venerdì 25 febbraio 2011

L’emergenza umanitaria in Libia è destinata a crescere

In Libia l’emergenza umanitaria che si sta configurando potrebbe crescere a dismisura in termini di numero di morti e feriti non solo determinati dalla repressione in atto. Se la marea di profughi aumentasse e fossero chiuse le frontiere lungo le strade che conducono in Egitto ed in Tunisia, la gente potrebbe scegliere di percorrere il deserto per fuggire dalla Libia. In questo caso sarebbe elevatissimo il rischio che costoro vadano ad incappare in ordigni bellici non esplosi (mine e quanto altro) ancor attivi e sparsi sul terreno. In territorio egiziano ci sono moltissimi campi minati realizzati con ordigni di nuova generazione impiegati dall’Esercito di Mubarak negli anni cinquanta - sessanta ai quali si aggiungono gli ERW (Explosive Remants of the War) ancora funzionanti che risalgono alla Seconda Guerra Mondiale. Mine antipersona ed anti carro concentrate nella zona tra la depressione di al Quattara ed Alamein, intorno alla città di Marsa Matrouh e di al Sallum, vicino al confine libico. Nel maggio del 2010 fonti governative egiziane responsabili dello sminamento e dello sviluppo della costa nord-occidentale hanno denunciato la presenza di più di 16 milioni di mine su una superficie stimata di 248 kmq ed ulteriori 5,5 milioni di ordigni antiuomo risultano essere state posate nel Sinai e nel deserto nord orientale. Per quanto attiene alla Libia non si conoscono numeri certi in quanto non è stato mai possibile effettuare rilevamenti sul territorio, ma per quanto noto la situazione è altrettanto pericolosa. Sul territorio libico esiste una consistente contaminazione da ERW che risalgono al Secondo Conflitto Mondiale ancora attivi ed ai quali si aggiunge quanto ereditato dai conflitti con l'Egitto nel 1977 e con il TCiad dal 1980 al 1987. Inoltre in territorio libico è acclarata una presenza consistente di mine lungo tutte le linee di confine con il TCiad, l’Egitto e la Tunisia. Una situazione estremamente pericolosa per chi volesse attraversare il confine percorrendo il deserto, Costoro potrebbero incappare in questi ordigni che esplodendo ucciderebbero o provocherebbero lesioni ed invalidità permanenti. Esiste anche il rischio che nel deserto possano esistere “isole minate” a difesa dei depositi militari e dei probabili siti di stoccaccio di sostanze chimiche letali (in particolare gas) che quasi sicuramente Gheddafi non ha totalmente distrutto all’atto della dichiarazione della messa a bando delle armi chimiche. Le zone più a rischio sono quelle dislocate a ridosso del confine del TChiad e delle aree della Marmarica a ridosso dell’Egitto e del Sudan. Peraltro, se Gheddafi decidesse di dare un ultimo colpo di coda utilizzando anche armi chimiche come peraltro ipotizzato dall’ex Ministro libico Mustafa Abdel Galil (fonte ANSA), il disastro umanitario che coinvolge la popolazione locale potrebbe crescere a dismisura estendendosi anche ad altre realtà confinanti con la Libia. Un’altra faccia della medaglia che forse meriterebbe attenzione dell’Unione Europea che sta ancora meditando.

