Una conclusione assolutamente diversa da quella sottoscritta a suo tempo dall’ex Presidente dell’AIEA, con riscontri dettagliatamente descritti nell’ultimo report dell’Agenzia con riferimento a siti iraniani realizzati per gestire il nucleare per scopi militari, dotati di strumentazioni all'avanguardia, sicuramente non riconducibili alla sola espertise iraniana. El Barabei, invece, aveva assicurato il contrario, proponendosi sullo scenario internazionale come un neutrale e convinto difensore di un mondo in cui doveva essere bandito l'armamento nucleare, al punto da meritare nel 2005 il Premio Nobel per la Pace. L'attuale realtà iraniana è assolutamente diversa ed ora propone al mondo una realtà complessa sicuramente non semplice da gestire. L'Iran si prepara a sperimentare missili intercontinentali con testate nucleari in grado di colpire Gerusalemme e molte delle Capitali europee. Armi realizzate copiando e migliorando sistemi già sviluppati in Francia, Gran Bretagna, India e Pakistan. Attività sicuramente iniziate da tempo ed ora in continuo "progress" con un trend in costante crescita, destinato a consolidarsi se non immediatamente fermato. Le Nazioni Unite assistono ma non intervengono perché vincolate dalla presenza nel Consiglio di Sicurezza di importanti amici di Teheran come la Cina e la Russia, sicuramente pronte ad esercitare il loro diritto di veto. Cina che, peraltro, e' nella condizione di vincolare anche gli Stati Uniti, in quanto maggiore creditore del debito pubblico americano, ormai molto vicino al 100 % del PIL statunitense. Una realtà che si è creata soprattutto in conseguenza del ruolo giocato da El Barabei quando era responsabile dell’AIEA. Figura apparentemente aperta alle democrazie occidentali ma, probabilmente, più vicina ai Fratelli Mussulmani, all'estremismo islamico ed all’antisemitismo del Presidente iraniano.
11 nov 2011 - ore 14.00

mercoledì 2 novembre 2011

Al Qaeda e la nuova Libia

Dall’inizio della primavera araba ed in particolare della guerra in Libia si è spesso ipotizzato e discusso sulla possibile presenza di militanti di Al Qaeda fra i protagonisti delle vicende che si sono succedute sulle coste mediterranee dell’Africa. Forse oggi ne abbiamo una conferma. Il Daily Mail ha pubblicato le foto di una bandiera dell’organizzazione terroristica che sventola sul palazzo di giustizia di Bengasi. Una fortuita circostanza, lo scherzo di un burlone ? E’ difficile esprimere una valutazione certa dell’accaduto, ma se qualcuno è arrivato fin sul tetto di un edificio governativo della Capitale della rivolta libica, ha avuto sicuramente qualche appoggio esterno. Probabilità che dovrebbe impensierire in quanto conferma la presenza di cellule di Al Qaeda sul territorio libico, peraltro guardate con simpatia. Non è il solo episodio. Il 29 ottobre un attacco terroristico è stato effettuato a Derna in Cirenaica davanti agli uffici del CNT locale. E’ esplosa un’autobomba che come riferiscono fonti locali è stata attivata da simpatizzanti di Al Qaeda. In pochi giorni due segnali che sicuramente non contribuiscono ad indurre ottimismo nell’immediato futuro della stabilizzazione nella Libia del post Gheddafi, ma confermano, invece, quanto ribadito nel tempo su un possibile ruolo attivo delle cellule terroristiche di Al Qaeda negli avvenimenti libici. E’ certo che personaggi molto vicini all’Organizzazione terroristica hanno partecipato alla guerra. Costoro sicuramente hanno avuto ed hanno legami con gli ex commilitoni che portano avanti l’eversione risiedendo nel Magreb africano. Primo fra tutti il Comandante della Brigata che ha conquistato Tripoli, Abdel Hakim Belhaj un islamico radicale protagonista della resistenza afgana, militante talebano vicino ad Al Qaeda che con il nome di battaglia di Abu Abdallah Assadaq ha partecipato da protagonista alla rivolta contro Gheddafi. Noto combattente islamista, arrestato in Tailandia nel 2004, interrogato dalla CIA e poi consegnato alle autorità libiche è stato rilasciato poi dalla polizia anche se erano conclamati i suoi stretti legami con Al Qaeda e con lo stesso mullah Omar. Belhadj ha anche operato in Iraq ed è rimasto sempre in collegamento con le cellule eversive presenti a Bengasi e Derna, due città che nel tempo hanno fornito all’eversione irachena un consistente numero di combattenti, superiore a quelli arrivati dall’Arabia Saudita. I reduci libici tornati dall’Iraq e le strutture di Al Qaeda operanti nel Paese e nel vicino Maghreb, hanno sicuramente approfittato della situazione di belligeranza per rifornirsi di materiale bellico e potrebbero essere entrati in possesso di armi non convenzionali. Munizionamento chimico e scorie radioattive nascoste nel deserto libico come confermato dai ritrovamenti dichiarati ufficialmente di volta in volta dal CNT durante l’appoggio NATO ed ora negate da Mustafà Abd al- Jalil, attuale Capo di Stato (ad interim) della Libia. Le dichiarazioni di Abd al- Jalil non convincono in quanto dal 2007 pedina importante dello Staff di Gheddafi quale Ministro della Giustizia, non poteva non sapere o quanto meno sospettare della disponibilità da parte di Gheddafi di aggressivi chimici e di scorie nucleari. Non averne smentita la loro esistenza durante la guerra ed averlo fatto solo ora che l’ONU sembra voler coinvolgere l’Agenzia Atomica Internazionale, non depone sicuramente a suo favore. Un comportamento non limpido quello dell’attuale responsabile della delicata transizione libica che, peraltro, per le sue pregresse esperienze giuridiche, prima come Presidente di Tribunale poi come Guardasigilli, non può non conoscere il curriculum di Abdel Hakim Belhaj, da lui stesso designato Comandante di un’importante Brigata dell’esercito rivoluzionario libico e nominato recentemente Consigliere Militare di Tripoli. Non è azzardato ipotizzare che la Libia stia per vivere un periodo buio, molto vicino all’era irachena dell’immediato post Saddam, che potrebbe essere anche complicato dalle realtà tribali molto influenti nel Paese. La Nazione potrebbe scivolare verso una situazione simile a quella dell’Afghanistan immediatamente l’invasione sovietica ed, al limite, vicina alla realtà della Somalia del post Siad Barre. Se ciò avvenisse la comunità internazionale non ne guadagnerà in termini di sicurezza globale e di stabilità dell’area mediterranea.
02 novembre 2011 – ore 12.00

giovedì 27 ottobre 2011

Residui nucleari e gas letali in Libia

Il 23 settembre le forze rivoluzionare libiche hanno comunicato di aver rinvenuto a Sabha, a circa 750 chilometri da Tripoli, un deposito di materiale nucleare. Centinaia di fusti con sostanze radioattive e sacchi di plastica gialla. Notizia interessante, ma non a sorpresa, in quanto all'Agenzia Atomica (AIEA) era noto che in Libia esistessero depositi di materiale nucleare anche se non ne era conosciuta l'esatta natura e consistenza rispetto a quanto dichiarato a suo tempo da Gheddafi. Sono stati trovati bidoni e sacchi sigillati con nastro adesivo con riportate scritte solo in inglese e senza nessuna notazione in arabo. Nelle sacche di plastica una polvere gialla come pubblicato in un sito di Internet (http://www.vip.it/libia-trovate-tonnellate-di-scorie-nucleari-a-sehba-tripoli-e-sirte-video), le cui immagini non permettono, però, di capire con certezza la natura del materiale contenuto nei bidoni. La polvere gialla, invece, è con ogni probabilità "yeollowcake" (torta gialla), scoria dei processi di purificazione dei minerali che contengono uranio. In sintesi, ossidi di uranio (biossido e triossido) con scarsa valenza radioattiva ma molto tossici se ingeriti o inalati. Il deposito di Sabha non è la sola scoperta negli otto mesi di guerra. Altri nascondigli sono stati individuati come confermato dall'Istituto di Studi Strategici di Londra. Scorie radioattive provenienti dalla vecchia centrale di Tajoura ubicata nella periferia di Tripoli e materiale chimico altamente letale, parte integrante dell’arsenale di Gheddafi. Lynn Pascoe, Capo ufficio politico dell'ONU ed altre fonti delle Nazioni Unite precisano, a tale riguardo, che Gheddafi dopo aver aderito nel 2003 agli accordi internazionali sull’uso di armi chimiche, nel 2010 aveva distrutto solo il 55% dello specifico armamento, con una disponibilità residua di ancora qualche tonnellata di iprite. Valutazioni confermate dai ritrovamenti del CNT a Jufra ed a Ruwangha dove sono accatastati fusti di iprite e gas nervini ed a Sabha dove sono immagazzinati centinaia di proiettili contenenti iprite fabbricati in Corea. Gheddafi è stato frettolosamente trucidato. Con la sua morte è diventato tombale il segreto su dove poteva essere nascosto il materiale nucleare e chimico e, soprattutto, chi nel tempo aveva fornito alla Libia le necessarie materie prime e le tecnologie per trattare l’uranio e fabbricare gas letali. Anche l'archivio del Rais trovato nel bunker di Tripoli sicuramente non potrà fornire notizie utili nello specifico, in quanto ormai abbondantemente epurato nei molteplici passaggi di mano dal momento del ritrovamento. I gas e le scorie nucleari difficilmente potranno essere utilizzate per scopi militari, ma rappresentano un'appetibile fonte di rifornimento per scopi eversivi qualora qualcuno intendesse effettuare attentati terroristici "sporchi". Rappresentano, inoltre, una consistente risorsa economica, se immessi sul mercato clandestino degli armamenti. E’ imperativo, dunque, che la comunità internazionale attui immediate iniziative per individuare tutti i possibili depositi, inventariandone i contenuti per metterli in sicurezza per eliminare qualsiasi rischio di minaccia specifica sul piano globale. L'ONU dovrebbe essere promotore, quindi, di iniziative appropriate perché lo specifico problema sia affrontato e risolto il più rapidamente possibile, come avvenne nel 1989 in Afghanistan per la bonifica di mine e di ordigni bellici non esplosi, quando fu avviato un intervento finalizzato, l’Operation Salam, con il coinvolgimento di tutta l'expertise internazionale. Una risoluzione delle Nazioni Unite da promuovere, questa volta, non solo per garantire una "formale" protezione dei civili libici, ma per assicurare l'effettiva salvaguardia della popolazione mondiale.