25 febbraio 2011 - ore 16,00

giovedì 24 febbraio 2011

I Ministri europei pensano ed in Libia si muore

La storia si ripete. L’Europa sta pensando, come avvenuto in passato per i Balcani durante l’assedio di Sarajevo ed il genocidio in Kosovo. Ora, i Ministri europei stanno valutando le possibili ipotesi di intervento in Libia a favore della popolazione e l’Unione e gli USA si limitano a lanciare avvertimenti al governo libico con scarsi risultati. Dall’inizio dell’anno è scoppiata la rivolta in tutta l’Africa settentrionale, a ridosso dei confini meridionali italiani, spagnoli, maltesi e greci, che, interpretando Schengel, dovrebbero coincidere con quelli dell’Unione Europea. Moti di piazza sicuramente non improvvisati che hanno evidenziato un’organizzazione ed un coordinamento di tutto rispetto se non altro perché in due Paesi nell’arco di una, due settimane sono riusciti a costringere all’esilio potenti al governo da trenta anni. Unione Europea e Stati Uniti sono sembrati quasi sorpresi per quanto accaduto e per come è avvenuto. Forse temendo intrusioni di Wikileaks sono venute a mancare le comunicazioni diplomatiche o di intelligence da Tunisi, da Algeri, e dal Cairo ed il castello di carte è improvvisamente crollato. Nemmeno le Delegazioni Europee con i loro uffici al Cairo, a Tunisi ed ad Algeri hanno fornito all’Unione spunti di pensiero premonitori. L’onda anomala, invece, si è immediatamente propagata più a sud ed anche i questo ha colto tutti di sorpresa, nonostante che molti analisti fin dagli inizio di gennaio lo avevano previsto e scritto. Dal 17 febbraio la Libia è a ferro e fuoco, a Bengasi, a Tripoli, sulle sponde meridionali del Mediterraneo si muore ed i Ministri europei hanno cominciato a pensare solo ora. Devono decidere senza fare riferimento ad una benché minima pianificazione di contingenza che se disponibile avrebbe, invece, potuto immediatamente mettere in moto iniziative importanti. Nulla nemmeno per affrontare il problema di prevedibili flussi migratori sulle coste europee e non solo italiane piuttosto che greche, maltesi o spagnole, nonostante che dal 2007 esista il Fondo Europeo per le Frontiere Esterne che prevede, tra l’altro, di assicurare l’organizzazione efficiente delle attività di controllo e sorveglianza dei confini esterni. Nemmeno una pianificazione di base per l’evacuazione di cittadini dell’Unione residenti in regioni sicuramente “non tranquille”, molti espatriati per curare interessi europei oltre che nazionali. La NATO e Clinton si fecero carico dei Balcani fermando una guerra civile ed appropriandosi di un ruolo che sarebbe dovuto essere dell’Europa, ma la “Holding europea” anche in quel momento aveva bisogno di tempo per pensare. Obama oggi più impegnato forse a gestire gli sciiti iraniani piuttosto che gli avvenimenti dell’Africa settentrionale sta dimostrando di non voler farsi carico, almeno per il momento, di problemi oltre oceano. L’Europa seguita a pensare, mentre a Tripoli si muore e quasi 5000 europei sono in attesa di essere evacuati. Speriamo che almeno si stia almeno valutando l’ipotesi che ai confini europei potrebbe addensarsi la nube di una possibile radicalizzazione islamica.