27 ottobre – 10.00

martedì 25 ottobre 2011

La situazione dopo la primavera araba

Gheddafi è stato trucidato, Mubarak e Bel Alì sono stati deposti, l’Occidente plaude i risultati conseguiti dalle popolazioni islamiche per arrivare alla democrazia, mentre il siriano Assad continua, invece, a reprimere con la forza il dissenso del proprio popolo. Gli avvenimenti recenti in Tunisia, in Egitto ed ora in Libia, dimostrano, invece, i limiti della tanto osannata primavera araba, i cui risultati sono molto inferiori a quelle che potevano essere le aspettative occidentali. E’ in atto, infatti, una strisciante e preoccupante regressione che sta vanificando quella che poteva sembrare l’evoluzione moderna di un Islam fondamentalista. Riemerge lo scontro millenario tra sunniti e sciiti con protagonisti l’Arabia Saudita e l’Iran. L’Egitto ripropone un modello che ormai si pensava appartenere al passato.; la rivalutazione del regime militare e l’annullamento del ruolo femminile nella vita del Paese. In Tunisia i gruppi estremisti vicini ai Fratelli Mussulmani, gli Ennahda, hanno riscosso la fiducia dei cittadini che hanno partecipato alle prime elezioni libere dopo quaranta anni di dittatura, cancellando la possibilità dell’affermazione di uno Stato sicuramente laico. La Turchia, si sta proponendo come il “leader massimo” dell’Islam emergente dalla primavera araba, assumendo posizioni estreme con la condivisione della politica iraniana e di quella di Hamas, mentre rifiuta gli aiuti offerti da Israele in occasione del recente terremoto che ha colpito il Paese. L’Arabia Saudita, come già avvenuto in passato, ha ripreso ad investire fiumi di danaro per appoggiare il consolidamento di fazioni fedeli all’Emiro, in particolare cercando di estendere la propria influenza in Paesi del Golfo come il Bareihm. In Algeria Al Qaeda rialza la testa. La cellula attiva tra il Niger, Mauritania e Mali ha ripreso a minacciare l’Occidente e rapito una cooperante italiana. Il Capo del CNT libico ha annunciato la liberazione della Libia nonostante che la situazione sia ancora fluida ed il primogenito di Gheddafi chiami a raccolta i suoi fedelissimi per vendicare l’omicidio del padre. Mustafa Abdul Jalil ha dichiarato la ferma intenzione che il futuro del Paese dovrà essere improntato al rispetto della “Sharia”. La legge coranica che prevede, tra l’altro, la lapidazione della donna infedele ed il taglio della mano di chi è sorpreso a rubare. Un annuncio accompagnato dalle manifestazioni di una folla plaudente al grido “Allah akbar” (Dio è grande), che coglie di sorpresa un Occidente fino ad ora troppo ottimista sui risultati che avrebbe ottenuto “la primavera araba”. La situazione è complessa e rischia di riaccendere i contrasti che si ritenevano ormai cancellati dai venti di democrazia che arrivavano dalle Nazioni islamiche dell’Africa mediterranea. Un rischio che non sembra impensierire chi almeno politicamente ha appoggiato fin dall’inizio le rivendicazioni delle popolazioni dell’area come il Ministro della Difesa britannico, che sottolinea il successo raggiunto dal CNT in Libia “seppure macchiato dalla fine di Gheddafi” o Obama che esprime tutta la sua soddisfazione per l’inizio di una “nuova Libia”. Ottimismi che potrebbero essere sconfessati nell’immediato futuro quando il tepore della primavera araba potrebbe trasformarsi in un rigido inverno in cui tutti saranno contro tutti e non sarà chiaro quali saranno i governi con cui trattare. Le premesse ci sono e grande è il rischio che sia vanificato il sacrificio di tutti coloro che, come il tunisino Muhammad Bonazizi, hanno sacrificato la propria vita aspirando ad un rinnovamento epocale delle loro condizioni di vita. Una schiera di illusi che vedendo rapidamente svanire le speranze di democrazia, cancellate da nuove realtà che nulla hanno a che fare con le aspirazioni di libertà, potrebbero scendere di nuovo in piazza con conseguenze difficili da prevedere.
25 ottobre 2011 – ore 13,30

domenica 23 ottobre 2011

La morte di Gheddafi

La NATO ha annunciato che il 31 ottobre finiranno le operazioni militari iniziate il 17 marzo contro la Libia in seguito alla risoluzione 1973 delle Nazioni Unite, votata per garantire la sicurezza e l’incolumità della popolazione libica minacciata dalla repressione di Gheddafi. La decisione dell’ONU è stata fin dall’inizio applicata con un largo margine interpretativo degli attori principali della Coalizione militare della Nato. Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti d’America, infatti, dopo i primi attacchi a convogli e mezzi militari, hanno palesemente concentrato la loro azione sui possibili rifugi del Rais che di volta in volta venivano indicati come Centri di Comando e Controllo del regime. Più verosimilmente, invece, compaund attrezzati per ospitare Gheddafi in continuo spostamento per il timore di essere intercettato da un “missile intelligente” americano. Una concentrazione di sforzi, quella della NATO, evidentemente impegnata ad intercettare e colpire il Rais nonostante le quotidiane smentite dalla Coalizione anche se sul terreno venivano distrutti edifici e bunker al centro di Tripoli ma sfuggivano ai bombardamenti le rampe di lancio missilistiche e le truppe del Rais potevano seguitare a lanciare SCUD contro Misurata e contro il naviglio NATO in navigazione nel Golfo della Sirte. Il 21 ottobre Gheddafi è stato bloccato ed ucciso con modalità tutte da chiarire al punto che le stesse Nazioni Unite hanno sentito l’esigenza di aprire un’inchiesta. Nell’immediato si è parlato di un convoglio di autovetture civili dirette verso sud che è stato intercettato mentre percorreva il deserto libico. Uno dei mezzi trasportava Gheddafi ed era stato colpito da un missile sparato da un aereo francese o da un Predator americano. Attendibili agenzie di stampa precisavano gli eventi riportando dichiarazioni del Presidente francese Nicolas Sarkozy ed il Premier inglese Cameron che facevano a gara per attribuirsi la paternità nazionale di aver colpito Gheddafi. Sulla scena, quindi, al momento dei fatti erano sicuramente in volo velivoli militari della NATO come previsto dalla risoluzione 1973, ma con quasi certezza non orientati a difendere la popolazione civile ma a colpire un convoglio di automezzi che in quel momento non minacciava nemmeno il più povero pastore beduino che vigilava sul proprio gregge. Un attacco al suolo di aerei condotto in stretta aderenza ad un’azione di terra, come dimostrato dall’immediato intervento delle truppe del CNT che poi hanno ucciso il Rais. Un’azione militare da manuale, con un attento coordinamento aereo e terrestre, che non può essere stata occasionale né tantomeno fortuita. Un rivoltoso non meglio identificato, comunque fuori del controllo dei comandanti dell’unità che ha preso parte all’azione, ha quindi giustiziato Gheddafi ferito, tappandogli la bocca per sempre. Una fine quella del Rais, che a prescindere da qualsiasi motivazione di natura umanitaria segue altre uccisioni eccellenti ricorrenti nella Storia a partire dalla fine del Secondo Conflitto Mondiale. Vere e proprie eliminazioni di personaggi che seppure feroci dittatori o sanguinosi terroristi conclamati, sono stati giustiziati sul posto eliminando il rischio che potessero rivelare scomode verità. L’ultimo omicidio, prima di quello di Gheddafi, l’uccisione di Bin Laden intercettato nella propria camera da letto dall’eccellenza delle truppe speciali statunitensi e per quanto noto inerme al momento dei fatti. Eventi che travalicano i contenuti delle Convenzioni Internazionali in tema di diritto umanitario e di salvaguardia dei feriti e dei prigionieri di guerra. Azioni che non possono essere proprie di chi fa della democrazia la sua Bandiera ideale e che sicuramente non concorrono ad abbattere la minaccia terroristica globale. La storia insegna che non è pagante trasformare il proprio nemico in vittima, e tantomeno non lo è se l’avversario fa parte di realtà culturali caratterizzate dal fanatismo e dall’estremismo anche religioso. Gheddafi era un dittatore, ma aveva tutto il diritto di difendersi di fronte ad un tribunale internazionale. L’averlo trucidato e non aver rispetto le regole dell’Islam che impongono la sepoltura entro le 24 ore dalla morte, non risolve il problema delle vicende libiche e potrebbe piuttosto alimentare vendette incrociate in una realtà socio culturale in cui l’appartenenza al clan e le regole tribali hanno un valore determinante. Non a caso Sirte, città natale di Gheddafi ha difeso il dittatore per settimane nonostante l’attacco del CNT ed i bombardamenti della NATO. La tribù di appartenenza di Gheddafi, i Qaddafia, hanno già designato Sarif el Islam, il primogenito del Rais di cui non si conosce la sorte, successore di Gheddafi con il compito di cacciare dalla Libia “i ribelli della NATO”. Anche i Warfela e Magarha, altre importanti tribù libiche, hanno aderito all’iniziativa del clan di Sirte mentre a Tripoli il Comandante della Brigata dei ribelli che ha conquistato la città, Abdel Hakim Belhaj un islamico radicale protagonista della resistenza afgana e già militante talebano, già scalpita per ritagliarsi un ruolo importante nel futuro del Paese. In Libia in questo momento è stato eliminato un dittatore ma si stanno creando condizioni di cui potrebbero approfittare le forze islamiche estremistiche a totale danno della popolazione reduce da 42 anni di oscurità politrica.

22 ottobre 2011 – 22.00

lunedì 17 ottobre 2011

Violenza senza limiti

Dimostrare il proprio malessere sociale distruggendo è già esecrabile e lontano da ogni diritto democratico di poter manifestare il proprio dissenso. Distruggere un crocifisso e l’immagine della Madonna simbolo della maternità e della vita è un atto bestiale difficile da connotare. Sabato 15 ottobre a Roma, in occasione della manifestazione degli “indignatos” è successo anche questo. Un delinquente incappucciato, talmente vile da non mostrare il proprio volto, ha sfogato la propria rabbia contro un simbolo universale rispettato in tutto il mondo e non solo unico appannaggio del mondo cattolico. Maria, la Madonna, è il simbolo della vita. E’ amata da mussulmani, buddisti e dagli stessi non credenti che in essa riconoscono la natività come significato di essere uomo. A Maria è dedicata anche una “sura” del Corano anche se i mussulmani non la definiscono una santa. Chi ne ha oltraggiato l’immagine ha oltraggiato se stesso ed ha rinunciato al diritto di rispetto che compete a qualsiasi essere umano. Compiendo l’atto dissacrante ha dimostrato di essere incapace di discernere la differenza fra la manifestazione di un disagio sociale da un atto oltraggioso e senza senso. Calpestare la statua della Madonna di Lourdes come avvenuto a Roma è un atto vile compiuto da un codardo che probabilmente non riesce a distinguere la differenza fra usare le proprie mani per colpire un uomo piuttosto che accarezzare il proprio figlio. Un atto blasfemo che non ha senso e che dimostra la natura delinquenziale ed amorale di chi trincerandosi dietro una manifestazione pacifica ha spaccato vetrine, dato fuoco ad automobili ed attaccato lo Stato colpendo le Forze dell’Ordine. Un teppista che ha offeso non solo la religione e la comunità cristiana ma ha oltraggiato se stesso in quanto uomo, confermando, se ce ne fosse stato bisogno, la natura delinquenziale delle cellule che hanno esercitato violenza durante la manifestazione romana. Chi ha compiuto l’atto vestiva l’uniforme dei violenti che hanno scaricato le loro frustrazioni attraverso atti distruttivi dimostrando che non sono in grado di distinguere la differenza delle cose. Tutto è eguale, tutte le realtà hanno lo stesso valore senza differenza alcuna. Una massificazione massimalista che indica che il mondo non è investito solo da una crisi economica, ma è anche preda di una metastasi antropologica che rende il tutto un niente. L’atto irriverente, infatti, non può essere semplicisticamente definito come una “bestemmia isolata”, ma conferma la matrice anarchico – insurrezionalista degli autori convinti che l’azione contro strutture statali e religiose è la migliore espressione della loro emancipazione. Gesti ed episodi che devono indurre la collettività ad assumersi le proprie responsabilità, incitando i responsabili della gestione dello Stato a riappropriarsi con urgenza delle loro peculiarità istituzionali, per riguadagnare quei valori etici e di democrazia che nel tempo hanno fatto grande l’umanità.

17 ottobre 2011 – 12,30

domenica 16 ottobre 2011

Vergogna !

Ieri a Roma come in centinaia di altre città del mondo i giovani hanno manifestato il proprio malessere sociale. Dappertutto un dissenso proposto con un approccio deciso ma simpatico, dove ha dominato il senso civico piuttosto che l’arroganza della violenza. Roma si è invece distinta, permettendo che gruppi di criminali imponessero le loro regole a danno dei cittadini e contro gli stessi interessi di coloro che in corteo sfilavano compostamente. Vergogna per aver dato spazio a questi delinquenti incapaci di dimostrare pacificamente il loro dissenso. Vergogna di essere l'unica Nazione che non applica il diritto di autodifesa nei confronti di coloro che esercitano violenza contro lo Stato. Vergogna per aver offerto al mondo le immagini di un Paese che lascia spazio a gruppi di delinquenti addestrati alla guerriglia ed all’odio trincerandosi dietro l’alibi di manifestare il proprio malessere sociale. Guardiamo quello che avviene negli altri Paesi custodi di antiche democrazia liberali. Un esempio fra tutti la Gran Bretagna in cui sono assicurate le massime garanzie a chi vuole esprimere pacificamente il proprio disappunto nel rispetto delle regole, ma dove, nello stesso tempo, si contrasta senza esitazione chi invece le infrange. I delinquenti come quelli che ieri hanno devastato Roma devono essere perseguiti con fermezza, dimostrando che lo Stato esiste e che non intende delegare il proprio ruolo ad una piazza esaltata. Alcuni di costoro sono stati arrestati. Domani saranno probabilmente liberi come avvenuto purtroppo in passato nel nome di un diritto che non è tale nel momento che non garantisce al popolo la protezione dello Stato. Altrettanto avverrà per coloro che, una volta individuati dalle Forze di Polizia attraverso l’esame delle immagini, non conosceranno mai le patrie galere perchè non colti in flagranza di reato. Regole applicate nel nome della democrazia e di un falso garantismo, ma che nulla hanno a che fare con la sovranità popolare se si lascia spazio a malfattori come quelli che ieri a Roma hanno dimostrato di voler dissacrare lo Stato. I giovani hanno tutta la ragione di dimostrare il loro disagio e devono essere garantiti di poterlo fare. Nello stesso tempo, però, sono tenuti a vigilare per non diventare preda dell’inganno di chi tenta di far credere loro che lo Stato deve tutto. Utopia che la storia ha cancellato, anche se i nostalgici di un passato anacronistico ancora tentano di affermarla come regola fondamentale, coltivando facili illusioni destinate a favorire la regressione piuttosto che lo sviluppo.
16 ottobre 2011 - 13.00

venerdì 7 ottobre 2011

Il decennale dell’operazione Enduring Freedom

Il 7 ottobre 2001 iniziò la guerra al terrorismo internazionale con l’obiettivo di distruggere la rete terroristica di Al Qaeda ed eliminare il suo capo carismatico Bin Laden. Lo scopo, quello di assicurare una pace duratura al mondo eliminando la nomenclatura di un’organizzazione terroristica arroccata in Afghanistan e nelle aree tribali pakistane, protetta dai Talebani di Kabul e che rappresentava la punta dell’iceberg del terrorismo internazionale. Da quel giorno l’Occidente ha pagato un prezzo enorme in termini di vite umane e di impegno economico, 2500 morti fra cui 45 italiani. Bin Laden è stato ucciso in Pakistan poco prima del decennale dell’inizio della battaglia, la rete terroristica è stata quasi decapitata, ma sicuramente non è stato raggiunto l’obiettivo di annientare la minaccia globale. Piuttosto, Al Qaeda è evoluta e si è consolidata in altre aree, in particolare in Africa, dimostrando di essere in grado di “rialzare la testa” nonostante i duri colpi inferti alla struttura di vertice. Dopo Bin Laden è stato ucciso Al Awalagi, yemenita di cittadinanza americana responsabile della comunicazione jihadista in lingua inglese, è stato catturato Haji Mali Khna,, una delle figure di spicco dell’organizzazione estremistica pakistana Haqqani, punto di riferimento dell’eversione talebana ancora operativa in Afghanistan, ma Al Qaeda ed i suoi alleati continuano a colpire. Ieri sangue a Mogadiscio con un attentato che ha provocato 70 morti ed oltre 150 feriti. Un’azione rivendicata dagli Shabaab, gruppo miliziano somalo integralista, che da anni ospita nei propri ranghi numerose cellule di Al Qaeda fra cui esponenti di spicco come Ibrahim al Afgani, protagonista della resistenza afgana contro i sovietici. Gli Shabaab rappresentano una nuova realtà terroristica che può fare affidamento su almeno 3000 combattenti operativi, per lo più giovanissimi votati ad immolarsi in nome della jihad islamica che si richiama alla legge coranica (sharia). Realtà eversiva che può disporre di consistenti risorse economiche garantite dal commercio della droga e dai profitti degli alleati pirati somali che operano nel Golfo di Aden. Un altro segnale inquietante arriva dall'Afghanistan. Sette giorni orsono sono state arrestate sei persone in procinto di effettuare un attentato contro Karzai, come riferisce Lutfullah Mashad, portavoce dell’Intelligence afgana (NDS). Fra gli arrestati, un professore universitario, due studenti afgani ed una guardia del Corpo del Presidente afgano, tutti collegati alla rete Haqqanialleata dei Talebani più estremisti e vicina all’Intelligence pakistana (ISI). Il tentativo di colpire Karzai segue l’omicidio di Rabbani compiuto da un kamikaze di nazionalità pakistana, e conferma un'apprezzabile residua vitalità di Al Qaeda nel Centro Asia. Un vigore globale, che sta permeando anche il post primavera araba, nel momento che in Tunisia sono stati arrestati all'inizio della settimana tre libici, sospetti terroristi della componente magrebina di Al Qaeda, fermati a sud del Paese in possesso di armi e si ha notizia dell’impegno di cellule di Al Qaeda di appropriarsi dell'arsenale libico abbandonato nel deserto dall’Esercito di Gheddafi. 5000 missili SAM7 sono spariti dai depositi come espressamente denunciato da un alto ufficiale del CNT libico ed in magazzino nei pressi di Sabha sono stati trovate tonnellate di proiettili di artiglieria di grosso calibro contenenti iprite, il famoso aggressivo chimico meglio noto come gas mostarda. Al Qaeda, dunque, rappresenta ancora una minaccia forse indebolita sul piano operativo ma con un potenziale residuo preoccupante e non più limitato all’area asiatica ma esteso sul piano globale. Il succedersi di significativi episodi terroristici lascia, poi, pensare ad un unico coordinamento, quasi si fosse tornati al passato quando lo Sceicco del terrore gestiva attentati come quello di Oklaoma City, di Nairobi e delle Torri Gemelle a New York. Gli eventi suggeriscono, quindi, di bandire i facili ottimismi che portano spesso a dichiarare la sconfitta dell'organizzazione ogni qual volta qualche vertice viene eliminato. Piuttosto è necessario tenere sotto controllo tutti i segnali che confermano come il credo quaedista sia ancora condiviso in molte aree dove è ancora radicato l’islam fondamentalista. In particolare in Africa settentrionale e subsahariana dove la primavera araba e la crisi libica hanno favorito il consolidamento sul piano militare delle cellule di Al Qaeda del Magreb africano che, approfittando della situazione hanno potuto potenziare i loro arsenali e consolidare le alleanze con gli Shebab somali. Dieci anni sono trascorsi dall’inizio dell’attacco occidentale al terrorismo internazionale di matrice islamica e qualche risultato è stato raggiunto almeno in Afghanistan in termini di democrazia e di rispetto dei diritti umani. L'obiettivo principale di sconfiggere il terrorismo internazionale non è stato, però, ancora raggiunto. Il morbo seppure pesantemente attaccato ha dimostrato di essere in grado di trasformarsi ed evolvere continuamente ripresentandosi ciclicamente sullo scenario mondiale. L'eversione ancora sfugge al controllo e dopo dieci anni non è azzardato affermare che l'impegno di garantire la sicurezza internazionale è ancora all'inizio e lunga è la strada da percorrere.
5 ottobre 2011, ore 19,30