24 febbraio 2011 - 21,00

lunedì 21 febbraio 2011

La rivoluzione islamica dilaga

In questi giorni è ricorrente leggere come Internet abbia facilitato il dilagare dell’onda della rivolta islamica che, dopo aver percorso il Nord Africa, sta attraversando la Libia e si dirige dirompente verso il Medio Oriente toccando il Barheim. Una valutazione in parte condivisibile ma forse troppo semplicistica e che per taluni aspetti ha contribuito inizialmente a sottovalutare il vero rischio che il mondo sta correndo dall’inizio dell’anno, a partire dagli avvenimenti del Magreb. Le analisi pessimistiche esplicitate fin dall’inizio attraverso queste pagine trovano, purtroppo, conferma nella situazione contingente che, peraltro, sembra ancora non suscitare un’incisiva risposta politica occidentale né da parte degli USA né tantomeno dall’Europa che nemmeno rigetta ufficialmente al mittente le minacce verbali della Libia sulla futura gestione dei flussi di disperati che dalle coste africane tentano di arrivare nel Vecchio Continente. Il fronte dell’onda anomala sta dimostrando di essere molto più esteso di quanto si potesse inizialmente ipotizzare, segno evidente che oltre ad Internet stanno giocando un ruolo fondamentale anche altri gruppi estremisti che forse si sono alleati con Al Qaeda, come le organizzazioni sovversive islamiche da tempo protagoniste in tutta l’Africa Centrale. Ipotesi confermate dalle pur scarne e frammentarie immagini che arrivano dalla Cirenaica insieme alle notizie di centinaia di morti per l’uso sconsiderato di armi da guerra contro la folla, attribuite al momento ad un impiego governativo di mercenari. La fotografia di un paramilitare in tuta da combattimento blue ucciso ieri a Bengasi e resa pubblica da molte agenzie di stampa ricorda, per tratti somatici, per equipaggiamento e per tecniche di combattimento, i mercenari provenienti dal Tchiad e dal Niger impiegati in passato nelle carneficine contro i cristiani, in Nigeria, nel Darfur e nel sud Sudan, molti dei quali appartenenti a clan islamici estremisti radicati in Africa, in alcuni paesi arabi e dopo Dayton anche dai Balcani. L’Iran, da parte sua, teme di essere “la riva di approdo” dell’onda rivoluzionaria e cerca di evitarlo con un approccio pragmatico sfruttando l’emozione di ciò che sta accadendo in Africa per coprire le azioni repressive interne. Il suo leader religioso Khamenei esprime solidarietà verso i fratelli islamici africani ma nello stesso tempo fa sparare su chi a Teheran tenta di imitarne le gesta. Un Iran che potrebbe a breve dover fronteggiare una situazione simile a quella libica e che si premunisce reprimendo con la forza anche le timide iniziative popolari di riempire la piazza. Come riportato dall’agenzia iraniana Irna, si arresta la figlia dell’ex Presidente della Repubblica Akbar Rafsanjani da sempre critico nei confronti di Ahmadinejad mentre la guida suprema del Paese arringa la folla e denuncia il pericolo che l’Occidente con in testa l’USA, stia approfittando della situazione dei movimenti popolari dell’Africa settentrionale per destabilizzare la regione ed insediare nuovi leader amici. Un Iran che cerca di allontanare lo tsunami dal proprio territorio spingendo le minoranze sciite sparse nel mondo a ribellarsi alle dominanze sunnite. Un esempio è quanto sta avvenendo in Barheim, proprio di fronte alle coste iraniane e quasi a ridosso delle acque territoriali di Teheran. Qui gli sciiti dell’organizzazione Wefaq stanno respingendo qualsiasi proposta di mediazione del monarca Hamad e chiedono le sue dimissioni. Forse la protesta nata come rivolta del pane sta evolvendo per affermare sempre di più un radicalismo islamico che, partendo proprio dall’Iran e dalla Libia, potrebbe riappropriarsi di tutti i Paesi africani rivieraschi sul Mediterraneo da dove, poi, guardare a nord - est verso i fratelli mussulmani della Turchia, della Siria, del Libano, della Giordania e dei Balcani europei. Un network rivoluzionario che potrebbe estendersi al resto del mondo islamico, coinvolgendo il Sudan, l’ Indonesia, le Repubbliche islamiche del Centro Asia e le minoranze dell’estremo Oriente, con effetti devastanti sulle economie occidentali e sulla sicurezza internazionale.