domenica 2 ottobre 2011

Un punto di situazione sull’evoluzione della minaccia terroristica

La vecchia nomenclatura di Al Qaeda inizia a cadere sotto i colpi della comunità internazionale impegnata nella lotta al terrorismo. E’ stato ucciso da un Drone USA Anwar al Awlaki, leader della cellula di Al Qaeda radicata nello Yemen. Anwar con la doppia cittadinanza, americana e yemenita, era responsabile dell’edizione in lingua inglese della rivista “Inspire”, diffusa nelle penisola arabica e di chiara inspirazione jihadista. Al Awalagi rappresentava, inoltre, come condiviso da molti analisti, il “credo operativo” di Osama ed era insieme all’egiziano Ayaman al Zawahiri l’obiettivo prioritario americano nel contrasto al terrorismo. Un Iman, un predicatore che attraverso i suoi sermoni chiamava alla jihad. Un terrorista operativo che aveva avuto un ruolo diretto nel falliti attacchi del 2010 tentati a New York ed ideatore dei pacchi esplosivi inviati a sinagoghe canadesi ed intercettati in Europa ed a Dubai. Un fanatico estremista che ha vissuto negli USA dove si era laureato in ingegneria presso l’Università del Colorado e forse già agente segreto di Al Qaeda in America molti anni prima dell’11 settembre. All’inizio della settimana nella provincia afgana di Paktia è stato catturato Haji Mali Khna, religioso fondamentalista e figura di spicco della famosa rete Haqqani, costituita da gruppi fondamentalisti vicini alle fazioni talebane pakistane estremiste, i “Tarek e Talibani Pakistani”. Un fanatico simpatizzante anche della “sura” di Quetta che fa riferimento al latitante Mullah Omar, sospettato altresì di aver partecipato alla recente uccisione di Rabbani. Un omicidio, deciso con lo scopo di indurre Karzai a desistere da una soluzione di pace solo afgana e che escludesse il Pakistan, accusato di favorire attraverso la propria struttura di Intelligence (ISI) la struttura di Haqqani posizionata nelle Aree Tribali pakistane ai confini con l’Afghanistan nel nord Waziristan. Un Pakistan che dopo l’uccisione di Bin Laden è stato additato dagli USA come un alleato poco affidabile e che invece vuole ricavarsi un ruolo importante nel processo di pace in Afghansitan per impedire un inserimento dell’India , della Cina e dell’Iran. L’eliminazione di due importanti figure della vecchia nomenclatura di Al Qaeda potrebbero indurre a pensare che ci si avvia verso un definitivo successo contro la lotta al terrorismo internazionale, ma in questi casi l’ottimismo potrebbe essere un cattivo consigliere. Quanto sta accadendo in Afghanistan non permette, infatti, di ben sperare. Importanti fatti eversivi concentrati nel mese di settembre, come accaduto l’11 settembre con un attacco terroristico ad Herat che ha provocato oltre 30 morti. Evento seguito il 14 settembre dall’attacco di 20 ore a Kabul con obiettivo l’Ambasciata USA ed il Comando della NATO ed il 20 settembre dall’assassinio di Rabbani , Presidente dell’Alto Consiglio afgano per la pace. L’eliminazione dei due personaggi di spicco di Al Qaeda non significa, dunque, la decapitazione della struttura terroristica che, invece, può fare riferimento ancora a leader di spicco. L’organizzazione è, infatti, tuttora strutturata in tre branche ben definite. La componente finanziaria che dopo l’uccisione nel 2010 di Said al Masr non ha ancora un leader. Il braccio militare con al vertice Saif al Adel responsabile in passato dell’addestramento militare e dell’intelligence di Al Qaeda e dei membri egiziani della Jihad in Afghansitan. La branca delle comunicazioni affidata a Suliman Abu al Ghayth, venuto alla ribalta in occasione della Prima Guerra del Golfo per i proclami contro Saddam Hussein a favore dei kuwatiani. A costoro si aggiungono i responsabili delle cellule sparse nel mondo, in particolare in Africa e nello Yemen. Fahd al Quso pronto a prendere il posto di Al Awlari ucciso in Yemen. Quso è fra i terroristi più ricercati dalla FBI e dall’Interpool ed è affiliato alle cellule di Al Qaeda presenti nella penisola araba (AQAP). Abu Masab Abdel Wudud già leader dei quadesti algerini ed ora coordinatore di Al Qaeda attiva in Africa nel Maghreb mussulmano (AQMI). Ibrahim al Afgani alla guida degli Shahab operativi in Somalia e nello Yemen, molto vicini ai pirati che nel Golfo di Aden attaccano i traffici commerciali. Personaggi che nel tempo e per diverse circostanze sono stati protagonisti essenziali di vicende storiche che hanno caratterizzato il terrorismo internazionale. Al Qaeda, dunque, come “entità politica terroristica” è ancora in grado di colpire ricorrendo al coordinamento di potenziali terroristi di seconda generazione. Giovani, ora ventenni, cresciuti nelle società occidentali e studenti modello delle università europee e statunitensi come lo era Al Awlaki laureato in ingegneria presso il Colorado Institute o l’ultimo fondamentalista mussulmano americano, arrestato a Boston mentre costruiva aeromodelli imbottiti di esplosivo, piccoli Drone per compiere attentati. Molti di costoro potrebbero rappresentare una minaccia difficilmente da connotare in quanto attuata da “jihadisti freelance”, fuori dal controllo della “Casa Madre”, ma pronti ad intervenire, spinti anche solo da motivazioni emotive. Al Qaeda nella vecchi accezione della parola è anche destinata a scomparire, ma potenzialmente il soggetto politico eversivo sarà ancora in grado di alimentare la proliferazione terroristica, che esiste e che non può essere negata né tantomeno sottovalutata.

02 ottobre 2011 – ore 17.00

martedì 27 settembre 2011

Allarme in Libia per possibili armi chimiche

In Libia la situazione non si sblocca. La potente macchina da guerra della NATO sembra non essere in grado di dare il colpo di grazia alle truppe fedeli a Gheddafi ed i ribelli segnano il passo sotto il fuoco dei cecchini. Gheddafi dimostra di non essere alla corda ed ogni tanto riappare rinnovando le sue minacce all’Occidente. Lo scenario rischia di diventare sempre di più un pantano, simile a quello in cui l’Occidente è rimasto invischiato in altre occasioni. La situazione stalla mentre cresce sempre di più l’apprensione che aggressivi chimici, a suo tempo prodotti da Gheddafi ed ancora nascosti nel deserto libico, possano cadere nelle mani di malintenzionati. Ipotesi non confermate né tantomeno smentite dall’Intelligence Occidentale che schierata da mesi sul territorio libico, sta dimostrando qualche problema nell’individuare gli obiettivi di importanza strategica di cui i fedeli del Rais, nonostante tutto, riescono ancora a difenderne l’ubicazione e la segretezza. Lo stesso Consiglio Nazionale di transizione della Libia ha denunciato fin dai primi giorni della rivolta che Gheddafi aveva prodotto tonnellate di gas tossici in una fabbrica di Rabat, a sud ovest di Tripoli, a conferma di quanto reso noto nel 1988 dagli USA. Quantitativi in parte distrutti da Gheddafi, ma di cui dovrebbe ancora esistere una disponibilità del 10% nascosta probabilmente in depositi affidati alla custodia di Tribù vicine al regime, come i Khadafa ed i Magarha alleati dei Tuareg, concentrati nell’area nord occidentale della Libia. Ancora tonnellate di agenti tossici fra cui l’iprite (gas mostarda) ed i potenti gas nervini del tipo di quelli utilizzati negli attentati nella metropolitana di Tokio del 20 marzo 1995. Anche l’ONU ha iniziato a lanciare specifici allarmi sulla possibile presenza in Libia di depositi di agenti chimici. Lo fa ufficialmente per il tramite di Lynn Pascoe, Capo Ufficio politico delle Nazioni Unite. Pascoe conferma la preoccupazione sulla possibile esistenza di depositi militari abbandonati, nei quali potrebbero essere conservati agenti tossici non distrutti dal regime libico entro l’estate del 2010, come previsto dagli accordi internazionali. Materiale che potrebbe cadere nelle mani delle cellule di Al Qaeda presenti nel Mali e collegate a quelle operative nel Magreb, che da tempo, come ormai accertato, gestiscono il contrabbando di armi recuperate nei magazzini abbandonati dalle truppe fedeli a Gheddafi. Sostanze che insieme a quelle radioattive trovate in questi giorni a Sabha insieme a maschere anti gas e tute protettive, (notizia confermata dall’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica – AIEA), potrebbero essere facilmente utilizzate per la realizzazione di ordigni terroristici sporchi (Dirty bomb), con conseguenze catastrofiche rispetto agli effetti degli attentati dell’11 settembre. Ordigni che - anche solo perché possibili – rappresenterebbero per la comunità internazionale una minaccia ricattatoria dalle conseguenze difficilmente valutabili. La preoccupazione è lecita e non può essere sottaciuta. Si auspica, quindi, che i sofisticati sistemi di sorveglianza del territorio messi in campo dalla NATO insieme all’auspicabile network dell’Intelligence occidentale che ormai dovrebbe coprire tutto il territorio libico, possano individuare rapidamente i siti e distruggerli, evitando che in futuro possano nascere sospetti tipo quelli che portarono all’intervento Anglo – americano contro l’Iraq.