21 febbraio 2011 - ore 12.00

venerdì 18 febbraio 2011

Petraeus il guerriero silurato

Obama non si smentisce e continua a gestire il suoi Generali sul campo come se fossero allenatori di squadre di baseball. Otto mesi fa ha sostituito il Generale Stanley Mc Chrystal già Comandante in Afghanistan della “International Security Assistance (ISAF)” che in un’intervista al Rolling Stone aveva espresso un suo pensiero non condiviso da Presidente. Al suo posto il Generale Petraeus, famoso per essere riuscito ad affrontare con sostanziale successo il terrorismo iracheno. Un esperto di strategia convinto assertore che per contrastare le forme di guerriglia terroristica ha grande valenza un approccio di “riconciliazione” piuttosto che lo scontro armato frontale, in particolare nei casi in cui non si ha il completo e capillare controllo del territorio. Un convincimento che Petraeus non si è mai stancato di sottolineare affermando continuamente, “per non dover uccidere ogni giorno qualsiasi sospetto terrorista in cui ti imbatti, devi cercare di reintegrare quelli che vogliono riconciliarsi”. La Casa Bianca sembra che stia invece accingendosi ad un’altra sostituzione di un Comandante che a giudizio di persone molti vicine al Presidente Obama non è riuscito in tempi brevi a raggiungere i traguardi prefissati e comunque tali da consentire un primo ritiro delle truppe statunitensi nel prossimo luglio. Una valutazione sicuramente politica che però non trova riscontro nella realtà operativa afgana ed è palesemente motivata dall’esigenza di accontentare gli elettori americani che sempre di più chiedono il ritorno dei soldati a casa. Il mese di luglio 2011 come termine per iniziare a ritirare truppe americane è giudicato da Petraeus pericoloso in quanto non congruo con i tempi necessari per il completamento della formazione dell’Esercito di Kabul e della struttura di sicurezza afgana. Immediati i primi contrasti con Obama che in più di un circostanza ha dimostrato di non accettare un aperto confronto con i suoi vertici militari preferendo di affidarsi a funzionari “incolori” pronti ad allinearsi alla linea dettata dalla Clinton. Significativa a tale riguardo, la scelta di responsabili per attuare la riorganizzazione in corso in Afghanistan di esponenti statunitensi di rango. Innanzi tutto, la scelta di Marc Grussman, ex sottosegretario agli affari politici, che dovrebbe prendere il posto del defunto Richard Holbrooke con l’impegno principale di riannodare i deteriorati rapporti USA - Pakistan e la nomina del nuovo ambasciatore a Kabul, Karl Eikenberry, che notoriamente è stato sempre molto critico nei confronti di Petraeus. Il Generale è stato nominato Comandante del Teatro afgano da otto mesi ed ora si parla di una nuova sostituzione proprio nel momento in cui sembra che Petraeus, sulle orme dell’eroe della Seconda Guerra Mondiale Eisenhower, sia fra i possibili repubblicani designati ad opporsi ad Obama nelle prossime elezioni del 2012. Forse Obama è preoccupato di questa ipotesi dimostrando di non nutrire una grande simpatia per un Comandante che è stato sempre vincente e che, come riportato da moltissime testate giornalistiche statunitensi, oltre a godere di una grossa considerazione del Pentagono e dello stesso Congresso, è guardato con simpatia e fiducia da una larga percentuale della popolazione americana. Le voci si rincorrono e mentre il Pentagono smentisce, il Times conferma che sia in procinto di essere attuato un “naturale avvicendamento” e che Petraeus sia destinato a sostituire l’Ammiraglio Mike Mullen attualmente a capo degli Stati Maggiori americani (Joint Chief of Staff). Una promozione di ruolo sicuramente meritata dal Generale ma, forse, in questo momento dettata solamente da motivi politici. Inopportuna sul piano del successo militare in quanto messa in atto quando la tattica di Petraeus sembra avere qualche successo. La sostituzione del Generale potrebbe, infatti, invogliare l’avversario talebano a “rialzare la testa” durante il periodo di transizione, mentre ora, sotto l’azione di Petraeus, sta perdendo terreno giorno dopo giorno.

18 febbraio 2011 - ore 14.00

mercoledì 16 febbraio 2011

La protesta islamica non si ferma

La protesta islamica dei sunniti partita dal Magreb sta avendo il previsto effetto domino e sta coinvolgendo anche le popolazioni sciite. In Bahrein due morti durante la repressione delle manifestazioni. Nella Capitale, Manama, migliaia di sciiti hanno partecipato ai funerali mostrando il proprio dissenso con cortei in cui sono state protagoniste le donne vestite con lo “chador”, usanza ereditata dalla rivoluzione iraniana del 1978 e che rappresenta il segno esteriore del rifiuto verso l’Occidente. In Barein gli sciiti chiedono una riforma della costituzione che garantisca loro una rappresentanza in un Paese governato da due secoli e mezzo dalla dinastia sunnita dei Khalifa. Nello Yemen è il quarto giorno di proteste contro il governo, organizzate dalla classe colta del Paese, avvocati e studenti che a Sanaa chiedono le dimissioni del presidente Ali Abdallah Saleh, al potere da 32 anni. Dall’India giungono notizie di malcontento fra le minoranze islamiche. In Libia la protesta sta montando. A Bengasi nella notte molte persone sono rimaste ferite negli scontri fra manifestanti e polizia che fronteggiava una folla definita di “sabotatori”, scesa in piazza gridando slogan come “Libia libera” e “Gheddafi fuori” (ANSA). Gheddafi sta cercando di controllare la protesta cercando di soddisfare le richieste più pressanti come il rilascio di un centinaio di detenuti islamici rinchiusi nel carcere di Abu Salim di Tripoli, appartenenti al Gruppo Combattente Islamico considerato fuori legge. La situazione, giorno dopo giorno, sta evolvendo in senso negativo e valutazioni comuni a molti analisti portano a prevedere un’elevata percentuale di rischio per lo Yemen seguito dalla Libia e dall’Algeria fino ad arrivare a coinvolgere anche gli Emirati Arabi. A fattor comune delle manifestazioni già iniziate e destinate ad estendersi c’è la rivendicazione dei diritti civili e sociali per l’abrogazione delle leggi di emergenza, l’applicazione dell’equità sociale e perché sia garantito al popolo di poter partecipare democraticamente alla vita del Paese. Richieste esaltate dalla disoccupazione e dal malcontento delle generazioni più giovani che non vedono il futuro adeguato alle loro aspettative e che ben presto potrebbero coinvolgere anche altre importanti realtà islamiche come l’Iraq, il Libano e la Siria dove la protesta potrebbe avere inizio proprio dalle minoranze sciite. Dopo il muro di Berlino sta crollando un’altra barriera, il “muro della paura” che per anni ha contraddistinto l’estremismo di molti Paesi islamici. Un effetto contagioso che a breve potrebbe estendersi addirittura all’Iran dove a Teheran si sono avute le prime avvisaglie prontamente contrastate con violenza dal regime. Il Presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad, infatti, dopo aver manifestato la propria approvazione per quanto avveniva in Tunisia ed in Egitto definendolo come “rivoluzioni islamiche”, ha dovuto prontamente difendersi dall’onda anomala che provenendo da ovest poteva coinvolgere gli appartenenti al “Movimento Verde” già protagonista nei tumulti del 2009. Moti di ribellione che ben presto potrebbero estendersi anche alle realtà islamiche dell’Africa Centrale e dell’estremo Oriente. Di fronte a queste evidenze si rimane perplessi per l’atteggiamento europeo e statunitense. L’Europa non dimostra di voler aiutare le popolazioni coinvolte dai vuoti di potere che si sono creati nella regione rivierasca del Mediterraneo, dimenticando che storicamente il suo destino è legato a quello del “Mare Nostrum”. Obama, Premio Nobel per la Pace, induce una serie di interrogativi. Organi di stampa riferiscono, infatti, che il Presidente americano sembra voler stanziare 30 milioni di dollari a favore delle minoranze che intendono manifestare il proprio dissenso verso regimi dittatoriali e pubblicamente ha manifestato la speranza che, imitando il modello egiziano gli iraniani “abbiano il coraggio di continuare a protestare”. L’inerzia europea ed il pragmatismo politico di Obama potrebbero rappresentare un rischio per la sicurezza mondiale alimentando i focolai locali a totale vantaggio delle organizzazioni estremistiche come Al Qaeda, che, sicuramente, ha già inserito proprie cellule fra i dimostranti e fra i flussi di profughi che tentano di varcare il Mediterraneo per raggiungere l’Occidente.
16 febbraio 2011 - ore 13.00