27 settembre 2011 – ore 15.00

giovedì 22 settembre 2011

Al – Zarqawi e la seconda generazione di Al Qaeda

L’egiziano Ayman al – Zawahiri vuole confermare la sua leadership ereditata da Bin Laden e lo fa attraverso una serie di attentati ed omicidi che stanno insanguinando l’Afghanistan ed il Pakistan. A Kabul l’omicidio eccellente di ieri che ha avuto come vittima Burhanuddin Rabbani e che ricorda molto quello di Massud, il “Leone del Pansjhr” che dopo aver contribuito significativamente a cacciare l’invasore sovietico, sognava un Afghanistan libero dal gioco dei Talebani e da Bin Laden. Rabbani, ex Presidente dell’Afghanistan dal 1992 al 1996 quando fu esiliato dai Talebani, presiedeva l’Alto Consiglio della Pace voluto da Karzai per accelerare la stabilizzazione politica del Paese. L’attentatore suicida ha agito in modo pressoché analogo a quanto avvenuto il 9 settembre 2001, due giorni prima dell’attacco alle Torri Gemelle, quando due falsi giornalisti uccisero Massud azionando una bomba nascosta in un telecamera. Questa volta un uomo ha chiesto di incontrare Rabbani per trattare alcuni aspetti sulla futura pace ed abbracciando la vittima designata, si è fatto saltare azionando una bomba nascosta nel turbante. L’evento segue l’attacco coordinato contro l’ambasciata USA ed il Comando NATO a Kabul, attribuito al clan di Haqqani di cui fanno parte gli estremisti afgani e dopo altri decine di micro episodi terroristici concentrati nelle ultime due settimane in Pakistan. L’esplosione di una bomba durante un funerale, un attentato su un mezzo pubblico che ha provocato molte vittime fra cui diversi bambini, vari attacchi alle moschee e contro la folla che tradizionalmente frequenta ogni giorno i bazar. Contemporaneamente un segnale del risveglio del terrorismo in Turchia con un attentato ad Ankara, che ieri ha ucciso tre persone e ferite altre 15. Un atto che il governo turco si è affrettato ad addebitare al PKK e compiuto mentre il Presidente Recef Tyyip Erdogan si sta proponendo come riferimento politico delle popolazioni protagoniste della primavera araba. Il “Partito dei Lavoratori del Kurdistan”, emanazione di un’organizzazione maoista di Ankara e caratterizzato da una spiccata connotazione marxista – leninista che, in passato, è stato protagonista in Turchia della lotta clandestina contro il governo istituzionale. Se venisse confermata la matrice dell’attentato ad Ankara, si deve prendere atto che due entità eversive, Al Qaeda ed il PKK, pur caratterizzate da differenti posizioni ideologiche, stanno applicando tecniche eversive per scopi molto simili: compiere atti terroristici per screditare le istituzioni locali ed indurre la popolazione a ribellarsi. Si ritorna al terrore in Centro Asia coinvolgendo anche la Turchia membro della NATO e dove in questi giorni si constata il risveglio di un approccio “neo ottomano” che potrebbe infastidire il disegno politico ipotizzato da Al Qaeda per l’immediato futuro dell’ Afghanistan e delle aree africane toccate dalla primavera araba. Un risveglio terroristico che si concentra, peraltro, nei giorni in cui l’ONU sta affrontando la richiesta palestinese del riconoscimento come Stato sovrano ed Israele è osteggiata dalla stessa Turchia e dall’ex alleato egiziano. Un insieme di eventi che avvengono mentre il Presidente iraniano Mahumud Ahmadinejad invita il moderato re di Giordania a partecipare ad incontri politici “per affrontare questioni regionali di interesse dei due Paesi” ed attacca l’Italia, la Francia e gli USA definendoli criminali “che per lungo tempo si sono spartiti ed hanno saccheggiato le terre dei Paesi islamici”. Non è quindi azzardato ipotizzare che sulla scena mondiale si stanno configurando nuovi assetti geostrategici che potrebbero lasciare spazio a nuove forme di terrorismo difficilmente prevedibili e concentrate nelle aree dove maggiore è l’incertezza politica ed economica dovuta a cambiamenti di assetto politico. Paesi in cui, peraltro, potrebbero innescarsi condizioni di malessere fra le popolazioni sconcertate per il mancato raggiungimento di illusorie promesse di benessere e democrazia. Al Zarqawi e la nuova nomenclatura di Al Qaeda stanno sicuramente monitorando attentamente l’evolvere della situazione e con altrettanta certezza saranno pronti a riconfermare l’obiettivo iniziale di Al Qaeda. “Uccidere gli americani ed i loro alleati civili e militari è un dovere di ogni mussulmano”, sentenza islamica fondamentalista (fatawa) pronunciata a suo tempo da Bin Laden e di cui si potrebbero appropriare anche realtà islamiche fino ad ora moderate, a totale danno della sicurezza internazionale. Segnali importanti che non possono essere sottovalutati per non correre il rischio di trovarsi ancora impreparati ad affrontare situazioni estreme, come quella dell’11 settembre.
21 settembre 2011 – ore 17.00

venerdì 16 settembre 2011

Al Qaeda non ha abbassato la guardia

Dopo dieci anni dall’attentato alle Torri Gemelle, il terrorismo internazionale è ancora vivo ed in grado di colpire. Il decennale dell’evento terroristico che ha cambiato il mondo è stato appena celebrato, ma i segnali che lo hanno preceduto e seguito non sono incoraggianti. Il messaggio video pubblicato su Internet da Ayman al – Zawahiri, per “commemorare” l’attacco nel cuore degli USA è stato chiaro. Il titolo stesso “l’alba di una vittoria imminente”, celebra il successo della primavera araba in Nord Africa e rivendica il ruolo storico di Al Qaeda per aver favorito l’escalation delle rivolta delle piazze. Nel filmato della durata di un’ora, è ricordato l’attacco alle Torri Gemelle, con parole che preannunciano una ripresa delle attività eversiva. “Sono passati dieci anni dagli attentati di New York, Washington e Pennsylvania ……..ed il popolo arabo è stato liberato dalle catene della paura e del terrore…..la Primavera araba ha dimostrato che gli arabi non temono più gli Stati Uniti e sono pronti alla riscossa….”. Frasi che molti analisti hanno interpretato come un segnale diretto alle cellule di Al Qaeda sparse nel mondo perché favoriscano qualsiasi movimento reazionario; in Asia Centrale, sulle rive del Mediterraneo e nell’Africa subsahariana. Il messaggio è stato immediatamente riscontrato da eventi che non lasciano spazio all’interpretazione. L’attacco a Kabul contro le sedi diplomatiche occidentali, il Comando della NATO e la sede della struttura di Intelligence afgana, è stato compiuto con tecniche terroristiche accompagnate da un vero e proprio coordinamento tattico di guerriglia urbana. Un atto preparato e non improvvisato da schegge impazzite. Piuttosto una dimostrazione di forza sviluppata secondo una pianificazione dettagliata e rivendicata dal network di Haqqani, una fazione afgana che coagula forze eversive locali a vecchi quaedisti. Il giorno precedente alla ricorrenza dell’11 settembre, l’assalto all’ambasciata israeliana del Cairo che ha costretto alla fuga l’ambasciatore di Yitzhak Levanon. Un’offensiva che fonti israeliane addebitano ad elementi legati a Jama’a al Islamica, movimento di fondamentalisti islamici vicino ad Al Qaeda, uscito per la prima volta allo scoperto nel 1981 quando fu ucciso il Presidente egiziano Anwar al-Sadat e protagonista nel 1997 del massacro di turisti occidentali avvenuto nella Valle delle Regine in prossimità di Luxor. Lo stesso Petraeus, da poco responsabile dell’Intelligence USA, ha recentemente manifestato la propria preoccupazione per la frammentazione di Al Qaeda con una disseminazione di cellule nel mondo fra cui un’importante presenza terroristica nella Penisola Arabica, collegata alle strutture eversive da tempo presenti in Yemen e pronta ad interfacciarsi con le componenti africane. L’ex Comandante NATO in Iraq ed in Afghanistan, invita a non sottovalutare la situazione che, secondo le sue valutazioni, è in continuo peggioramento anche per la crescente presenza di terroristici in Somalia dove, giorno dopo giorno, sorgono campi di addestramento per la formazione di potenziali terroristi, molti anche occidentali vicini all’estremismo islamico. Ad Amman i diplomatici israeliani sono stati costretti a fuggire sotto la spinta di imponenti manifestazioni di piazza. Una prova che anche la Giordania, da sempre alleata degli USA e dell’Occidente e distante dal fondamentalismo islamico, ospita ora gruppi di estremisti antioccidentali ed anti israeliani. Quello che in queste pagine è stato definito da tempo “il possibile autunno arabo”, probabilmente è prossimo ad esplodere ed a coinvolgere anche altri Paesi mussulmani moderati, proponendo nuove realtà che potrebbero influire sugli equilibri ancora instabili da poco raggiunti nelle aree mussulmane dell’Africa. Uno scenario in cui attualmente è anche protagonista il Presidente turco, Recep Tyyip Erdogan, impegnato a proporsi come guida della svolta democratica in Egitto, Tunisia, Libia a garanzia della sicurezza in tutto il Mediterraneo Occidentale. Erdogan che gestisce uno degli eserciti più potenti del mondo al quale il defunto Presidente Atatuk aveva affidato la difesa della laicità contro l’estremismo islamico, contrasta ora Israele e nello stesso tempo è pronto ad ospitare in Anatolia un potente radar con evidenti finalità anti iraniane. Un approccio ancora poco chiaro quello della Turchia che seppure proiettata verso l’Europa e membro della NATO, è improvvisamente impegnata in un approccio politico anti israeliano e vicino agli storici avversari di Tel Aviv. Una situazione molto sfumata, difficile da connotare e di cui la nuova nomenclatura di Al Qaeda potrebbe approfittare rinvigorendo la sua azione eversiva questa volta non diretta solo contro l’Occidente, ma anche pronta a colpire la stabilità di quella parte del mondo islamico moderno e moderato che tenta di affermare la laicità della politica, avulsa da qualsiasi forma di estremismo fondato che si richiami al fanatismo religioso.
16 settembre – ore 10,30