domenica 13 febbraio 2011

Egitto, le incognite del dopo Mubarak

Il presidente Mubarak si avvia verso un esilio dorato ed il popolo egiziano esulta per la raggiunta democrazia. Un’esaltazione popolare giustificata dopo trenta anni di oscurantismo ma che nell’immediato futuro potrebbe essere disillusa. Cosa sia successo davvero in Egitto al momento non è facile giudicarlo. Permane qualche dubbio sulla certezza che il Paese si sia avviato verso un futuro sicuramente democratico e che sia stata veramente riconosciuta la sovranità popolare. Venerdì scorso Mubarak è uscito di scena ed ha passato all’Esercito la gestione del Paese. Dimissioni all’ombra di un colpo di Stato incruento che ha visto protagonista il Ministro della Difesa Hussein Tantawi ed in cui i militari hanno preso il potere con la “benedizione di Allah” a cui si è riferito espressamente Omar Suleiman quando ha comunicato al popolo con un approccio non propriamente laico: “Nel nome di Dio Misericordioso …………………………….il Presidente Hosni Mubarak ha deciso di dimettersi ………….ed ha incaricato il Consiglio Superiore delle Forze Armate di gestire gli affari del Paese. Che Dio ci sia d’aiuto”. E’ stata anche confermata l’operatività dell’attuale Governo alla guida di Suleiman che dovrebbe rimanere in carica fino alle prossime elezioni, come ufficializzato dal Consiglio delle Forze Armate. E’ fuori di dubbio che almeno per ora la politica di Mubarak sia destinata a non essere cancellata. Ad oggi sono stati confermati proprio gli uomini più vicini a Mubarak, i fedelissimi del vecchio regime che ora hanno preso direttamente in mano le sorti del Paese senza più passare attraverso il vecchio Presidente. I Capi di Stato Maggiore dell’Esercito, della Marina e dell’Aeronautica, il Ministro della Difesa anche lui militare di elevato rango ed il potente Direttore dei Servizi Segreti egiziani che dal 1991 gestisce una delle migliori strutture d’Intelligence del Medio Oriente. I più anziani formati nelle Accademie Militari dell’ex Unione Sovietica e poi passati ad essere gli alleati più stretti degli USA. I più giovani, come il Capo di Stato Maggiore della Marina, Hafez Anan usciti direttamente dalle Scuole Militari americane e gestori del network quotidiano con il Dipartimento di Stato. Tutti protagonisti a diverso livello nelle guerre del Kippur e dei Sei Giorni contro Israele e sicuramente legati a doppio filo con Suleiman. La situazione egiziana non è quindi esattamente delineata come non può affermarsi che ormai il Paese sia di certo avviato verso una democrazia moderna e liberale. Gli antichi retaggi non sono stati cancellati con evidenza, ma sono solo passati di mano, dal Presidente Mubarak ai suoi fedeli collaboratori di un tempo, concettualmente distanti dalla folla che ha manifestato. Una contingenza che spinge ad auspicare che gli Stati Uniti ed Europa abbandonando gli approcci politici di facciata cerchino di individuare e proporre fatti concreti, progetti ed idee che aiutino l’Egitto ad uscire dal momento di transizione e che agevolino ed accelerino il processo di maturazione verso un futuro di sviluppo e crescita socio economica. Altrimenti si correrà il rischio di una nuova intifada che potrebbe estendersi a tutti i Paesi islamici dell’area mediterranea favorendo anche possibili forme di radicalizzazione religiosa, con il rischio che il periodo di transizione sfoci in una realtà in passato già vissuta in altri Paesi emergenti da regimi non propriamente democratici. La caduta della dittatura potrebbe, infatti, lasciare spazio ad altre forme autoritarie di governo.

13 febbraio 2011 - ore 11.00

venerdì 11 febbraio 2011

Il futuro dell’Egitto

Hosni Mubarak il Presidente egiziano è protagonista di un’altanelante situazione che, ora dopo ora, lo vede passare dal timone del suo Paese alla ipotesi di un esilio dorato per poi, invece, riconfermare la sua reggenza. L’alba del dopo Mubarak, però, è prossima, ma forse il Paese non è ancora pronto ad affrontarla senza che si corra il rischio di una guerra civile in cui le Forze Armate ed in particolare l’Esercito potrebbero avere un ruolo fondamentale. Un rischio che comincia ad essere elevato in quanto molti Ufficiali anche di rango elevato stanno dichiarando pubblicamente la loro volontà di appoggiare la folla che manifesta e che potrebbero contribuire a spaccare una struttura fino ad oggi solida e coesa. Un Esercito che in questi giorni ha dimostrato molta “prudenza” nel gestire i manifestanti, quasi volesse ingraziarsi la folla per preparare un futuro in cui i militari potrebbero essere coinvolti nel nuovo governo egiziano. Molte le ipotesi che si leggono in questi giorni, alcune fondate, altre forse prodotte dalla immaginazione di improvvisati conoscitori della situazione reale che contraddistingue l’Egitto e l’intera regione dell’Africa mediterranea e del Medio Oriente. Quasi nessuno, però, si è soffermato sul ruolo che potrebbe giocare nell’immediato l’attuale Vice Presidente Suleiman, originario del sud dell’Egitto, ex militare di prestigio che ha partecipato con onore alla guerra dei Sei Giorni ed a quella del Kippur che da anni lavora nei servizi segreti egiziani, di cui è diventato Direttore dal 1991. Il responsabile di una struttura potente, l’EGIS (General Intelligence Service), considerato a livello mondiale come il gestore di una delle strutture di Intelligence più potenti nel mondo. Nel 2009 la rivista Foreign Policy lo ha definito il “Capo dei Servizi Segreti più potenti del Medio Oriente” conferendogli un ruolo fondamentale nei rapporti internazionali dell’Egitto. La permanenza di Suleiman ai vertici dell’Intelligence egiziana per decenni è stata determinata dalla stima incondizionata di Mubarak nei confronti di un uomo che in tutti questi anni ha condiviso ogni posizione del suo Presidente, in particolare per quanto attiene alle relazioni con l’Iran, all’ordine interno ed ai rapporti con Egitto, Israele e Stati Uniti. Il personaggio, probabilmente sapeva dell’imminente rivolta popolare, da chi è stata organizzata e del perché sia stata attuata, per cui in questo momento potrebbe essere l’unico in grado di gestire gli equilibri interni amministrando i rapporti con le forze di opposizione, con i Fratelli Mussulmani e, nello stesso tempo, curando le relazioni internazionali in particolare con gli Stati Uniti ed Israele. Forse è anche l’unico in grado di evitare che la rivolta dilaghi oltre i confini egiziani come paventato dallo stesso Gheddafi che sta guardando con ansia al 17 febbraio p.v., “giorno della collera” in cui l’opposizione libica intende realizzare una manifestazione di massa contro il regime. Per l’Egitto quindi si potrebbe configurare nell’immediato un futuro in cui il Paese sotto il controllo dei militari, segua l’esempio della Turchia raggiungendo un assetto democratico che garantisca il controllo e la gestione dell’Islam politico ed evitando il rischio che possano affermarsi le forze più radicali, come avvenuto nel 2006 con Hamas in Palestina. In questo contesto, la figura di Suleiman potrebbe forse giocare un ruolo determinante.
11 febbraio 2011 - ore 12,30