domenica 11 settembre 2011

11 settembre 2001. Il mondo ha scoperto il terrore

Dieci anni orsono l'attentato alle Torri Gemelle di New York. Un evento avvenuto quando il mondo già guardava fiducioso al futuro, dopo un XX secolo nel corso del quale si erano succeduti due conflitti mondiali e che aveva segnato la fine della Guerra Fredda. Improvvisamente, invece, si abbatte la scure dell’11 settembre e tutto cambia. Nell'arco di 15 minuti quasi 3000 morti, gente di 90 Nazioni differenti. E’ l’inizio di una nuova era di instabilità ed insicurezza internazionale. Sono trascorsi dieci anni da quel giorno, un arco di tempo non congruo per l’analisi storica di un evento di tale portata, ma sufficiente per fare un punto di situazione sulle implicazioni sociali, antropologiche e geostrategiche che l’accaduto ha determinato. Una prima conseguenza, sicuramente non prevista da chi aveva voluto l’azione terroristica; l’immediato coagulo della comunita' internazionale coesa e determinata come mai a fronteggiare la minaccia su un piano globale. Solo dopo tre settimane i primi bombardamenti sull'Afghanistan per eliminare Bin Laden, l'ideatore dell'attentato, un saudita a capo dell’organizzazione terroristica Al Qaeda, nata negli ani ’80 con il sostegno occidentale, per cacciare l’invasore sovietico da dieci anni in Afghanistan e per accelerare la caduta del regime comunista. La vecchia struttura di Al Qaeda è stata profondamente minata alle fondamenta, ma l’ideologia che l’aveva sostenuta è ancora viva e condivisa dagli estremisti islamici. Il suo leader, lo Sceicco del terrore Bin Laden e' stato ucciso nel momento in cui non rappresentava più il riferimento del nuovo terrorismo nato dalle ceneri delle Torri Gemelle ed affidato alle numerose cellule eversive originate dalla disgregazione della struttura monolitica che aveva pensato ed attuato l’attentato dell’11 settembre. Una polverizzazione destinata nel futuro a mantenere ancora alta la minaccia che in questi anni l’impegno internazionale non è riuscito a cancellare. AL Qaeda si è ristrutturata almeno in altri 40 Paesi. In USA, in Canadà, nei Balcani con una significativa comunità in Bosnia Herzegovina, lungo le coste africane del Mediterraneo e nell’Africa subsariana con una presenza significativa di elementi nel Magreb islamico. Siamo di fronte, quindi ad nuovo network terroristico a macchia di leopardo che praticamente tocca tutti i Continenti. In Afghanistan, affidato ai Talebani più radicali che fanno riferimento al clan degli Haqqani ed al Signore della Guerra Nazir Ahamad. Nella fascia desertica africana che all'altezza dei tropici attraversa la Somalia fino alla Mauritania, operano i quaedisti del Magreb islamico (Aqmi) alleati con le bande criminali che scorazzano nel Niger. Le fazioni Al Shabab mantengono alta la tensione nel Corno d’Africa e sono in costante collegamento con i “fratelli” insediati nello Yemen per minacciare le rotte energetiche che passano per il Golfo di Aden dirette ad Occidente. Nuove realtà che si sono strutturate nonostante l’mpegno politico e militare sostenuto dalla Comunità internazionale in questi dieci anni è stato, per taluni aspetti, anche superiore a quello affrontato durante il Secondo Conflitto Mondiale. La guerra infinita in Afghanistan, la guerra in Iraq e gli atti terroristici subiti a Nassirya, a Madrid ed a Londra, nonchè l’impegno armato in Libia rappresentano gli atti principali. Uno sforzo che però non ha portato alla vittoria definitiva contro il terrorismo, ma, invece, ha condizionato e trasformato la politica estera degli USA e del Vecchio Continente. L’Occidente che fino ad ora aveva dimostrato determinatezza a combattere sul nascere qualsiasi leadership eversiva, è, infatti, oggi costretto ad accettare una serie di compromessi, alcuni di sostanziale importanza come gradire che uno dei vertici militari delle Forze di Liberazione libiche sia Abdle Hkim Belahj, ex militante di Al Qaeda veterano dell’Afghanistan e già ospite di Guantanamo. Oppure, abbandonare in Afghanistan chi ha creduto nell’Occidente ed in Washington pur di convicere i talebani a trattare. Rimanere indifferenti di fronte alla feroce repressione siriana gestita da Bashar Assad fedele alleato dell’Iran e che fino ad ora ha provocato più di 30 mila morti. Rinnegare improvvisamente antiche alleanze, aprendo lo spazio a leadershp non meglio connotate con il rischio di facilitare l’inserimento di entità minoritarie come Hamas, gli Hezbollah e la nuova Al Qaeda che potrebbero vanificare lo sforzo compiuto per l’avvio del processo democratico appena iniziato nei Paesi islamici a ridosso del Mediterraneo. In conclusione, a dieci anni dall’attentato alle Torri Gemelle l’antica Al Qaeda ha subito pesanti sconfitte, ma nuove realtà sono presenti sullo scenario mondiale, alcune forse più pericolose della granitica organizzazione che si rifaceva ai dogmi dello Sceicco del terrore Bin Laden. Un quadro di situazione sicuramente non favorevole per la sicurezza internazionale e reso ancora più complesso dalla repressione del siriano Assad e dall’inversione di tendenza di Paesi come la Turchia. Ad Ankara, Erdogan sta prendendo le distanze dall’Occidente. Se un giorno venisse sconfitto sul piano politico potrebbe diventare un nuovo modello per l’Iran, per Hamas e per gli Hezboillah libanesi. Non seguire attentamente l’evolvere di questa situazione significherebbe commettere lo stesso errore compiuto prima dell’attentato dell’11 settembre 2001, data che, invece, dovrebbe aver insegnato al mondo che il contrasto al terrorismo deve essere soprattutto preventivo.

11 settembre, ore 00.00

mercoledì 31 agosto 2011

Al Qaeda fra i ribelli libici

Gheddafi, anche se in chiave strumentale, ha in passato denunciato che i “pupari” della primavera araba fossero vicini ad Al Qaeda. Una tesi letta con sospetto in quanto ufficializzata da un Rais con l’acqua alla gola e stretto all’angolo dai ribelli libici. Oggi, però, assume connotati più credibili nel momento che Ahmed Shabani, fondatore del “partito democratico libico” e di sicuro orientamento liberale, formula da Londra l’ipotesi che elementi di Al Qaeda siano presenti in maniera consistente fra gli insorti. Un’eventualità da verificare urgentemente e comunque da non sottovalutare e che potrebbe essere sfruttata dallo stesso Gheddafi che, sconfitto, sarebbe capace di ritornare al suo vecchio mestiere di terrorista. Non a caso, sono sempre di più confermate le voci di ruoli determinanti nella rivolta libica di noti ex appartenenti all’organizzazione terroristica di Al Qaeda. Abu Obeid al Jarah impegnato a Bengasi e Abdel Hakim Belhaj a Tripoli, ambedue noti estremisti islamici vicinissimi alla vecchia ideologia di Osama Bin Laden. Per non dimenticare il possibile network che il defunto numero due di Al Qaeda, il libico Atya Abdel Rahman, vice dell’egiziano Ayman al - Zawahiri e da poco ucciso dagli USA in Pakistan, potrebbe aver strutturato in Libia. Un terrorista di vecchio stampo, leader del Gruppo Combattente islamico libico, fondato nel 1990 dai mujaheddin libici che avevano combattuto in Afghanistan, notoriamente molto legato ai clan libici vicini ai militanti di Al Qaeda, da tempo presenti fra le alture della Cirenaica ed in stretto collegamento con le cellule operative in Maghreb. Una vicinanza ad Al Qaeda confermata da tempo da fonti molto vicine all’intelligence israeliana che poco dopo l’inizio dell’intervento militare NATO contro Gheddafi, hanno iniziato a riferire un incremento sempre in crescita della fornitura di armi ai palestinesi di Gaza; SA-7 ed RPG che arrivano proprio dalla Libia per opera di simpatizzanti di Al Qaeda. La guerra in Libia è finita come hanno deciso molti dei media e dei Governi occidentali, ma a Tripoli ed a Sirte si continua a sparare e Gheddafi ancora non è stato catturato. Gli stessi ribelli libici paventano colpi di coda del Rais che potrebbe ricorrere proprio ad atti terroristici anche utilizzando il potenziale di armi chimiche di cui il regime disponeva e che, probabilmente, sono nascosti in depositi vicini al confine con il TChiad. L’indeterminatezza è molta e sicuramente non aiuta a stabilizzare il Paese almeno fino a quando Gheddafi non sarà catturato, nonostante che l’ONU continui a portare avanti iniziative di “esportazione della democrazia” che irrimediabilmente saranno destinate ancora una volta a fallire. Notizie di stampa, infatti, riportano oggi che le Nazioni Unite abbiano già dato mandato a Ian Martin, ex direttore britannico di Ammesty International, di redigere un documento in cui sia indicata la “Road Map” che Tripoli dovrà seguire per raggiungere la democrazia. I berberi che hanno liberato Tripoli, peraltro guidati da un ex di Al Qaeda catturato in Afghanistan e prigioniero fino al 2004 a Guantanamo, sicuramente non saranno disposti ad accettare modelli di democrazia lontani dalla cultura islamica, una realtà che l’Occidente ancora non ha compreso o non vuol intendere a totale danno della sicurezza internazionale.
31 agosto 2011 - 17,30

martedì 23 agosto 2011

Missili Scud su Misurata

23 agosto 2011, 6 mesi di bombardamenti NATO sulla Libia e Gheddafi ancora riesce a lanciare missili SCUD su Misurata. Lanci imprecisi, si affretteranno a dire gli stessi esperti militari che nello stesso modo hanno frettolosamente giudicato un precedente lancio missilistico contro la fregata italiana “Bersagliere”. Un segno della frustrazione degli sconfitti ripeterà la Farnesina, dimenticando, però, di chiarire agli italiani la ragione per cui ad ore dalla sconfitta finale, Gheddafi riesce ancora a gestire un attacco missilistico. Gli eventi stanno precipitando a Tripoli, la gente muore nelle strade, compresi i bambini. Al Jazira continua a gestire l’informazione come ha fatto durante tutta la primavera araba, prediligendo di riproporre le medesime immagini, spesso anche datate; civili che festeggiano la vittoria sparando in aria. Nessuna notizia, invece, sui “colpi di coda” di Gheddafi. Un’informazione parziale ripresa quasi integralmente dalla maggior parte dei mass media occidentali, che non aiuta l’opinione pubblica a capire ed a condividere la spesa dei miliardi di dollari sostenuta dai Paesi che partecipano ai bombardamenti NATO, con lo scopo di “garantire” il rispetto della risoluzione 1973 dell’ONU. Gheddafi, invece, lancia ancora missili ed il figlio primogenito Saif al Islam organizza una conferenza stampa, mentre i ribelli accerchiano la sua residenza. Ancora una volta, dunque, l’informazione unidirezionale è protagonista come lo è stato nel corso di tutta la primavera araba e quando ci propone i massacri in Siria, dimenticando di approfondire tematiche importanti come, ad esempio, la consistente presenza di donne velate in occasione delle manifestazioni libiche, sicuramente distanti nella concezione del Governo provvisorio di transizione libico e forse anche dello stesso Gheddafi. Episodi che, invece, andrebbero proposti per essere oggetto di approfondita analisi, in quanto potrebbero rappresentare un segnale significativo per il futuro delle popolazioni dell’area islamica dell’Africa mediterranea. Popoli che ormai liberi dalle quarantennali dittature monocratiche, potrebbero invece rischiare di essere improvvisamente fagocitati da Governi permeati da fanatismo ed estremismo religioso, sicuramente lontani dall’auspicata conquista di ogni forma di democrazia.
23 agosto 2011 - ore 15,30

lunedì 22 agosto 2011

L’autunno caldo arabo è alle porte

Come era prevedibile i risultati delle “primavere arabe” non sono stati finora rispettati e si inizia a subirne gli effetti. I manifestanti che hanno portato alla caduta di Mubarak e di Bel Alì vedono, infatti, allontanarsi sempre di più la possibilità di raggiungere gli obiettivi che erano stati loro promessi, con la garanzia affrettata di tutto l’Occidente ed in particolare dell’Europa non preparata a valutare con attenzione ciò che avveniva a ridosso dei propri confini meridionali. In queste ore si avvicina sempre di più anche la fine di Gheddafi ed un altro Governo provvisorio, anche esso affrettatamente riconosciuto da molte Cancellerie occidentali, si accinge a prenderne il posto per gestire la stabilità di un Paese che si è sempre riferito agli equilibri tribali, piuttosto che ad una coesione nazionale consolidata. Non è certo, quindi, che alla popolazione libica, ormai dissanguata da sei mesi di guerra civile, potrà essere garantita con immediatezza quella democrazia in nome della quale i giovani di Bengasi sono scesi in piazza contro il Rais. E’ sicuro, invece, che tutte le popolazioni islamiche protagoniste della primavera araba sulle sponde del Mediterraneo, dovranno convivere con un periodo, anche lungo, di instabilità, di cui potrebbero approfittare forze eversive come Al Qaeda od altre organizzazioni terroristiche emergenti. Gli attentati avvenuti nel Sinai il 18 agosto dimostrano che l’eventualità di una nuova minaccia non è lontana dal trasformarsi in realtà. Un pericolo molto simile a quello vissuto alla fine degli anni ’90, quando nel 1997 furono sferrati feroci attacchi a Luxor nella Valle delle Regine contro le comunità occidentali presenti nell’area. Gli avvenimenti di questi giorni avvenuti nella Penisola del Sinai dimostrano che l’Egitto del post Mubarak ha perduto il controllo di questa importantissima fetta di territorio egiziano. Un’area geografica di elevata valenza strategica per la sicurezza di Israele, la stabilità Medio Orientale, e prospiciente al Golfo di Aden, attraversato quotidianamente dal flusso energetico diretto verso il Mediterraneo. L’intelligence egiziana non è stata in grado di prevenire gli eventi nonostante che Gerusalemme da tempo segnalasse il costate aumento del controllo dell’area da parte delle tribù di beduini, molto vicini all’eversione araba ed alla stessa Hamas, ed avesse rappresentato il pericolo che intorno a costoro potessero coagularsi gruppi della resistenza popolare egiziana. Gruppi storicamente molto vicini ideologicamente ad Al Qaeda e sostenuti economicamente e militarmente da Teheran. Cellule che,oggi, sicuramente possono fare riferimento anche al nuovo capo di Al Qaeda, l’egiziano Ayman Al-Zawahiri, che, attraverso costoro, potrebbe vedere realizzato il suo sogno politico di distruggere lo Stato egiziano che l’ex Presidente Mubarak aveva avvicinato all’Occidente e ad Israele. Ma i segnali preoccupanti non si fermano al solo deserto del Sinai. Il Presidente siriano Assad seguita a non mantenere le sue promesse per un cambiamento democratico del Paese e continua a reprimere con la forza le dimostrazioni di piazza, fiducioso della protezione della Russia pronta a sottolineare nelle Sedi ufficiali la scarsa efficacia politica delle dichiarazioni del Presidente Obama sulla situazione di Damasco. Anche dallo Yemen arrivano segnali preoccupanti. Una serie di nuovi attentati sta sconvolgendo il Paese e fonti ben informate della CIA parlano di un risveglio dell’eversione jihadista presente nel Paese che sembra stia preparandosi ad effettuare attentati con l’utilizzo di bombe sporche. E’ stato, infatti, accertato, che alcune cellule eversive di Al Qaeda attive nello Yemen stiano cercando di acquistare notevoli quantitativi di semi di ricino, sostanza che miscelata ad altre sostanze chimiche rappresenta la base per ricavare potenti aggressivi letali per l’uomo. Anche in Iraq è in atto un risveglio terroristico. Dal 15 agosto ad oggi una serie di attentati quotidiani ha provocato oltre 80 morti e più di 300 feriti. Avvenimenti che lasciano pensare ad una ripresa del terrore rivolto a colpire gli interessi Occidentali, coinvolgendo anche coloro che illusi dalle facili promesse delle manifestazioni di piazza dell’inizio dell’anno potrebbero trovare nell’estremismo eversivo il mezzo per affermare la propria identità sociale e politica. E’ certo che nei Paesi emergenti dalla primavera araba tutto ciò che era stato promesso presto e subito, difficilmente potrà essere garantito ed è anche intaccata l’efficienza delle strutture di intelligence che operavano sotto il controllo i Mubarak e Ben Alì. Anche la Libia si avvicina verso un periodo di indeterminatezza dopo che Gheddafi sarà definitivamente sconfitto ed è elevata la probabilità che, seppure temporaneamente, si crei una instabilità interna simile a quella dell’Iraq del post Saddam, sicuramente non favorevole alla popolazione. Un clima che potrebbe favorire il radicarsi di forze eversive nei principali Paesi dell’Africa mediterranea e del Corno d’Africa, a ridosso del Golfo di Aden, preparate ed organizzate per minacciare da vicino l’Europa e gli USA. Un pericolo che l’Occidente potrebbe avere difficoltà a contrastare con immediatezza ed efficacia, in un momento di criticità quale l’attuale, in quanto impegnato a fronteggiare la pesante crisi economica che, peraltro, potrebbe essere parte di un disegno eversivo a livello planetario.
22 agosto 2011 - ore 17.00