giovedì 3 febbraio 2011

Egitto, la situazione sta implodendo

Gli scontri di piazza di ieri al Cairo lasciano presagire un futuro incerto per questa Nazione custode di una storia millenaria. La rivolta contro Mubarak rischia di trasformarsi in guerra civile e la gente ancora una volta potrebbe essere utilizzata da chi aspira ad insediarsi nei palazzi del potere. Un effetto domino destinato a rivitalizzando il fanatismo religioso di tutte le popolazioni islamiche che per anni sono state costrette a vivere all’ombra di false democrazie. La situazione egiziana non lascia presagire nulla di buono. Il comportamento dell’Esercito che ieri ha “assistito” senza intervenire agli scontri fra le fazioni pro e contro Mubarak porta a non escludere che alcuni degli ex militari oggi nel Governo e vicini all’attuale Vice Presidente Omar Suleman fino a ieri responsabile dell’intelligence egiziana, stiano pensando ad un possibile colpo di Stato per ristabilire l’ordine nell'attesa di libere elezioni. Almeno fino a quando gli egiziani non abbiano designato candidati all’altezza di poter continuare a gestire in futuro un ruolo calmierante fra i rapporti del mondo arabo con Israele. L’Egitto fin dal 1973 ha rappresentato il polo fondamentale di tutto il mondo arabo, il centro di gravità intorno al quale negli anni si sono concentrati gli equilibri dell’area mediorientale moderata. Se, invece, nel Paese tornasse il fondamentalismo probabilmente sarebbe rimesso in discussione il diritto di esistenza di Israele riconosciuto con gli accordi di Camp David e con la smilitarizzazione del Sinai. Tutto il Medio Oriente, quindi, potrebbe essere coinvolto nella spirale con una conseguente rottura degli equilibri finora raggiunti in Africa settentrionale dopo la fine del periodo coloniale e la pace fra egiziani e gli israeliani. Un sussulto che sta propagandosi nel cuore dell’Africa islamica, in Sudan dove si è iniziato a manifestare non appena si è concluso il referendum con cui il Sud cristiano ha deciso la sua scissione dal nord islamico (99 % di sì). A Kartoom migliaia di giovani ispirati agli eventi di Tunisi e del Cairo hanno mostrato dissenso contro la politica dittatoriale del Presidente Omar e- Bashir che è al potere dal 1989. In sintesi, chiunque prenderà il posto di Ben Alì e di Mubarak non potrà fare a meno di confrontarsi con fazioni vicine all’estremismo islamico, primi fra tutti i Fratelli Mussulmani, che dovranno essere assolutamente coinvolti nell’affrontare e risolvere le esigenze prioritarie che oggi hanno portato le popolazioni a manifestare. Se ciò non avvenisse si correrebbe il rischio di lasciar spazio ad una nuova involuzione radicale tipo quella iraniana. Un Iran che giornalmente dimostra simpatia ed approvazione per quanto avvenuto in Tunisia e sta avvenendo in Egitto e che per il tramite del proprio Ministro degli Esteri ufficializza “che il Parlamento iraniano e la Nazione sostengono la rivolta contro i regimi dittatoriali e che la protesta nei Paesi del Nord Africa compreso l’Egitto” evidenziano “la fine dell’era di controllo delle potenze arroganti (esplicito riferimento all’Occidente, ndr)” mentre “il popolo vuol decidere da solo del proprio destino” (Agenzia Isna). Un editto cui si è unito anche Sheikh Naeem, numero due degli Hezbollah libanesi, che ha espresso parole di plauso nei confronti dei manifestanti egiziani, in particolare coloro che rappresentano i gruppi politici che da sempre hanno rifiutato ogni possibile rapporto con Israele. Il domani resta quindi incerto anche per quanto in questi giorni ha affermato ufficialmente l’iraniano Ayatollah Ahmed Khatami. Costui già intravede nel futuro dei Paesi in rivolta un modello statale simile a quello iraniano in quanto “il Medio Oriente islamico è stato creato nel rispetto dell’Islam, secondo un modello di democrazia che coinvolge in prima persona i capi religiosi”.

3 febbraio 2011 - ore 12.00