domenica 7 agosto 2011

Il decennale dell’attentato alle Torri Gemelle

Ci si avvicina al decennale dell’attentato dell’11 settembre 2011, ma nonostante l’impegno internazionale contro il terrorismo, la minaccia ancora incombe sull’Occidente che nel tempo ha dimostrato la propria incapacità di raggiungere gli obiettivi necessari per garantire stabilità nella aree di crisi. Molti gli insuccessi, a partire da quello afgano negli anni ’80 quando per cacciare l’invasore sovietico fu appoggiata indiscriminatamente la resistenza afgana, aprendo di fatto la strada all’affermazione di Bin Laden ed all’insediamento dei Talebani a Kabul. A seguire, la Prima Guerra del Golfo con un modesto successo limitato alla sola liberazione del Kuwait, ma che non riuscì ad annullare la repressione di Saddam contro le minoranze sciite e curde. Poi, il fallimento dell’Operazione “Restore Hope” voluta dall’ONU per aiutare la popolazione somala ad uscire dal baratro di una sanguinosa guerra civile, finita dopo tre anni senza risultati mentre, giorno dopo giorno, si consolidava nel Paese l’estremismo islamico e si insediavano cellule di Al Qaeda nel Corno d’Africa. Oggi, anche se in un quadro geopolitico totalmente diverso, Si stanno rivivendo, seppure attualizzati, quei momenti. In Afghanistan la Comunità internazionale è impegnata da quasi dieci anni in un intervento militare a suo tempo proposto come un’azione di brevissima durata. I risultati sembrano lontani dall’obiettivo iniziale che voleva restituire al popolo afgano democrazia e libertà. I Talebani, infatti, facendo affidamento solo ai modestissimi lanciarazzi RPG ed ai fucili mitragliatori ereditati dai sovietici, si oppongono con significativi successi alle agguerrite e super equipaggiate Forze della NATO e sicuramente non sono disposti a cedere terreno e potere a Karzai. In Iraq, dopo sette anni dalla cacciata di Saddam, la stabilità raggiunta è quanto mai aleatoria e precaria. Manca un governo credibile ed efficace ed il concetto di democrazia è ben lontano nell’essere applicato in particolare nei confronti delle minoranze. Insuccessi che la comunità internazionale ha accumulato nel tempo e nel mondo e che sempre di più evidenziano la scarsa efficacia del ruolo politico delle Nazioni Unite ancora strutturate secondo un modello organizzativo valido per la fine del Secondo Conflitto Mondiale, ma oggi inappropriato dalla burocrazia politica ed impastoiato dal veto di Paesi come la Cina padrone dei debiti sovrani di molti Stati. Oggi sono assolutamente prive di efficacia le risoluzioni e gli ammonimenti dell’ONU che non aiutano a favorire la crescita della stabilità nel mondo, specialmente se vincolate a schemi di “convenienza”, peraltro diversi da situazione a situazione . Dopo un periodo di relativa calma e proprio a ridosso dell’11 settembre improvviso il ripresentarsi di situazioni estreme che varcando i confini del Centro Asia hanno cominciato ad espandersi verso Occidente arrivando sulle rive del Mediterraneo, minacciando da vicino l’Europa e tutto l’Occidente. Vari gli episodi e le forme di reazione. La “primavera araba” contro i regimi dittatoriali di Egitto e Tunisia e che ha coinvolto tutte le popolazioni islamiche del Medio Oriente fino al Golfo Persico. In Siria, la popolazione da mesi manifesta sulle piazze e subisce la dura repressione del regime sotto la quasi totale indifferenza delle Nazioni Unite. Solo una “paterna” raccomandazione di ieri da parte di Ban Ki - Moon ad Assad, con la quale il Segretario delle Nazioni Unite ha espresso al Presidente siriano la sua ”preoccupazione” per quanto sta accadendo in Siria. In Yemen non c’è giorno che non ci siano attentati o moti di piazza; altrettanto in Barheim ed in Oman. In Algeria ed in Marocco la situazione non è delle più calme mentre l’ennesimo intervento occidentale voluto per fermare Geddafi dura da più di 4 mesi con risultati sicuramente non positivi. La Libia è oggetto di bombardamenti quotidiani realizzati con i più sofisticati sistemi militari dell’era moderna. Fino ad oggi da marzo 2011 quasi 18.000 missioni aeree con 7000 attacchi mentre un massiccio schieramento navale presidia il Golfo della Sirte e tutto il Mediterraneo meridionale. Uno sforzo che però non impedisce che Geddafi continui a lanciare missili e naviglio clandestino parta dalle coste libiche riversando in Occidente migliaia di poveri profughi fra cui, con elevata certezza, una significativa componente di possibili cellule eversive. Un Rais, quello libico, tuttaltro che impensierito dalla pressione NATO e che con le sue reazioni belliche incrementa la propria credibilità agli occhi del mondo arabo e di quello africano, perché dimostra di essere ancora in grado, dopo quattro mesi, di fronteggiare un macchina da guerra modernissima come quella messa in campo dalla NATO. In Somalia la guerra civile è ripresa, i fondamentalisti attaccano la popolazione affamata dalla carestia e si appropriano degli aiuti dell’ONU vanificando l’intervento Occidentale anche se solo umanitario. Le cellule di Al Qaeda dislocate nel Magreb stanno rinforzando le proprie posizioni nella regione africana e guardano con attenzione a quanto accadrà in autunno nella Tunisia e nell’Egitto liberate dai dittatori. L’organizzazione nel frattempo si rifornisce di armi recuperate sul territorio libico e, notizia di oggi, sembra si stia insediando in Sinai dove l’Egitto ha improvvisamente rinforzato i presidi militari. Sicuramente non siamo di fronte ad episodi isolati, ma ad un probabile rinvigorimento dell’eversione terroristica sul piano globale. Episodi non più concentrati come gli eventi dell’11 settembre, ma sparsi a macchia di leopardo, più difficili da controllare e prevenire. Non in ultimo l’attentato di Oslo realizzato sicuramente da un pazzo, un mitomane invasato da spinte ideologiche assurde che però ripropone il rischio di atti terroristici di “lupi solitari” che potrebbero trovare favorevoli condizioni in questo momento di globale incertezza economica e politica. Individui oggetto di plagio da organizzazioni dislocate sul territorio che, approfittando delle debolezze psicologiche del possibile attentatore, potrebbero esaltarne l’approccio estremistico e paranoico. In questi giorni, ai fatti in Norvegia, ai colpi di coda dei Talebani in Afghanistan, alla ripresa seppure modesta delle manifestazioni di piazza in Egitto, si aggiunge un’ulteriore minaccia sul piano globale, quella economica. Tutto il mondo finanziario occidentale, infatti, è toccato da un’incisiva azione speculativa che solo grosse risorse finanziarie, come ad esempio i fondi sovrani, potrebbero concretizzare. A chi giovi tutto ciò non è semplice affermarlo anche se è meno difficile ipotizzarne i motivi. Certo è che il pericolo di instabilità tornato a livelli antecedenti agli eventi dell’11 settembre è oggi incrementato dalle titubanze politiche dei Governi occidentali e dai messaggi dei facili profeti del terzo secolo che, come il Presidente Obama, illudono le popolazioni promettendo loro sicure democrazie e benessere prospettando soluzioni politicamente corrette e coerenti con il rispetto dei diritti umani, ma forse utopistiche sul piano concreto. In questo quadro di situazione non è remoto che la ricorrenza del decennale dell’11 settembre possa segnare un inizio di una nuova stagione, un “autunno arabo” provocato dalla illusione di chi ha rischiato la propria vita per raggiungere determinati obiettivi e si accorge di trovarsi di fronte ad un miraggio.

7 agosto 2011, ore 17,00

giovedì 4 agosto 2011

Geddafi è’ ancora operativo

Da mesi la NATO sta bombardando la Libia impiegando i più sofisticati mezzi militari messi a disposizione dalla tecnologia moderna, ma Geddafi dimostra di essere ancora in grado di contro attaccare. Il Rais non solo non si arrende, ma dimostra di essere pronto ad utilizzare un potenziale bellico importante. Il portavoce del Governo libico, Mussa Ibrahim ieri a Tripoli, in occasione di una conferenza stampa, ha rivendicato il lancio di un missile contro la fregata italiana “Bersagliere” in pattugliamento di fronte alle coste libiche. Il missile è caduto in mare, due chilometri a poppa, probabilmente un lancio “mirato” non andato a bersaglio per un mero errore di calcolo della velocità e della distanza della nave. Un’imprecisione davvero piccola se si considera che la fregata era a 10 km dalla costa ed in movimento parallelo alla terra ferma. Margini di errore modesto che portano a pensare che non si sia trattato di un missile alla fine della gittata e caduto in mare per gravità, come molte fonti ufficiali hanno riferito. Poco condivisibile, inoltre, anche il comunicato della Farnesina che ha catalogato l’episodio come un “gesto di frustrazione del regime”, che invece ha dimostrato, dopo mesi di combattimento, di essere in grado di gestire ancora una parte del proprio arsenale offensivo e non si sente turbato dai possibili esiti della guerra in corso. Altri esperti hanno parlato di un razzo terrestre sfuggito al controllo in quanto l’utilizzazione di un missile avrebbe imposto all’Esercito libico di attivare un radar che sarebbe stato immediatamente rilevato e distrutto. Un parere tecnicamente condivisibile, ma che dimentica che fin dalla Prima del Golfo, Saddam eludeva l’aviazione avversaria lanciando i propri SCUD da rampe mobili e, quindi, difficilmente rilevabili in tempo reale. Piuttosto l’episodio, dovrebbe spingere a chiedersi come mai dopo mesi di bombardamenti e dopo che ormai da tempo sono operative sul territorio libico forze speciali della NATO, il Rais ancora riesce a gestire ed utilizzare missili e/o razzi seppure di media gittata, sottraendone l’esistenza all’osservazione ed all’intelligence avversario. L’Esercito libico ha comunque raggiunto uno scopo di significativa valenza militare. Ha costretto la nave italiana e forse tutte le altre unità navali della NATO presenti nell’area, ad allontanarsi dalla costa, con una conseguente minore efficacia dell’azione di pattugliamento marittimo svolto per garantire un blocco navale contro i possibili rifornimenti diretti ai governativi. Il lancio per fortuna è fallito ma le forze governative libiche hanno dimostrato ancora una preoccupante operatività, nonostante la risoluzione 1973 dell’ONU.
4 agosto 2011 - ore 12,45